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Archives 2010

Castellammare dice no alla minigonna. E la cintura di sicurezza?

Ci risiamo. Quando tira aria di ridicolo proibizionismo in Italia, mi scatta la risata facile. Castellammare di Stabia fa la bigotta e dice no alla minigonna. Insomma, il comune senso del pudore del falso Belpaese democristiano ritorna nella città campana: al di là che si mortifichi un simbolo socio-politico del movimento femminista, non mi sembra che un bel paio di gambe in vista possano essere la nostra preoccupazione. Una scelta per offrire più sicurezza alla comunità dai maniaci o dagli eventuali guardoni?
L’ultima volta che sono passato da quelle parti, ovunque mi girassi c’erano persone in auto senza la cintura di sicurezza. Niente di nuovo, perchè a Napoli e dintorni è un optional e chi la mette viene pure considerato  “il fesso della situazione”. Anzi, di recente ho scoperto l’ennesimo escamotage per evitare “il fastidioso suono” delle auto di ultima generazione che ti ricorda di metterla. Il Bip-Stop,una linguetta che si infila al posto della cintura, dovrebbe essere venduto esclusivamente a chi è esente  dall’obbligo di indossarla (Articolo 172 del codice della strada). Peccato che ogni napoletano che si rispetti ha la sua coppia di questo curioso aggeggio e poi infila la cintura soltanto in prossimità del posto di blocco. A questo punto mi chiedo: è più pericoloso un esercito di automobilisti  che non si attiene alle normative di sicurezza o uno squadrone di belle ragazze in minigonna? 
Ecco come alcune forme di censura si tramutano in buffonate, per l’appunto. Da bambino, per qualche anno, volevo fare il vigile urbano. Se si fosse avverato il mio sogno,  mi metterei a caccia di tutti gli strafottenti che non hanno capito l’importanza della cintura di sicurezza, ma fischierei a go go tutte le ragazze in minigonna, sperando di non perdere il posto di lavoro.

Terzigno e la Grande Guerra della Monnezza

Chi voleva strafare con il matrimonio alla napoletana sceglieva uno dei locali kitsch di Terzigno, portandosi appresso mamma e papà che dovevano mettere mano al portafoglio. Adesso il paesotto campano assomiglia sempre più a Baghdad e Kabul perchè quei tric trac, coreografia di questa guerriglia della monnezza,hanno il peso di una bomba e delle grandi abbuffate nessuno se ne ricorda più. Sarà pure la solita illusione ottica, ma le avance in stile democristiano non sembrano far presa sul popolo infuriato. Non lo hanno capito ancora il Governo, le Istituzioni e il fedele Bertolaso, la cui preoccupazione è ridurre al minimo la figuraccia che stiamo facendo con l’Europa. E il ministro Maroni cosa fa? Avanza col pugno di ferro.
La rivolta dei cassonetti di Terzigno, che sta accendendo altre micce in Campania, va oltre il tentativo di evitare sul territorio la seconda discarica.E’ piuttosto uno sfogo collettivo dopo questa depressione cronica che ha contagiato Napoli e provincia: si legge sulle facce della gente, si respira un’aria pesante nei negozi e il dramma disoccupazione è di scena dappertutto . Quando ritorno nel mio Sud, mi sembra di attraversare un’altra nazione. Io non ci sto più, così come non mi sta bene leggere titoli sensazionalisti del tipo “Perché la regione Lombardia funziona e la Campania no”. Ricordiamo che, come ripeteva il saggio Totò, al di là del Po “la nebbia c’è, ma non si vede”. Il business della monnezza è così florido da sostenere le economie locali da trent’anni a questa parte. Qui non si tratta di spostare una discarica da una zona all’altra, ma rincorrere una coscienza collettiva, dolorosamente inesistente. Dopotutto nel coro dei manifestanti c’è pure chi un tempo si era tappato il naso perché ogni sacchetto di spazzatura andava a peso d’oro e l’emergenza rifiuti poteva attendere.
E adesso chi lo dice alle vecchiette, che passano scalze a Terzigno per raggiungere il vicino Santuario della Madonna di Pompei, che siamo stanchi perché i miracoli del nostro Mezzogiorno sono opera di quei quattro gatti che si spacciano per stregoni, santoni e illusionisti? Tornino pure le spose ciacione ad affollare i ristoranti pacchiani di Terzigno, ma senza il terrore che il candore dell’abito bianco sia macchiato dalla deplorevole e presuntuosa convinzione che questa volta Napoli debba spicciarsela da sola. Come si fa con una classe dirigente fantasma?

Una sconfinata giovinezza, dal film di Avati agli occhi di Olga

Io e Pupi Avati abbiamo qualcosa che ci accomuna: il ricordo come capostipite della vita. E se affilassimo la punta del glossario di Foursquare, azzardiamo pure che “la memoria avatiana” ha una sua precisa geolocalizzazione, che vive nell’Emilia-Romagna del regista di Una sconfinata giovinezza. Convivere con una malattia come l’Alzheimer? Mica è roba da poco e poi, quando si tratta di cinema, affrontare certi temi diventa pericolosissimo. Avati ci ha provato, si è fidato (e ha fatto bene!) di un fuoriclasse come Fabrizio Bentivoglio e ha sfornato un bel film, a tratti un pugno nello stomaco, a tratti emozionante come nel finale poetico che a scanso di equivoci accartoccia tutto nella memoria. Da spettatore, durante il primo tempo, ho vissuto il terrore di trovarmi nei panni del degente, con cui condivido se non altro la stessa professione. Nel secondo tempo, mi sono interrogato su quale fosse la giusta via per sostenere un malato di Alzheimer.
Cinque anni fa, dopo aver attraversato in autobus gli USA per seimila chilometri, sono finito alla ricerca di una anziana prozia. Olga era la sorella di nonno Pasquale, aveva lasciato Napoli quando mamma era nata, e da allora in famiglia viveva tra le foto d’oltreoceano e la calligrafia delle lettere che ogni Natale ci inviava da Houston. Dopo aver bussato alla porta, mi sono trovato una signora ottantenne affetta da Alzheimer. Continuamente dovevo ripeterle che non ero il figlio del fratello Pasqualino, ma il nipote. Io e Olga abbiamo trascorso assieme 36 ore, mentre lei vagabondava nella sua “sconfinata giovinezza”, facente capo alla storia della mia famiglia. Lei era felice perché era tornata a preoccuparsi di qualcuno, cioè di me; io mi chiedevo come la condivisione della memoria avesse fatto germogliare un legame così in fretta. Le ho lasciata una foto fatta assieme con la vana speranza che non si scordasse di quel giorno e mezzo. Quando il volto di zia Olga è scomparso dietro  la finestra sapevo che non l’avrei rivista più. Qualche settimana dopo mi è arrivata un’email in cui mi scrivevano che, tutti i pomeriggi all’ora del tè, Olga poggiava lo sguardo sulla nostra foto e sorrideva.
Per la prima volta nella vita mi ero scrollato di dosso quel senso di inutilità che ti assale quando sei accanto ad un malato, che per gli altri magari è un rimbambito. Zia Olga aveva bisogno soltanto di amore, come il protagonista del nuovo film di Pupi Avati.

Il gigante e la bambina, giustizia per Sarah Scazzi!

Al ritorno dalle vacanze avevamo incrociato  il volto di quella ragazza appiccicato ovunque:, dai muri sotto casa alle bacheche della rete. Il messaggio era chiaro: “Chiunque avesse trovato Sarah Scazzi era pregato di farsi vivo”. Nessuno però aveva diffuso l’annuncio all’incontrario, mettendolo giù così: “Chi prima trova l’orco cattivo, prima ci restituisce la speranza che Sarah sia viva”. E’ stato inutile perché il mostro era nascosto in famiglia ed aveva agito in un batter baleno, chissà con la complicità di chi. Svanita la speranza di rivedere Sarah tra le braccia di mamma e papà, oltre 60 mila persone di ogni età alzano la voce su Facebook e chiedono giustizia. Giustizia o vendetta? Forse vendetta, come quella che ci ha assaliti dopo la confessione dello zio Michele Misseri, forse rabbia come quella tra la folla dei funerali di sabato ad Avetrana.
Quindici anni fa un caporedattore mi rimproverò, perché avrei dovuto occuparmi di cronaca nera per crescere nella giungla dell’informazione. Un morto ammazzato valeva la prima pagina di un giornale più di un’inchiesta culturale o di una recensione di uno spettacolo.
Quel misuratore vale ancora oggi dove c’è l’assillo di far numeri ovunque, siano clic o audience. E in questi giorni, nel lavaggio mediatico della tragedia di Avetrana, il volto del carnefice ha preso il sopravvento rispetto a quello della vittima o addirittura compare al suo fianco. Il popolo del web non potrà prendere posizioni che spettano alla giustizia (costituirsi parte civile nel processo?), così come la televisione non può trasformare un delitto in una farsa di costume, facendoci credere che guardare “Chi l’ha visto?” sia come fare una partitella a Cluedo. Per non diventare tutti complici di questo oltraggio mediatico, abbiamo il sacrosanto dovere di delegittimare tutti gli operatori dell’informazione; tutti i salotti televisivi, dal fard dell’Arena di Giletti  al fondotinta di Matrix; tutti gli angoli del web che daranno spazio al dramma dello zio Michele, l’orco assassino da ergastolo rinato nei versi amari della canzone di Rosalino Cellamare Il Gigante e la bambina.

Mamma, Tiziano Ferro è gay e non me ne ero mica accorto!

Sul web, nei social network, sulla carta stampata, in radio o in tv corre veloce il rumor dei primi di ottobre: “Tiziano Ferro è gay. Non me ne sono mica accorto!”. Nonostante tra gli addetti ai lavori circolasse da tanti anni il sospetto, adesso le fanzine del cantautore di Latina devono mettersi il cuore in pace, perché al loro idolo piacciono i maschietti. E quindi cosa cambia?Chi ascolta la musica di Ferro continuerà a farlo, chi non lo fa non cambierà idea, a meno che una tale dichiarazione non lo abbia intenerito e intrappolato nell’ambiguo meccanismo che abbatte il muro tra emotività e gusto musicale. Io personalmente mi sento distante dalle melodie di Tiziano Ferro e, se non mi avessero regalato Alla mia età al compleanno – per ricordarmi che il traguardo dei 40 non è poi così lontano – il suo nome non campeggerebbe nemmeno nel mio archivio discografico.
A pochi giorni dal gossip della tresca tra Corona e Lele Mora, il Belpaese è di nuovo sotto choc. Io lo sarei se scoprissi che la dichiarazione di Ferro fosse “un’operazione sottoveste” che puzza di business. Anzi, forse c’è un percorso di sofferenza interiore così complesso da cui faremmo bene a stare alla larga. Tiziano Ferro ha avuto del fegato, c’è chi invece non lo fa. E il pubblico pettegolo gioca a mettersi di traverso, com’è accaduto al rapper Fibra, lapidato per aver accusato Marco Mengoni, il principe dimenticato di X Factor, di essere gay. Il privato è privato sempre, e non solo quando conviene a noi.

Facebook e la sindrome ossessiva del “Mi Piace”

Ognuno ha le sue ossessioni e Internet ci vizia con quelle mode che possono diventare manie. E’ la volta del “Mi piace” facebookiano. I guru dicono che ha cambiato il nostro modo di comunicare, il termometro del business esulta perché misura i nostri gusti, e noi ci sentiamo inorgogliti quando li vediamo moltiplicarsi sulle nostre pagine di Facebook. Nei giorni della Seconda Repubblica di Internet, quella della democrazia dei social network, abbiamo ridotto e mortificato l’indipendenza e la libertà del nostro pensiero in nome dell”iconografia di “un pollice  all’insù”. Insomma il nostro punto di vista è stato stritolato nella riduttiva sintesi della nostra sacrosanta opinione.
I malati della “sindrome del Mi piace” si stanno infiammando nel falò della vanità. Una volta ce ne andavamo in giro a raccogliere pensieri per capire di che pasta fosse fatta la gente. Oggi spalanchiamo la finestra del pc e pensiamo di aver capito tutto dell’altro attraverso la collezione dei “mi piace”, impigrendoci pure a buttar giù un commento decente. Come se poi chi facesse il famigerato clic con la manina su un nostro pensiero, lo avesse realmente letto o compreso! Per la maggior parte è un modo per farsi notare, per manifestare simpatia. Chiediamo pure agli strizzacervelli del web se abusare del “Mi piace” sia una scorciatoia per amplificare un confine, quello tra il personaggio virtuale, convinto di aver seppellito le proprie frustrazioni, e quello reale, colpevole di aver consegnato le insoddisfazioni quotidiane all’agorà finta di Internet.
Durante una recita scolastica del ’78, mi chiesero perché avessi scelto come partner la mia compagna di banco. Io, alzandomi sulla sedia, declamai: “Mi piace perché ha gli occhi a mandarla, il nasino all’insù e divide merenda con me”. Mi avevano insegnato a motivare la mia opinione.Voglio tornare ad esprimere il mio assenso o dissenso perchè penso, senza quel maledetto dito all’insù. E’ ora che il “Cogito, Ergo sum” cartesiano non prenda più sviste, scivolando sul chiacchiericcio della rete.

60 volte Zero, senza essere un sorcino

Sorcino si nasce o si diventa? Legittimo dubbio davanti una torta con 60 candeline accese. Roma si scompone per il suo “Renato”, mentre chi non ne ha mai voluto sapere dell’etichetta di “sorcino” se ne va su YouTube a fare l’archeologo. C’è poco degli inizi, c’è poco dell’uomo mascherato alle prese con abiti sgargianti e variopinti, c’è poco di quello “Zero” che aveva fatto arrossire l’Italia democristiana degli anni ‘70 col sotterfugio dell’ambiguità. In giro non c’è più niente di Renato Fiacchini, a parte qualche traccia all’ufficio anagrafe.
Eppure ancora avverto un senso di liberazione: nell’estate del 1981 riuscii a fare a meno di quelle “maledette rotelle” della mia bicicletta. Scorazzavo bimbo in un viale di Paestum a due ruote, mentre da un juke-box si sentiva una voce cantare Più su. Cominciai ad interrogarmi, proprio quell’estate, su chi fosse la “madre che si arrende e un bambino non nascerà” e perché “un drogato fosse un malato di nostalgia”. L’anno successivo, salutando la bimba a cui facevo il filo, versai lacrime amare sotto l’ombrellone perché ascoltai da una radiolina “Spiagge dipinte in cartolina, ti scrivo tu mi scrivi, poi torna tutto come prima”. E nel sabato sera invernale, guardando Fantastico 3, mi illusi davvero con Viva la Rai che a viale Mazzini ci fosse “una fabbrica dei sogni”, prima di aver scoperto i ricatti censori che si fanno oggi come allora. Mi era bastata qualche marachella da pianerottolo con il mio compagno di giochi Alessandro per lanciare nel futuro le profezie di Amico, ovvero il flashback di oggi “E ti ricorderai… del morbillo e le cazzate, fra di noi”. Ci sono modi e modi per annotare la data di un compleanno, perchè ora il trucco si è sciolto e le rughe si vedono una per una. Per fortuna una bella canzone può farci fare lo stesso giro per 60 volte,senza invecchiare mai, come il primo repertorio di Renato Zero. Ed è con quella musica che dovrebbe essere guarnita la torta del signor Fiacchini.

Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli

Un mese fa sono tornato a Napoli e ho fatto un giro nei quartieri Spagnoli. Ho pubblicato un post ed ero convinto di essermene tornato a mani vuote. Invece lei era nel palmo della mia mano, con un sorriso, la voglia di vivere, tanta tenacia. Simona fa l’educatrice ed ha lasciato un commento al mio post che mi ha fatto riflettere, facendomi sentire un po’ “vigliacco” per aver mollato la mia terra. Come è accaduto per un’insegnante, Tania, ho voluto che anche Simona entrasse in questo blog dalla porta principale e facesse sentire la sua voce:

“Sono un’educatrice dei Quartieri Spagnoli di Napoli, nel web ho trovato il tuo articolo e ci ho sorriso su. Ho sorriso forse per non piangere. Sono nata nei Quartieri Spagnoli, adesso vivo in provincia di Napoli, ma sui quartieri ci sono tornata da educatrice, perchè se non avessi avuto una situazione familiare diversa vivrei ancora li ed ascoleterei Natale Galletta invece di Claudio Baglioni.
Ci sono tornata da educatrice, con l’associazione QUARTIERI SPAGNOLI. In via Trinità degli spagnoli ci occupiamo del progetto di educativa territoriale: curiamo circa 70 bambini della zona, che seguiamo a scuola e dopo la scuola per combattere la dispersione scolastica tasto dolente sui minori napoletani. Li sosteniamo nei problemi che hanno in famiglia o situazioni di disagio personali. Per tutti loro siamo un punto di riferimento, un modello “diverso” da seguire.
Chi lo sa che non abbiamo più
una struttura per lavorare? Svolgevamo le nostre attività in un centro di aggregazione adolescenti “palazzetto urban”, struttura offerta ad alcuni abitanti di una palazzina che stava per crollare. Gesto ammirevole, ma il Comune non si è degnato minimamente di ridare anche a noi una location per continuare a svolgere le nostre attività.
Le scuole sono ormai riaperte, tanti ragazzi che abbiamo seguito per i tre anni della scuola secondaria di primo grado hanno deciso di non continuare gli studi e noi non possiamo fare nulla per seguirli.
Come leggo, tu  hai scelto di vivere a Milano, non so quante volte ho pensato di andare via, di “emigrare” dicendolo alla maniera di Troisi. Qui il mio lavoro non è capito nemmeno dalle istituzioni. Tra qualche anno sarò costretta ad andar via anche io perchè si sa, su al Nord è diverso. Dovrò lasciare la mia famiglia, i miei affetti più cari, i miei scugnizzi, dopo aver sostenuto 40 esami universitari, aver lavorato nelle condizioni più assurde: ho sostenuto anche turni lavorativi di 24 o 48 ore in una comunità educativa pur di fare “curriculum” per una retribuzione mensile di 450 euro (questa è la situazione lavorativa vissuta prima di lavorare per la mia attuale associaizone), per non essere la laureata novella senza esperienza che si aspetta il lavoro d’ufficio. Faticavo di giorno e studiavo di notte per mantenermi gli studi, accumulavo esperienza e formazione, ma a nulla è valso. L’educatore a Napoli è una figura fondamentale, non riconosciuta. La situazione in  Regione Campania è tragica, continuano a dirci che “tanto denaro è stato gestito male” e gli addetti ai lavori devono risparmiare tagliando quindi sul Sociale. Non veniamo pagati per mesi e mesi,se non grazie all’associazione che con grandi sacrifici ci anticipa parte dello stipendio. Dicono di voler far rinascere Napoli, che il terzo settore è importante, che il futuro è dei giovani ma se non aiutano noi, che ci occupiamo dei bambini di Napoli, quelli che saranno i futuri uomini che popoleranno la Napoli del domani, cosa si aspettano?”

Simona V.

Vincenzo e l’ultima ricetta del medico della mutua

Il medico della mutua dalle mie parti era destinato a diventare un amico di famiglia. Mica è come al di là del Po che ti danno l’orario, giusto il tempo di visitarti con la ricetta alla mano e poi chi si è visto si è visto? Bisogna ottimizzare i tempi mi ripetono continuamente. Dal mio medico al Sud d’Italia c’era sempre coda: diciamoci la verità, ci scappava pure uno scambio di opinioni e questo rendeva più “umano” il rapporto tra l’eloquenza della medicina e i pazienti fifoni come il sottoscritto. Il dottor Vincenzo Bianco è entrato nella mia vita nei giorni caldi della mia adolescenza. In un certo senso ha seguito buona parte delle mie bravate finché, in una mattina di otto anni fa, lo hanno depennato dalla scheda sanitaria e me ne hanno assegnato uno dove abito adesso.
Nessuno lo ha mai cancellato, perché per mia fortuna non assomigliava né al Guido Tersilli di Alberto Sordi né al Nick Riviera dei Simpson. Lo rivedo passare a casa mia nel primo pomeriggio, per la visita domiciliare,  nel suo cappotto marrone e l’inseparabile borsa, senza essersi ancora ritirato o aver pranzato, già pronto per correre allo studio. Io tra me e me mi dicevo: “Come mai un medico così scrupoloso, preciso e appassionato non fa una bella scalata ai piani più alti della Sanità?”. Una persona onesta come Vincenzo non ce la vedevo proprio a fare il Tarzan nella giungla della mala Sanità locale, tra le grinfie dei feudatari potenti della vecchia Balena Bianca, nelle cui mani era deposto il destino tra salti di poltrone, trasferimenti e compagnia bella. Sbarcando nel suo studio, lo trovavo lì alla scrivania, con quell’umiltà e timidezza nascosta dietro gli occhiali. Mi rammentava Charles Bovary, il personaggio di Flaubert che però di professione faceva il veterinario. Vincenzo era uno che difendeva le strutture pubbliche, perché nel cuore era in prima linea al fianco del paziente, con le dovute distanze da chi si era tuffato a capofitto nel feroce business dello “studio privato”.
Tra qualche giorno Vincenzo lascia i pazienti per intraprendere una nuova sfida professionale. Ogni tanto, nel nostro bizzarro Paese, i riconoscimenti arrivano pure a chi fa il proprio lavoro con coerenza e determinazione senza troppi rumori.  Mi piacerebbe che dedicasse “l’ultima ricetta” ai genitori, alla moglie e ai figli, perchè un figlio, un marito o un papà “col camice bianco” è una grande gioia dopo una vita spesa a favore della comunità. E anche per un paziente “anarchico” come il sottoscritto che, mescolati ai ricordi furfanti della provincia, si è portato via l’ultima polaroid di quel medico della mutua del Sud Italia. E forse in quell’ultima ricetta ci sarà anche un po’ di me.

Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più!

Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più perché non capirebbe. Tutti hanno pensato che quel personaggio buffo, nato nel bel mezzo degli anni settanta, fosse stato un capriccio infantile o un passatempo di chi aveva vissuto la gloria del varietà. Nel giorno in cui si svolge il funerale della Mondaini, distraete il malinconico pagliaccio con quelle canzoncine che contagiarono la tv dei ragazzi e i siparietti memorabili che consacrarono l’altra faccia della “dama burlona” dello spettacolo italiano. Sbirulino non ha mai capito chi si nascondesse dietro quel trucco perché hanno provato a convincerlo che il suo “esistere” fosse innocua robetta per far felici i bambini.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più, perché scivolerebbe con prepotenza dalla risata furfantesca alla profondità del dolore. Il “trucco” c’era, ma non si vedeva. Dietro la faccia del clown più famoso del piccolo schermo, si era assiepata l’anima di una donna, che aveva lasciato lustrini e paillette e messo nell’angolo l’egocentrismo della diva per indossare la maschera. Era la maschera a far evaporare il cliché del personaggio, apparentemente burlone, ma trafitto dal cinismo e dalla tragicità della vita.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più perché è l’idiozia umana a farci vedere quanto carnevalesca sia la morte. La donna con la maschera da clown, oggi è tornata ad essere bambina per sempre, come quelli della mia generazione che, col faccino infarinato e in po’ di trucco rubato alle nostre mamme, si sono interstaditi ad essere “Sbirulini” per un pomeriggio, restando prigionieri della bellezza e dello stupore.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più, altrimenti lui smetterebbe di ridere e lei da lassù non si prenderebbe più gioco di noi,  che continuiamo a prenderci troppo sul serio, anche tra le righe di un elogio funebre.