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Archives 2010

Las Vegas, un museo per quelli come Roberto Saviano!

Per chi ha in programma un viaggio a Las Vegas, conviene temporeggiare almeno fino al 2011. Ai resort di lusso e alla febbre del gioco dei casinò si aggiungeranno un paio di attrazioni “inutili”, due musei dedicati al crimine organizzato. Insomma, la capitale della perdizione del Nevada celebra a modo suo la Mafia e, tutto sommato, non le dà noia ravvivare la memoria del suo passato losco. In Italia c’è chi si è convinto che Gomorra, il libro di Roberto Saviano, abbia contribuito ad infestare la nostra immagine, nella logica della massima andreottiana – censoria nei confronti del Neorealismo cinematografico – che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Piuttosto tirerei in ballo la trilogia cinefila di Il padrino di Francis Ford Coppola, che ha propagandato quella ambigua mistificazione, portando don Vito Corleone sulla via dell’eroismo. E chissà se il progetto “pseudo-culturale” di Las Vegas rafforzerà lo stupido stereotipo del popolo yankee di considerare l’Italia come patria di “mafia, pizza e mandolino”. Forse sarebbe il caso di dedicare un museo a tutte quelle vittime o a coloro che si sacrificano in prima linea per combattere la malavita organizzata, in America come in Italia. All’entrata, più che una maxi riproduzione di Al Capone, mi piacerebbe vedere il faccione di Roberto Saviano accompagnato da una scritta: “La nuova gioventù italiana vuole assomigliare a lui perché la sua penna graffiante ci toglie di dosso il cattivo odore, quello infognato dell’omertà ”.

1 maggio, quale Festa del Lavoro?

Per chi se ne ricorda il 1 maggio è la Festa del Lavoro. Nonostante le urla dei sindacati, la tarantella finisce con i soliti bla bla bla. Del resto pure chi un lavoro ce l’ha, non ha tutta questa voglia di stappare lo spumante. L’aria che tira è deprimente tra disoccupazione, incertezze, precarietà e le morti bianche dimenticate. Come fai a confortare chi ti viene incontro, di qualsiasi età, e ti racconta la sua triste storia? Ci siamo passati un po’ tutti. C’è chi ha perso il posto di lavoro; c’è chi passa il giorno ad inviare curricula e si vede sbattuta la porta in faccia; c’è chi non ce la fa ad arrivare a fine mese; c’è chi a 50 anni si sente dire che è troppo vecchio per reinventarsi (Fabio Concato docet nel suo bel pezzo Oltre il giardino) o c’è chi vive lo stress per la scadenza  di quel maledetto contratto a tempo determinato. Il lavoratore di casa nostra  era mio padre e il 1 maggio a modo nostro gli facevamo festa. Nonostante la sua attività ce lo sottraesse continuamente, da ragazzo credevo che il lavoro fosse un diritto di tutti. Banalmente mi sono reso conto che non è così. L’unica consolazione di questo 1 maggio è il concertone di piazza San Giovanni a Roma, che quest’anno ci trasmette “il malumore dell’incertezza”, nel senso che a pochi giorni non conosciamo il programma definitivo. Nel 1998 ero di passaggio a piazza San Giovanni, ma quello fu un concerto piovoso. Nel backstage incrociai  Julian Lennon, il figlio di John, che ad un certo punto mi disse: “Quanta gente sotto al palco. Tutti fanno festa per il lavoro”. L’erede dell’ex Beatles non aveva capito che quell’entusiasmo nascondeva altro, rabbia e amarezza, che oggi sono le stesse intraviste nel mio ultimo anno da spensierato universitario, in quella piazza. Il volume alto della musica stordisce e la speranza non è mai abbastanza.

Charlie Brown, 60 candeline e non invecchi mai!

Una sera di aprile di alcuni anni fa ero alla stazione dei bus di San Francisco, pronto a partire per Los Angeles. Stavo per cambiare destinazione e dirigermi verso Santa Rosa, lì dove ha vissuto Charles M. Schulz, il creatore dei Peanuts. Mi fermò il terrore di affacciarmi alla finestra del suo studio e non trovarlo. Il disegnatore di quelle poetiche strisce a fumetti era scomparso già da qualche anno ed io sono stato tra coloro che si è rifugiato nei luoghi e nelle storie di Charlie Brown e della sua allegra compagnia. Sono stato un lettore incostante, ma le strisce dei Peanuts le ho divorate tutte ed, ogni volta che le rispolvero, mi donano sempre un riflessione nuova. Charlie Brown festeggia i suoi 60 anni e non è invecchiato per niente: sarà quel misto di poesia, filosofia, psicologia e storia;  sarà quel frantoio di classicismo che macina un lirismo, a tratti quasi ellenico; sarà  quell’evaporazione di saggezza letteraria da far invidia a Salinger. Quando sono giù non mi aggrappo alla coperta del suo amichetto Linus, ma cerco di far volare gli aquiloni come Charlie Brown. E tutto questo è ancora robetta da mocciosi? Se i Peanuts di Schulz sono questo, io voglio restare ancora un moccioso come te, caro Charlie Brown, perchè alla tua “veneranda età” sai ancora come farmi sentire leggero, lasciandomi planare sulla vita come i tuoi aquiloni!

Italia’s got Talent e le lacrime di Gerry Scotti

Nel 2002 Francesco Renga ha presentato a Sanremo Tracce di te, una canzone intensa dedicata alla madre. Intensa sì, ma non strappalacrime. Quanti se ne ricordano?  Chissà se ascoltandola, Gerry Scotti si sarebbe commosso così com’è accaduto nell’ultima puntata di Italia’s Got Talent. Lo abbiamo capito che il Belpaese, insoddisfatto da come vanno le cose dalle nostra parti,  vuole nutrirsi di storie commoventi per mandar giù le insoddisfazioni. Qui non è questione di canzone – Perchè (Io) credo è destinata a diventare il tormentone musicale dei prossimi mesi –  ma della storia che c’è dietro: un aspirante cantautore, Federico Fattinger, il dolore per la perdita improvvisa della madre e una voce allenata a  far vibrare le corde nazional-popolari. Cosa volete di più dai palinsesti tv? Il popolo del reality deve farsene una ragione perchè l’Isola dei famosi 7 e il teatrino dei suoi selvaggi inquillini interessa di meno. E il sospiro di sollievo arriva sì o no? Dove sta il sollievo, nelle lacrime di Gerry o nella mazzata dello share per Simona Ventura?

Salone Internazionale del Mobile, Milano rincorre l’Europa

Il Salone Internazionale del Mobile ha fatto riaffacciare Milano all’Europa. Diciamolo pure che la macchina organizzativa era funzionante ed accogliente sia per gli adetti ai lavori sia per il pubblico (domenica si sono riversatete in Fiera  più di 32 mila persone). Non capita spesso ai grandi eventi che si svolgono nel capoluogo lombardo da tempo a questa parte. Penso alla BIT, ad esempio, che somiglia sempre meno ad una Fiera Internazionale di Turismo. Il Salone del Mobile è una bella opportunità per spiluccare stravaganze e creatività, anche se c’è chi si distingue sulla sponda opposta. Non mi sognerei mai di fare a scazzottate per sostare da Scavolini e convincermi che quella è ancora “la cucina più amata dagli italiani”. Sarà, i gusti sono gusti e il pubblico pagante ha sempre ragione, quasi sempre. Bel boom anche per gli eventi collaterali del Fuorisalone, con via Tortona in testa per affluenza di giovani a tutte le ore. Fare baldoria tutti insieme appassionatamente ci sta e fa bene all’umore. Se i venditori ambulanti di birra e quant’altro sono più numerosi degli eventi, non è che mi sono perso in una bella sagra paesana? Forse sì perchè la sicurezza lasciava a desiderare: sono rimasto in ostaggio mezz’ora sul ponte ferroviario che da Porta Genova scendeva in via Tortona, perchè non c’era nessuno a coordinare il gran flusso di persone. Per fortuna, non ci sono stati incidenti! La corsa verso l’Expo non accorcia le distante tra Milano e l’Europa perchè sono “i dettagli” a fare la differenza, ricordandoci che il Belpaese è fatto della stessa pasta, fino alla punta dello stivale. E non ci vuole lo stradario per capire che non siamo arrivati a Londra, Parigi o Berlino.

Salone Internazionale del Mobile, la mia sedia ideale

Mi è rimasta addosso la passione per “la sedia”, nonostante non sia un tipo da stare fermo. Al Salone Internazionale del Mobile di Milano mi sono messo a caccia della mia sedia ideale.  Ripensandoci bene, ho rivalutato quella che c’era nella cucina dei miei alla fine degli anni’70. Rispetto alle oscenità delle amiche di mamma, la nostra aveva un pizzico di design che non guastava. Ne combinavo una dietro l’altra ed era lì sotto che mi rifugiavo, quando non volevo farmi trovare da papà. E poi con una sedia potevo farci di tutto. Una volta la collocavo al centro del palcoscenico e mi sbizzarrivo ad inventare monologhi; adesso mi siedo col Pc sulle gambe e scrivo.  La mia sedia ideale? Resistente per salirci sopra e protestare come un matto. Contro chi? Contro chi fa lunghi viaggi per portarci dall’altra parte del mondo seggiole low cost, mortificando un realtà di casa nostra: Manzano, la città della sedia italiana. Dovremmo fare una capatina lì perchè anche “sotto il culetto” fa bene sentire il made in Italy.

Addio, Vianello gentiluomo. Arrivederci, Raimondo della porta accanto!

E’ morto Raimondo Vianello e con lui quella pagina del ‘900 che ha fatto grandi Televisione e Varietà. Una vita spesa per un lavoro affascinante e difficile assieme alla compagna di sempre, Sandra Mondaini. Io, per fortuna, appartengo alla generazione degli anni ’70 e, nel mio baule privato, riesco ad arraffare ricordi, prima ancora di Casa Vianello o della memoria popolare imprigionata su YouTube. Il ricordo personale si muove a carponi  nelle domeniche pomeriggio tra il ’78 e il ’79, tra la cucina e la mia cameretta, nella gioia di passare dal piccolo televisore in bianco e nero al primo schermo a colori e ritrovarsi Raimondo e Sandra sul loro divanetto, in Rai. Chi si è fatto contagiare dalla malattia del teatro, si è emozionato tra le sequenze ingiallite di Raimondo Vianello al fianco di Ugo Tognazzi, Macario e Bramieri. Ed è prorpio ad una commemorazione per il suo amico Gino che l’ho incrociato alcuni anni fa. Un ricordo tenero, di un anziano signore, gentile e cordiale, dal sorriso sornione e dalla battuta facile. Sandra ha perso il suo Raimondo, noi il vicino della porta accanto, il dirimpettaio con il quale ci siamo intrattenuti piacevolmente per decenni e decenni. Lo hanno conosciuto i nostri nonni, lo hanno amato i nostri genitori e lo rimpiangeremo noi, figli del “dio minore della volgarità”.

Leggi l’articolo correlato: Addio a Raimondo Vianello.

Italia’s got Talent, chi è la nuova Susan Boyle?

Guardando l’edizione italiana di Italia’s got Talent, è ovvio che si accenda il lampeggiante posteriore della nostra memoria televisiva: La Corrida e i suoi debuttanti allo sbaraglio, un successo senza precedenti, che ha trascinato l’esibizionismo del Belpaese attraverso il tubo catodico.  Del resto tra i tre giurati italiani, assieme a Maria De Filippi e Rudy Zerbi di Sony Music, c’è l’erede ufficiale dell’indimenticabile Corrado: Gerry Scotti. Nell’Italia che inneggia al “populismo”, è azzeccato far partire adesso questo talent show, che rovista tra i sogni nazional-popolari, tra le acrobazie incredibili di un papà e la figlia o le frustrazioni di un mancato danzatore, aspettando di eleggere la nuova Susan Boyle italiana. Dopo tutto, l’edizione anglosassone mi ha incuriosito per un motivo: la faccia sbalordita degli inglesi puritani dinanzi alla voce strepitosa di una “campagnola scozzese” – non me ne voglia Susan, ma la Scozia agli occhi l’Inghilterra è ancora questo –  che ha sbaragliato nelle classifiche di tutto il mondo. Noi italiani siamo diversi e così  la storia strappalacrime e la faccia tosta di una cubista sessantenne possono mandare in soffitta pure i veri talenti. Angela Troina di certo non è un fenomeno, ma è  la vera star di questa prima puntata, che ha la pecca di avere un pesciolino fuor d’acqua: l’insipido Simone Annichiarico, che di papà Walter (Chiari) non ha niente.

Ciao Berselli, mi mancherà il tuo giornalismo ironico

Chi vuole fare il giornalista con i tempi che corrono, deve essere prima di tutto un lettore arguto. Non ho incrociato Edmondo Berselli, scomparso ieri in sordina, né nei corridoi di una redazione né nei soliti salotti letterari. L’ho incontrato diversi anni fa sulle pagine del settimanale L’Espresso. La sua penna ironica girava come una trottola, passando con nonchalance dalla politica alla cronaca, dal costume alla televisione. Berselli, classe 1951, è stato un giornalista intelligente, che si è saputo adattare ai tempi e agli spazi: lui era a suo agio anche quando le misure della pagina era di pochi centimetri quadrati. E’ stato tra i pochi ad anticipare sulla carta stampata un appassionato stile da blogger perchè “la passione” è l’unica ancora di salvezza dall’arroganza degli editori. Mi mancherà Edmondo Berselli perchè Internet sta cementificando e omologando questo mestiere, che diventa sempre più amorfo sotto le ascelle dell’improvvisazione. Il cinema non è fatto solo di grandi attori e registi, ma anche di produttori, così come il giornalismo anche di editori, a volte distratti, spesso incapaci di varcare, nella giusta misura, i confini del cambiamento. La scrittura di Berselli è una gran bella lezione di stile e oggi, da lettore, non posso che rimpiangerla.

Le favole di Aurora

Sono già alcuni anni che piagnucoliamo: i bambini italiani sono svogliati nella lettura e la colpa ricade su i genitori, che non danno il buon esempio. Del resto in un Paese che corre come una trottola, troviamo ancora il tempo per leggere una bella favola ai nostri figli e lasciare in eredità la magia di un bel libro? Succede, ma sempre più di rado. Mio padre se le inventava – ed era una frana – ma almeno ci provava. Noto che la maggior parte dei bambini preferisce farsi dare la buona notte dall’ultimo eroe di turno della Playstation o dai frenetici cartoon, che impazzano in tv a tutte le ore. La mia generazione l’ha scampata bella: circolavano le prime audiocassette con quella voce preregistrata che spodestava papà o mamma  dal trono di narratore. Se siamo noi adulti i primi a non credere più nelle fiabe, come pretendiamo che lo facciano i nostri bimbi? Pochi giorni fa è accaduto il contrario. La piccola Aurora, figlia di due cari amici, non mi lasciava andare via la sera, se non mi raccontava una favola. Questa esuberante bimba di 6 anni mi deliziava con i suoi racconti, e così persino una cult story come quella di Cenerentola diventava una piacevole rivisitazione tra fantasticherie e caos mediatico. Io la ascoltavo con attenzione e lei mi premiava trasformandomi in un personaggio. Il principe azzurro? No, guardandomi diritto negli occhi replicava: “Tu somigli a Paolo Bonolopis”. Aurora mi ha fatto riflettere: dovremmo farlo tutti più spesso, trovare il tempo per ascoltare i nostri figli perchè sono diventati più bravi di noi a raccontare le fiabe! Quando rincaso la sera, mi manca Aurora e quella sua ingenua spavalderia che sguizza tra fantasia e realtà. Io mi consolo, guardandomi allo specchio: se non sono il brutto rospo o il principe azzurro, chi mi ha trasformato in Paolo Bonolopis? C’è di mezzo lo zampino di Aurora, perchè il suo sorriso sornione è più potente di qualsiasi bacchetta magica.