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L’ultima estate di Leopold, settima puntata

A casa non la riconosceva più nessuno, persino il marito che era sempre distratto. Beatrice era diventata irascibile, irrequieta, non faceva altro che andare su e giù. Anche sua madre notò che la figlia fosse turbata e mandava la nipotina Klaudia a sorprenderla mentre singhiozzava in ogni angolo della casa. Erano più di due settimane che Leopold non si faceva più vivo.
Sì è vero, Beatrice si sentiva di averlo ferito con il rifiuto di intraprendere una vita assieme alla luce del sole, ma questo non era un buon motivo per scomparire così. Alla fine di agosto iniziò a cercarlo, ma nessuno sapeva dirle niente. I vicini di casa di Leopold le dissero che l’appartamento era disabitato da un pezzo, ma avevano intravisto qualche settimana prima un furgoncino che caricava alcuni quadri. Erano quelli che Beatrice aveva dipinto per lui. Una sera si prese la briga di assistere ad uno spettacolo al Volksbühne con la speranza di trovarlo all’uscita. Sul manifesto c’era scritto che il tecnico delle luci fosse Leopold, ma a teatro le assicurarono che era stato sostituito all’ultimo momento. Fu in quel periodo che Beatrice capì quanto Leopold fosse importante per lei e visse uno stato di depressione emotiva che le rallentò la vita.
Nella seconda metà di settembre era al parco con la piccola Klaudia, sulla stessa panchina e fu avvicinata da un signore di mezza età che le chiese “E’ lei la signora von Bernstein? Io sono Marc Müller, il papà di Leopold”. Beatrice si alzò di scatto e chiese con impazienza: “Cosa gli è successo? E’ più di un mese che non ho più sue notizie”. “Venga con me”, le chiese il signor Müller. La portò al Volksbühne. Lì, nella sala del teatro, c’erano solo pochi addetti ai lavori e il papà di Leopold disse a Beatrice: “Mio figlio ha voluto che gli ultimi fasci di luce fossero per lei”. Si alzò il sipario, mentre si sentiva in sottofondo un’armonica che suonava il motivetto che Leopold le aveva dedicato all’inizio della loro storia. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, sesta puntata

Beatrice era al settimo cielo perché quei biglietti erano il regalo più bello che avesse mai ricevuto: non aveva visto mai un concerto di Eros Ramazzotti. Le venne in mente di quando ancora studentessa, prima del crollo della cortina di ferro, ricevette in dono da un’amica il primo disco del cantante italiano. Leopold la convinse ad arrivare all’arena O2 World con largo anticipo perché voleva farle respirare l’atmosfera. Lì a Mildred-Harnack-Straße, nell’area del nuovo palazzetto dello sport, mangiarono un invitante panino al wustel bianco, prima che le canzoni diventassero il miglior pretesto per coccolarsi con le tipiche tenerezze da innamorati.
“Leopold, mi hai regalato la serata più bella della mia vita. Non la dimenticherò mai!”, esclamò Beatrice, guardandolo diritto negli occhi e sforzandosi di superare la sua incalzante timidezza. Poi Leopold la portò a Friedrichshain, a passeggiare lungo gli ultimi chilometri di Muro che sopravvivevano in città. Era la notte di San Lorenzo. Mano nella mano trovarono la loro stella cadente ed espressero un desiderio. Poco dopo la mezzanotte, Leopold guardò Beatrice e un fitta di rabbia attraversò il suo sguardo. Le sussurrò con determinazione: “Tesoro, non ne posso più di questa sopensione. Fuggiamo, andiamo via. Portami a vedere il mare dal terrazzino della casa delle tue vacanze. Vivremo felici lì e poi il resto verrà da sé”. E Beatrice rispose con un tono velato di rassegnazione: “Leopold, una fuga così precoce porterebbe alla distruzione di tutto ciò che c’è intorno a me. Ah, se ci fossimo conosciuti prima del mio matrimonio o magari ai tempi del liceo…”. E lui replicò adirato: “Saremmo nella stessa condizione perchè questo maledetto muro su cui sei appoggiata ci avrebbe separati comunque, tu da una parte ed io dall’altra”.
Beatrice singhiozzò e lui la strinse forte a sè. Si sentirono avvolti da un silenzio profondo attraverso cui Leopold le disse tutta la verità, quello che sarebbe successo. Quel silenzio parlò più di quanto non avrebbero mai fatto le parole. Beatrice prese un taxi e corse a casa. Si voltò indietro e Leopold era diventato già un minuscolo puntino nero, risucchiato dal buio luminoso della notte del 10 agosto . (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, quinta puntata

Quando si chiuse quella porta Leopold sentì come se qualcuno gli avesse dato un ceffone che lascia un livido. Lui che era un catalogatore di ricordi, lui che trasformava ogni briciola del suo presente in un granello di sabbia della memoria, doveva rinunciarvi. E tutto questo perché? Per un gioco beffardo del destino a cui ogni uomo tenta invano di ribellarsi.
Beatrice capì che c’era qualcosa che non andava, ma lui fu bravo a sdrammatizzare. “Non voglio dimenticarti. Facciamo un gioco. Immagina che il mio cervello si svuoti ed io diventi muto e sordo. Cosa potrebbe aiutarmi a ricordarmi di te?”, chiese improvvisamente Leopold. Lei stette al gioco e replicò: “Vediamo un po’, fammi pensare… Che ipotesi bizzarra, amore mio! Potrei dipingere una serie di acquerelli per te che riscrivono a colori il diario di noi due”.
Leopold fu entusiasta e non se lo fece ripetere, mentre lei sbigottita pensava che fosse uno scherzo. Il giorno dopo fu lui a presentarsi al Volkspark Friedrichshain con tutto l’occorrente, dai colori al cavalletto. Era da prima del suo matrimonio che Beatrice non prendeva in mano un pennello. Dopo tutto questa richiesta insolita non era forse il miglior modo per riportare in vita una delle sue passioni? Lui raccontava, ricordava ogni particolare, dal loro primo incontro su quella panchina, e lei traeva ispirazioni per le composizioni.
Giorno dopo giorno, fino alla fine di luglio, Beatrice realizzò una mini galleria e il risultato fu così sorprendente che qualche passante osò chiedere: “Sono in vendita?”. Dopo tutte quelle pennellate Beatrice era tornata ad essere raggiante più che mai. E lui per ringraziarla di quell’opera d’arte a puntate, una mattina si presentò con due biglietti. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, quarta puntata

Ai primi di luglio Leopold l’accarezzò con tenerezza e le disse: “Ho avuto un permesso a lavoro. Il pomeriggio è tutto nostro”. Beatrice non se lo fece ripetere due volte, lo stinse forte a sé e dimenticò tutti i suoi impegni. Lei stava per chiamare un taxi, ma lui fece in tempo a bloccare un autobus. “E’ una vita – esclamò Beatrice – che non prendo un mezzo pubblico”. Il respiro di Leopold inciampò tra i suoi occhi castani e mai come in quel percorso Berlino sembrò tutt’altra città. Un’anziana signora bisbigliò al nipotino: “Guarda che bella coppia. Lo capirebbe chiunque che sono due sposi innamorati”. I due sentirono e si donarono un bacio fuggiasco, quello tipico dei due fidanzatini adolescenti che hanno marinato la scuola.
Scesero alla fermata di Alexanderplatz. Si incamminarono fino al numero 12 della Max-Beer-Straße. Al terzo piano, di un tipico edificio della vecchia Berlino Est, Leopold aveva il suo regno, un delizioso monolocale di cui andava fiero. “Scusa il disordine, ma io convivo con le cianfrusaglie”. C’era un piccolo cucinotto, un arredamento minimalista, un letto con una seggiola accanto. Tra i tanti libri sparsi qui e lì a Beatrice balzò all’occhio Casa di bambola. “E’ un testo teatrale di Ibsen. Lo adoro – precisò Leopold – Te lo regalo con la speranza che la tua vita non finisca mai come quella di Nora”.
Bevvero una tazza di caffè caldo e poi il più audace fu lui: la strinse con galanteria, cominciò ad accarezzarla e le baciò i seni. Le lenzuola di quel letto si trasformarono nell’inquietudine di un oceano e la passione straripò in un atto d’amore. Si amarono come non era mai successo prima ad entrambi e si scambiarono vicendevolmente tante promesse: nessuno li avrebbe mai separati e non ci sarebbe stato un giorno che non avrebbero passato assieme.
Restarono a letto fino al tramonto, guancia contro guancia, abbracciati, finché Beatrice interruppe il silenzio: “Quando ho paura, ho un posto segreto dove rifugiarmi. La casa al mare dove vado in vacanza fin da piccola. C’è un terrazzino. Mi siedo, sorseggio un caffè e volano via le mie insicurezze”. Leopold annuì e si sentì assalito dalla paura quando il suo sguardo finì sul post-it che gli ricordava l’appuntamento dell’indomani. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, terza puntata

Ogni giorno che passava, Leopold si chiedeva se l’avesse conosciuta in un’altra vita, se si fossero amati in un altro tempo, in un altro spazio, o magari su un altro pianeta. Sì perché quei due si erano innamorati e se lo dissero senza preavviso in una mattinata d’estate.
Lui tirò fuori dalla tasca un’armonica e accennò ad uno strambo motivetto: “L’ho scritto per te – le disse – e volevo fartelo ascoltare”. Poi la prese tra le braccia e la fece danzare. A quel bacio Beatrice non seppe dir di no perché aveva riscoperto l’amore, seppellito sotto terra fino a quando Leopold non era entrato nella sua vita.
Beatrice tornò a ridere, scovò su quella panchina la gioia delle piccole cose della vita mentre quel giovanotto scanzonato strappava dal suo diario pagine della sua storia: l’irrequieta adolescenza nella Berlino comunista; il sogno da liceale di vedere finalmente il Muro frantumato dinanzi ai suoi occhi; l’entusiasmo per il teatro che non avrebbe barattato per nessuna cosa al mondo. E lei gli confessò i suoi piccoli segreti con l’aria di bambina e con il cuore in gola: non si slegava mai le scarpe prima di togliersele, adorava il rosa, non avrebbe mai detto no ad un piatto di tagliolini al tartufo, combatteva l’afa estiva con i ghiaccioli a limone e, quando era felice, si sentiva come un pastello di colore azzurro.
Su quella panchina Leopold e Beatrice dimenticavano chi fossero, almeno fino al giorno in cui quella bambina le saltò sulle gambe: “Mamma, chi è questo signore?”, chiese Klaudia con l’impertinenza tipica di una figlia di sei anni. “Un amico che vuole fidanzarsi con la mamma”, ironizzò Leopold. Klaudia, fulminandolo con lo sguardo, replicò: “Mamma non può fidanzarsi con te perché è già sposata”. Fu in quell’istante che Leopold si sentì crollare il mondo addosso e si ricordò dei tempi goliardici in cui predicava alla combriccola degli amici: “Il primo comandamento è uno solo. Non innamorarsi mai di una donna sposata perché non lascerà mai il marito per te”. (CONTINUA)


L’ultima estate di Leopold, seconda puntata

Quella mattina Leopold aveva mandato tutti al diavolo. Sapeva di essere l’ultima ruota del carro, lì al Volksbühne, ma la sua passione per il teatro non era una cattiva consigliera quanto gli suggeriva di resistere. Per pranzo aveva in mano le sue solite focacce e una bottiglietta d’acqua minerale che quella volta decise di mangiare al Volkspark Friedrichshain. Era così trasandato e distratto da non badare a chi gli stesse a fianco su quella panchina.
Eppure, quando si voltò, furono le sue lentiggini a farlo naufragare in una fragorosa risata: “Scusami – esordì Leopold – mi fai venire in mente una compagna di liceo che mettevo in croce per quelle bizzarre macchioline”. Beatrice fece una smorfia stizzita e per ripicca gli strappò di mano la focaccia: “A scuola rubavo il pranzo a chiunque mi prendesse in giro”. I due si guardarono e risero a lungo. Leopold e Beatrice erano troppo diversi per stare seduti sulla stessa panchina. Lui cresciuto nella Berlino Est in una famiglia operaia, lei allevata da genitori commercianti dall’altra parte del Muro; lui tecnico delle luci a teatro, lei pittrice mancata finita in moglie ad un noto antiquario. Senza farsene accorgere, Leopold si soffermò sui suoi occhi mandorlati e, nonostante un fascio luminoso malinconico, ne rimase incantato.
La pausa pranzo volò in fretta. Prima di andar via scoprì per caso che il giorno dopo era il suo compleanno. L’indomani Leopold si presentò alla stessa ora, sperando che lei fosse lì. Beatrice fece finta di niente, ma sperò fino all’ultimo che quel giovanotto stravagante ritornasse. “Buon compleanno – le disse – Oggi non ho portato la focaccia, ma una piccola torta per festeggiare”. Lei arrossì ed era incuriosita da come lo avesse scoperto. Leopold aveva l’occhio lungo e per caso era finito su un certificato dell’ufficio anagrafe che le era caduto dalla borsetta. Da quel giorno quella panchina li vide insieme dal lunedì al venerdì, ma loro non si accorsero di cosa stesse accadendo. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, prima puntata

Stranamente l’aereo era stato puntuale. Berlino non era cambiata dall’ultima volta che c’ero stato. Questa volta era diverso. Ritornavo per lavoro, dopo essere riuscito a strappare a quel taccagno del mio editore un servizio da piazzare sulla nostra rivista d’arte. Non erano neanche le nove quando il taxi mi fermò nei pressi del Volkspark Friedrichshain. Mi guardai intorno e nell’immenso parco verde c’erano solo pochi mattinieri.
La città sbadigliava ancora, ma io non mi smentivo mai. Ero in anticipo come al solito. I miei pregi si contavano sulla punta delle dita e la puntualità era uno di questi. Allungai lo sguardo fino alla fontana Märchenbrunnen e sulla terza panchina la intravidi. Aveva un vestito di raso bianco a pois, un cappello celeste che le copriva il capo e un paio d’occhiali da sole che avrebbero impedito a chiunque di riconoscerla.
Mi avvicinai, ma lei mi colse di sorpresa: “Signor Martino, un bravo giornalista italiano dovrebbe arrivare sempre qualche minuto dopo”, mi ammonì. Ed io, quasi imbarazzato, replicai: “E lei la signora Beatrice von Bernstein? Preferisco anticiparmi quando fisso un’intervista”. Mi sedetti accanto a lei che mi rassicurò: “Punti di vista. Leopold non avrebbe mai fatto così. Li ha visti i dipinti?”. “Sì – risposi – e mi hanno particolarmente colpito. E come se nell’insieme ci fosse la vita di una persona”. Restammo alcuni minuti in silenzio. Non avevo mai incontrato una donna che mi mettesse in soggezione. Tirai fuori il taccuino e la penna. Lei si lanciò in un lungo racconto e io mi smarrii nella mia scrittura. Il tempo si paralizzò. (CONTINUA)

Regalo d’estate: il disegno di Carmine

Ci sono pagine della letteratura che si ripetono, come quelle di Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, nella profonda amicizia di un vecchio pescatore e di un ragazzo. Il piccolo Manolo restituisce all’adulto Santiago la forza di tornare a solcare il mare. Mi è successa la stessa cosa in un sabato d’estate: non c’era il mare, ma le colline toscane; non c’era un vecchio pescatore, ma un vagabondo irrequieto alla ricerca di nuovi confini; non c’era un ragazzo immaginario, ma un bambino vero che se ne andava in giro per casa a piedi scalzi, nascondendo dietro un sorriso da “furfante” un’infinita sensiblità. Cosa avevamo in comune io e quel bimbo di 7 anni? Il giorno del suo onomastico precedeva il mio compleanno; entrambi siamo finiti dalla logopedista, io per rinvigorire la voce e lui per scandire meglio le parole; entrambi andiamo matti per i videogiochi e siamo scanzonati sognatori; entrambi ci saremmo attaccati per tutta la vita alla gonnella di quella donna. Lui sì che aveva capito com’è fatto il mondo e, dopo essere stato lasciato dalla fidanzatina, mi ha suggerito la nuova filosofia da adottare con le femmine: “Piglia e molla”.
No, non lo avrebbe mai fatto perché lui è un inguaribile romantico. L’ho capito quando mi ha fatto vedere su YouTube il video di una canzone di Tiziano Ferro e mi ha convinto: “Sai, è la mia preferita. La prima volta che l’ho ascoltata, ho pianto”. Poi mi ha portato alla finestra per indicarmi la sua scuola e raccontarmi le sue giornate. In poco meno di 12 ore io e il bambino siamo diventati “amici per la pelle”, come succede in estate nei luoghi di vacanza: mi ha offerto il divano in soggiorno per dormire, mi ha voluto accanto mentre cenava, mi ha chiesto spassionatamente di tornare la settimana successiva.
Si dice che i bambini dimentichino con facilità. Può darsi. Ma forse il disegno, che mi ha lasciato in segno d’amicizia, conferma quanto lui abbia intuito di quale pasta siano fatta gli adulti. I due audaci combattenti rappresentano gli atroci conflitti che sconvolgono il complicato mondo di noi adulti, ma che qualche volta naufragano in un lieto fine. Come Manolo del romanzo Il vecchio e il mare, il piccolo Carmine mi ha fatto tornare a solcare i mari della mia anima, facendomi ritrovare il meglio di me stesso, lasciando che il mio cuore si risvegliasse dal torpore.  Gli scarabocchi di Carmine sono stati il regalo mio più grande perchè mi hanno restituito “amore dato, amore preso, amore mai reso; amore grande come il tempo che non si è mai arreso”. 
Sono sicuro che Carmine mi aspetterà ed io tornerò per costruire con lui un bel castello, non di sabbia, ma uno vero in cui ci sia spazio per tutte le persone a cui vogliamo bene.

Senza candeline tra le luci e le ombre della Laguna

Spegnere le candeline d’estate aveva un suo perché: dimenticare il tuo compleanno perché eri preso dalla magia vacanziera fatta di secchielli, palette e castelli di sabbia. Oggi non è così. Basta aprire la tua pagina di Facebook e una sfilza di messaggi sulla tua bacheca te lo ricordano. Quel senso di nomadismo che mi porto dietro era già segnato dagli astri. Per me non c’era la solita festicciola a casa, ma ogni anno i festeggiamenti si spostavano da un luogo ad un altro, con persone diverse. E’ lo svantaggio di chi è nato nei mesi estivi. Eppure prima di soffiare ed esprimere il desiderio di rito, avevo sempre la smania di salire sulle spalle di mio padre. Lui pensava fosse il solito capriccio, ma io mi sentivo in groppa a quel gigante che poteva aiutarmi ad acciuffare la linea di confine che divideva l’orizzonte dal mare.
La laguna di Venezia mi ha riportato a quella scena, forse perché quando condividi una serata di luglio con un anziano signore è più o meno facile tornare a sentirti bambino. Non era stata questa o quella canzone di Charles Aznavour che si era dileguata su piazza Sam Marco, piuttosto il mio desiderio irrequieto di farmi raccontare da lui i particolari di quella lunga tournèe con Edith Piaf. Un desiderio che è finito tra le luci e le ombre della laguna, in piena notte, nel silenzio più totale.
Questo netto contrasto tra il buio notturno e la luce del giorno che stentava ad arrivare mi ha riportato a quella scivolata – che mi sforzo di ricordare invano – che avevo fatto dal pancione di mia madre verso la vita. In quel momento mi sono ricordato che era il mio compleanno, sebbene attorno a me non ci fosse una torta con le candeline, ma solo il ronzio di quelle canzoni che non mi hanno fatto dubitare della generosità della vita. 

 

Lo gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta

Qualche settimana fa mi sono fermato a Sabbioneta per seguire the Lonely Planet Bike Party. Ho riscoperto il piacere di godermi quell’Italia casareccia fatta dai posti invisibili che non metteresti mai nei tuoi programmi vacanzieri. Internet e il turismo globale ci stanno abituando a l’idea che l’intensità di un viaggio si basi su i chilometri percorsi. Dovremmo tornare seriamente a pensare al contrario: agli itinerari non troppo lontani da casa, che ti fanno decidere di partire all’ultimo momento, lasciandoti al tuo ritorno una bella cartolina del Belpaese caciarone e sincero.
A Sabbioneta, deliziosa località a ridosso tra il mantonavo e il cremonese, ho scovato un personaggio che sembra uscito dal film Amarcord di Federico Fellini. Ciano – così lo conoscono tutti in paese – gestisce il delizioso bar Ducale all’angolo di piazza d’Armi. Lui sì che ti convince a sostare su i gusti tipici del posto: gnocco fritto e spalla cotta e chi si è visto si è visto. Alla faccia dei secessionisti che tentano invano di spaccare l’Italia, qui la posizione di Graziano Contesini (così è registrato  Ciano all’ufficio anagrafe) lo gnocco fritto è autentica perché per lui la vera regina è la pizza fritta. E così lungo tutto una sorsata di Lambrusco, l’accostamento con il calzone fritto napoletano è autentico e ci sta.
E cosa ci fa quel dipinto della Beata Vergine di Pompei all’entrata del bar? Un’icona in bilico tra religiosità popolare e folclore sta ad indicarci che Ciano è un “terrone” finito per sbaglio al di sotto del Po? A tutto c’è una spiegazione, anche quando il Sud fa il ficcanaso nel Nord Italia: “Mia madre restò viva per miracolo dopo il crollo di una casa – mi spiega Ciano – Attraverso una trave vide quell’icona religiosa che non conosceva. Chiamò un pittore e la face dipingere in segno di devozione”. Che strana coincidenza, era la stessa immagine che ritrovai stropicciata nel mio jeans nel 1994. Quello doveva essere il mio ultimo viaggio: colpo di sonno, auto fuori strada, vivo per miracolo. Per fortuna, non è stato così e sono ancora qui a scrivere. Qualche volta i viaggi brevi possono essere altruisti. Il Lambrusco mi ha stordito, lo gnocco fritto mi fa fatto leccare le dita, ma la bonarietà di Ciano mi ha accompagnato per tutta la strada del ritorno con una colonna sonora. Quella grezza e provinciale di Ivan Graziani, con l’immagine di Agnese, che da una vaporosa canzone è finita sulle mie ginocchia.