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Archives 2010

Diario di un blogger attraverso il 2010

Quando un altro anno se ne va via, un blogger ha un vantaggio dalla sua parte: un diario bello e fatto da poter sfogliare per ripercorrere a modo suo questo 2010. La scrittura è sempre farcita di emotività e di vita quotidiana, ma mi pare l’occasione per rivivere gli ultimi 12 mesi dell’anno.
Ricorderemo il 2010 per quella diavoleria tecnologica dell’iPad , ma anche per l’euforia di Facebook che a volte è diventata isterismo da “sindrome del mi piace”, onirico desiderio di calunniare, tenera strategia per corteggiare una donzella  o per festeggiare San Valentino . Le pagine del diario privato hanno preso il sopravvento nel calore della sciarpa di Antonia, nel disegno del dolcissimo Carmine, nei micro viaggi nei miei luoghi natali, in un racconto d’estate a puntate  o su un block-notes dopo la mia estate in Corsica. L’attualità mi ha ricordato la turbolenza della Fiat di Pomigliano , l’uccisione del Sindaco-pescatore, la guerra della monnezza a Terzigno  o la protesta degli studenti a Roma. Le buone o le cattive abitudini (dipende dai punti di vista!) mi hanno riportato nei matrimoni del Sud tra le bustarelle e le reunion familiari.
E poi ancora la delusione per l’uscita degli azzurri dai Mondiali, l’urlo dei ricordi per la Spagna campione del mondo, il sapore dello gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta, Calabria on my mind, ed io autista per un giorno a Brescia.
Mi mancheranno tre volti noti che se ne sono andati nel 2010: Sandra Mondaini, Mario Monicelli e Enzo Bearzot.
Devo eleggere una persona dell’anno, rovistando tra i miei post? E’  Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Con lei e con te, caro lettore, ho attraversato il 2010 e sono pronto per condividere  anche “l’anno che verrà”. Cin cin…

Caro Babbo Natale, ecco perchè non ti ho scritto più!

Caro Babbo Natale,
in giro sento dire che non servi più, che anche per te è arrivata l’ora della pensione: la previdenza sociale di quest’Europa traballante potrà sostenerti? Secondo me ti rinchiudono in una triste casa di cura per anziani e ti liquideranno così: “Era troppo stanco, si sentiva inutile”. Macché, questa è la solita frase fatta per tenere a bada i rimorsi delle nostre coscienze quando sbattiamo gli anziani negli ospizi.
Ho visitato la prima casa per anziani, nei primi anni ’80, durante le scuole elementari. La maestra ci disse che avremmo adottato un nonno per Natale. Io allora ne avevo già uno e credevo che tutti i vecchi avessero una bella nidiata di nipotini. Mi sbagliavo così come sugli spot che mi facevano vedere le case di cura come degli alberghi.  Il mio “nonno per un giorno” si chiamava Vincenzo e ti assomigliava tanto. Per un periodo mi convinsi che fossi davvero tu, quell’anziano signore sulla sedia a rotelle, prigioniero in quell’ospizio alla periferia di Napoli. Tentai invano di persuadere i compagni di classe a liberarlo e a portarlo a casa con noi. Nessuno mi diede ascolto.
La maestra mi suggerì di scriverti una letterina per chiederti di prenderti cura di Vincenzo. Ed io che pensavo tu portassi solo i doni ai bambini! Qualche mese dopo tornai dal mio nonno adottivo, ma lui non c’era più. Mi fecero credere che la mia calligrafia era così pessima che tu non avessi letto la mia richiesta. Per tanti anni ce l’ho avuta con te ed ecco perché non ti ho più scritto.
Caro Babbo Natale, torno a scriverti dopo trent’anni: puoi caricare sulla tua slitta più bambini possibili e fare in modo che trascorrano il giorno di Natale con i tanti nonni e nonne dimenticati?
Chissà che non sia il Natale giusto che io ritrovi pure Vincenzo, quel vecchietto sulla sedia a rotelle che ti assomigliava tanto.

Ci mancherà Enzo Bearzot e l’Italia che faceva squadra

Prima ancora che il calcio fosse annebbiato dalla tangentopoli dei pallonari, c’era la compostezza di Enzo Bearzot. Prima ancora che gli stadi fossero affollati da grezzi sbruffoni, c’era lo stile di Enzo Bearzot. Prima ancora che le rincorse emotive dietro un pallone si riducessero ad una ingordigia di violenza, c’era la sportività di Enzo Bearzot.
Come calciatore se lo ricordano in pochi, quei quattro gatti legati alle cronache sportive in bianco e nero del Belpaese del secolo scorso. Come Commissario Tecnico se lo ricordano in tanti, perché nel 1982 ci fece sognare ai Mondiali di Spagna con la Nazionale Italiana Campione del Mondo. In quell’occasione ci sentimmo eroi invincibili per più di una stagione, perché è vero quando si dice che tra gli spalti di uno stadio si assiepa lo specchio sociale. Quest’Italia di oggi, furbetta e cinica, è figlia di un’Italia che tentava di rifarsi la faccia attraverso il sorriso sornione del partigiano romantico, il Presidente tifoso Sandro Pertini. Questione di stile, in politica come nel calcio?
Allora Bearzot c’entra con Pertini. C’entra perché fu testardo a credere nei nuovi campioni – i Tardelli, i Rossi, gli Zoff, i Cabrini – non attraverso l’edonismo degli allenatori globalizzati, bensì nel vero gioco di squadra che si fa bilanciando il tatticismo della testa con la passione del cuore. Quello di Vecio era un altro calcio, quello dello stare assieme. Enzo Bearzot ci mancherà perché oggi ognuno vuole vincere da solo, ad ogni costo. Lui ci ha dimostrato che, nel gioco come la vita, lo scintillio di una vittoria condivisa vale più di qualsiasi altra gloria subordinata al becero individualismo.

Sotto l’albero di Natale tra Blake Edwards e Audrey Hepburn

Alle mie spalle c’è l’albero di Natale che fa luce nel buio. Alla mia sinistra campeggia la locandina di Colazione da Tiffany, con Holly (la protagonista del film) che prende forma in un regolare disegno. Escono dallo schermo televisivo a 40 pollici Audrey Hepburn e George Peppard e mi sembra di toccarli con mano. Niente effetti 3D, ma semplicemente un DVD della copia restaurata di Colazione da Tiffany. Ma ci rendiamo conto: questa è roba di mezzo secolo fa, ma l’effetto è stupefacente. Audrey canticchia Moon River e io alzo il volume del Dolby Surround. I vicini protestano ed io faccio finta di niente. Com’è possibile che sia così deliziosa? Certo regale in Vacanze Romane, elegante in Cerenentola a Parigi, canterina in My Fair Lady, di classe in Sabrina, ma in questo film è diversa dal solito. Sarà pure la mano del regista.
Chi, quel burlone bistrattato da Hollywood di Blake Edwards? Sì, proprio lui che il pubblico ricorda per i film della Pantera Rosa. Non c’è niente da fare, la vita è fatta di incontri occasionali. Edwards non l’ho mai conosciuto, ma tanti anni fa in quell’aula universitaria incrociai una professoressa sopra le righe. Silvana Valerio mi disse papale papale: “Se vuoi amare il cinema, metti via i paraocchi e sali sulla giostra”. Tra i titoli di quella giostra c’erano La Pantera Rosa, Hollywood Party, SOB e Operazione Sottoveste. Fu allora che mi convinsi che nello studio come nella vita occorre cambiare i punti di riferimento, altrimenti si finisce nella solita gabbia, perché ognuno ti vorrebbe a sua immagine e somiglianza.
Intanto il film è terminato ed io mi chiedo cosa avessere in comune Blake Edwards e Audrey Hepburn. Essere due americani nati nel posto più sbagliato, perché sono più europei di tutti noi messi assieme. Mannaggia, inciampo nel buio senza accorgermi della notizia che esce dal pc: “Il regista Blake Edwards è morto a quasi novant’anni”. La solita burla! Forse la vera burla è un’altra, essermi trovato sotto l’albero di Natale tra Audrey Hepburn e Blake Edwards.

Guerriglia a Roma: strumentalizzare il diritto di manifestare?

Quel martedì nero di guerriglia urbana a Roma non lo dimenticheremo facilmente. Se avessimo fatto uno switch sul bianco e nero dei nostri LCD, avremmo rivisto qualche sequenza degli Anni di Piombo. Sì proprio gli anni ’70, quelli liquidati con le assoluzioni sibilline dei mostruosi attentati a Piazza Fontana e a Piazza della Loggia. Mentre la rivolta studentesca, che ha preso d’assalto i monumenti italiani, è liquidata da qualcuno come coreografia e folclore, l’ondata violenta nella capitale contro il Governo intimorisce, scandalizza, depista.
Punto uno: intimorisce perché occorre far chiarezza su un punto, e cioè chi fossero gli aggressori infiltrati che hanno procurato violenza, facendo danni per oltre 20 milioni di euro e, soprattutto, messo in pericolo la vita di manifestanti e forze dell’ordine.
Punto due: scandalizza perché, come ipotizza il settimanale l’Espresso, potrebbe esserci la presenza di “agenti provocatori” all’interno dei cortei.
Punto tre: depista perché questa guerriglia cittadina rischia di trasformarsi in una ridicola strumentalizzazione ai danni degli studenti italiani. Nessuno si è chiesto: perché mai c’è tanto malcontento in Italia?
Fanno bene le associazioni studentesche a prendere le distanze dalla violenza e a ribadire un concetto: manifestare è un sacrosanto diritto. Il Belpaese lo sta dimenticando perché gli uomini col megafono diventano una rarità, mentre i poltronai si moltiplicano, alla faccia delle sequenze delle sommosse delle banlieue parigine, che sembrano un ricordo sbiadito. E in tutto questo un po’ di colpa ce l’avranno pure quei genitori salottieri, “i mostri invisibili” che ieri sono stati a guardare con viltà il ’68 tra le mura domestiche e oggi ammazzano le coscienze collettive dei figli con la vergognosa filastrocca: “Lascia perdere il megafono e resta a casa a studiare”.
Ci sono tante modalità di protestare, senza inciampare in atti di vandalismo e aggressività, come quelli che ci propina la tv ad ogni ora del giorno. Scusate, se insisto: non è stato “violento” il trailer onirico di Bruno Vespa su Sarah e Yara, che ha interrotto una settimana fa il film Cenerentola? Ne vogliamo parlare?

Vincenzo e i sogni ad occhi aperti di un imprenditore del Sud Italia in Romania

Sale e scende dall’aereo come se fosse un autobus. Nonostante la recente nomina in Confindustria Romania di Coordinatore nazionale all’Ambiente e all’Energia, Vincenzo snobba la business class e svolazza tra i cieli in stile low cost. Poco conformista per uno che, in qualità di Membro del direttivo di Unimpresa Romania, oggi passeggia con l’ambasciatore italiano e dopo domani è a cena col Presidente Băsescu. Quando atterra all’aeroporto di Capodichino, i tassisti non osano avvicinarsi perché la risposta è la solita: “No, grazie. Ho il grande privilegio di avere i miei figli Elisabetta, Ada e Luigi che mi portano a zonzo”.

Del resto, non può essere altrimenti per un paladino della semplicità come lui, figlio del Sud Italia. Anzi, “figlio del Sud”, come ci tiene a precisare lui stesso, nonostante si sa che non si è mai profeti in patria, vista l’aria che tira nei piccoli centri di periferia. Eppure Gaudino è uno dall’occhio lungo. Una decina d’anni fa ha spostato l’attività imprenditoriale dalla provincia di Napoli a Bucarest non per un capriccio estemporaneo, ma perché aveva intuito che il nuovo asse economico si spostava nei Paesi dell’Est. Oggi Telecomponenti Romania rappresenta un’attività industriale fortemente consolidata all’estero attraverso forniture di energia, telecomunicazione e gas.

Nel luglio del 2009, Vincenzo Gaudino è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine di Malta, ma non ha perso quel suo humor tagliente che lo caratterizza: pranzare con lui è un piacere perché ti fa tuffare nella piscina della memoria locale, in cui pure un siparietto dai colori paesani può diventare un acuto momento di riflessione.

Chissà in quanti hanno pensato che la scelta di Vincenzo Gaudino fosse una “pulcinellata”, ovvero una bricconata di chi abbandonava le certezze del piccolo feudo per lanciarsi in nuove sfide. Nessuno aveva colto in flagrante il sogno di questo meridionale, quello dell’uomo che si è fatto da sé. Il territorio dovrebbe tutelare di più gli imprenditori di razza come Gaudino, perché la “passione” è l’ultima chance per il riscatto del nostro Mezzogiorno. E per una volta lasciamo in soffitta i soliti luoghi comuni!

New York 8/12/2010 h.22.50 – Milano 9/12/2010 h.4.50, In memoria di John Lennon

Mother, Hold On, I Found Out, Working Class Hero, Isolation, Remember, Love, Well Well Well, Look At Me, God, My Mummy’s Dead,Imagine, Crippled Inside, Jealous Guy, It’s So Hard, I Don’t Want to Be a Soldier, Gimme Some Truth, Oh My Love, How Do You Sleep?, How?, Oh Yoko! , Woman is the Nigger of the World, Sisters O Sisters, Attica State, Born in a Prison, New York City, Sunday bloody Sunday, The Luck of the irish, John Sinclair, Angela, We are all Water, Cold Turkey, Don’t Worry Kyoko,Mind Games, Tight A$, Aisumasen (I’m Sorry), One Day (at a Time), Bring on the Lucie, Nutopian International Anthem, Intuition, Out the Blue, Only People, I Know (I Know), You Are Here, Meat Cit, Going Down on Love, Whatever Gets You Thru the Night, Old Dirt Road – (John Lennon/Harry Nilsson), What You Got, Bless You, Scared, #9 Dream,Surprise, Surprise (Sweet Bird of Paradox),Steel and Glass, Beef Jerky, Nobody Loves You (When You’re Down and Out), Ya Ya, Power to the People, Give Peace a Chance, Istant Karma, Happy Xmas (War is over), (Just Like) Starting Over,Cleanup Time,I’m Losing You, Beautiful Boy (Darling Boy), Watching the Wheels, Woman, Dear Yoko.

La tua musica ha solcato la mia adolescenza, i tuoi versi sono diventati la voce della mia coscienza. Allora come adesso ogni tua canzone resta la colonna sonora della mia vita, perchè nelle tue contraddizioni c’è l’affannosa ricerca dell’uomo di un mondo più giusto. Immagino che… Ed io voglio crederci ancora.
A John W. Lennon (1940-1980)

 

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8 dicembre, 30 anni senza John Lennon

Ci sono modi e modi per andare contromano rispetto alla tua generazione. Il pericolo era uno solo e non era da poco, anche alla fine degli anni ‘80: rischiavi di isolarti, perché mentre gli altri ascoltavano Vasco e cazzeggiavano col Sì della Piaggio, le tue frequentazioni musicali si aggiravano dalle parti di John Lennon (1940-1980) e in sella alla tua Vespa rossa sognavi di fuggire a Liverpool, nella sua città natale. Eppure per molti Lennon è stato il capriccio di una stagione, un fuoco di paglia nel passaggio dall’adolescenza alla gioventù. Per me la musica di Lennon è stato il portone che mi ha fatto rompere le barriere e i pregiudizi di chi pensa che una canzone non possa essere contemporaneamente arte, letteratura e visione.
L’8 dicembre il mondo ricorda i 30 anni dalla scomparsa dell’ex Beatles nella lapidaria esclamazione del fan assassino “Bang, bang! Sei morto!”. Io rivivo invece gli ultimi vent’anni della mia vita tra le notti indigeste a riascoltare le sue canzoni; in viaggio tra Londra, Liverpool e New York; le scorpacciate di libri ed articoli per scoprire quale mistero o pozione magica ci fosse nell’anima contraddittoria di questo artista; quella vigilia di Natale di dieci anni fa in cui il postino suonò due volte al campanello di casa mia per recapitarmi una lettera speciale. Il mittente era la signora Yoko Ono Lennon che, colpita da un mio breve messaggio, mi aveva spedito gli auguri di Natale con una breve poesia, a firma anche del marito.
Tutto questo lungo tempo, in cui mi sono divertito a fare il trasformista da studente ribelle ad universitario per passione, da nomade lontano dalla terra natale a scrivano per mestiere, mi ha lasciato una filosofia inconfutabile: “Immagina che…”, testamento sospeso di John Lennon che non pone “l’immaginazione” su un altarino infantile, ma le restituisce la vitalità nella conquista dell’utopia.
“Imagine all the people living life in peace” non è l’ostinata presa di posizione del Lennon sognatore, ma la riflessione di chi aveva capito che lo scivolone tra “immaginazione” e “utopia” ci avrebbe allungato la vita. Perciò tra la mia capigliatura brizzolata è ancora superstite l’ultima ciocca di quei capelli lunghi che portavo a vent’anni, segno della ciclicità delle stagioni dell’esistenza; perciò nella notte dell’8 dicembre del ’90  mi misi fuori al balcone con una radiolina accesa sulle note di Imagine; perciò ancora oggi vado contromano rispetto alla mia generazione, che spesso ritrovo ammutolita nel suo torpore, qualche volta sconfitta, certe volte afflitta. A John Lennon devo qualcosa di quel che sono: il coraggio di essere rimasto sognatore. Il rischio? Camminare da solo, crescendo come una voce fuori dal coro.

Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!

Busta o non busta, questo è il problema. Mica quella dell’immondizia, ma la bustarella con i soldi che non può mancare ad ogni matrimonio napoletano che si rispetti. Tutti lo snobbano, ma poi tutti vogliono il regalo in cash. Con la crisi che c’è in giro, ritrovarsi tra gli invitati di un banchetto nunziale non è confortante per niente.
Una volta le indagini si facevano via telefono, adesso basta aggirarsi sulle bacheche dei social network per sondare gli umori e capire quanto bisogna sborsare per far felice i neo sposini. Tuttavia, il regalo in busta è anche l’ultima spiaggia per pagare il conto salato della cerimonia: chi famiglia napoletana rinuncerebbe mai all’evento sfarzoso? Nel 1971, un cugino di mia madre, organizzò il matrimonio facendo i conti sui regali in denaro degli invitati, senza calcolare il rischio di non raggiungere la somma necessaria. Nonna Lucia fu molto chiara con nonno Pasquale dopo il taglio della torta e gli bisbigliò: “Pasqua’ dobbiamo raddoppiare la somma per Enzuccio, altrimenti restiamo qui a lavare i piatti”.
Quarant’anni fa come oggi la ruota gira sempre allo stesso modo, con una differenza: nel nuovo millennio i matrimoni durano il tempo di una stagione. Insomma, gli sposi dovrebbero impegnarsi con gli invitati a restituire il premio in caso di divorzio o separazione entro i primi 36 mesi di vita coniugale. Per non parlare dei separati e divorziati che circolano in Italia, molti dei quali hanno la faccia tosta: si risposano per la seconda, terza e quarta volta e pretendono pure la bustarella! E poi non ha ragione zia Concettina a starnazzare: “Il mio dovere l’ho fatto al primo matrimonio. Mmo’ basta”.
Scampato il pericolo della lista nozze, le alternative sono due: riciclare un vecchio regalo inutile, trafugato da qualche altra ricorrenza oppure donare i soldi agli sposi in sei comode rate.
Povero papà mio, meno male che non legge i miei articoli, altrimenti creperebbe dalla vergogna. Casomai salirò all’altare, ho già la soluzione: matrimonio “sponsorizzato” da piccole aziende agroalimentari locali,  senza dover chiedere niente a nessuno, con la speranza di poter scrivere con una bomboletta spray: “…E vissero felici e contenti”. O quasi!

Mario Monicelli è andato via, ma i miei ricordi con lui restano qui

Quella mattina avevo in tasca 6.000 delle vecchie lire. Non una lira in più, non una lira in meno. In un’edicola trovai la videocassetta di La Grande Guerra di Mario Monicelli, nell’edizione pubblicata dall’Unità. Riuscii a farmela dare dal giornalaio senza l’aggiunta del quotidiano. Saltai il pranzo e la infilai nel videoregistratore: credo di aver rivisto quel film almeno una quindicina di volte. Quella stessa vhs un paio d’anni dopo mi è stata autografata da Sordi e non mi sarei aspettato di certo di trovarmi a cena con un grande attore (Alberto Sordi), un signor regista (Mario Monicelli) e una sceneggiatrice di classe (Suso Cecco D’Amico). Allora ero uno studente universitario, mezzo saltimbanco tra teatro e cinema, ma dinanzi a me prendeva forma il mio mestiere. Che ne sapevo che bastavano una biro e un taccuino?
Li ho ascoltati tutta la sera conversare con quel rispetto tipico del nipote dinanzi ai nonni, che ti donano la loro memoria preziosa. Sedimentavo in immagini tutti i loro ricordi, recintati nel cuore di tre vecchi amici che davanti o dietro la macchina da presa non avevano mai smesso di divertirsi. E quando Mario Monicelli ha capito che il divertimento era finito, si è gettato dal quinto piano di un ospedale romano prendendosi gioco di noi. Sembra una scena censurata del goliardico Amici miei, ereditato dal compianto Pietro Germi. Una scena tragica in cui coabitano il cinismo, la severità, l’ironia e l’intellettualità dell’ultimo grande maestro del Cinema italiano del ‘900.
L’ho perseguitato per anni, in giro per l’Italia e all’estero, e ogni scusa era buona per strappargli un aneddoto: Monicelli mi raccontò a spizzichi e bocconi di Totò sul set; mi rimproverò perché la mia generazione voleva filmare traumi che non le appartenevano; ammise che il segreto del successo della commedia all’italiana tra gli anni ’50 e ’60 era nell’amicizia e nella complicità tra registi, attori, sceneggiatori. Il segreto era tutto lì, è inutile girarci intorno.
Ho visto tutti i suoi film, ma due pellicole in particolare mi hanno lasciato una bella lezione. La grande guerra mi ha convinto che i veri eroi sono invisibili come il personaggio lavativo e strafottente di Sordi ; Un borghese piccolo piccolo mi ha fatto prendere le distanze dal tipico “borghese cacasotto”, che continuo ad incrociare e ad evitare puntualmente nella mia vita. Il piccolo uomo meschino, che come Sordi si nasconde dentro un paio di baffi, lì seduto nella poltrona del suo salotto, circondato da gingilli, vincente nel suo piccolo ranch e sconfitto ovunque, servo della famiglia imbalsamata con il sedere sporco di cacca. E Mario Monicelli mi ha insegnato che nessuno gliela toglierà dal culo, perciò il borghese resta “piccolo piccolo”.