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Archives 2012

50 anni con i Beatles oggi: Perchè un minorenne scappò a Liverpool

Non c’è nessuna icona della musica contemporanea che sia legata ai luoghi natali come i Beatles. In giro ci sono tante città-santuario, come la Graceland di Elvis Presley, ma non fanno altro che imbalsamare il mito. Per Liverpool invece è tutt’altra storia: quei posti sono vivi, Penny Lane o Strawberry Fields concimano nel territorio urbano la working-class di un tempo, tra dock e “ red bricks on the wall”.
Almeno lo erano fino a vent’anni fa, prima dell’invasione dei pellegrini del low cost di Ryan-air, prima che il comune optasse per la scelta infelice di cambiare alcune strade, di abbattere edifici fatiscenti, di dedicare ai Beatles tributi kitch qui e lì.

Io mi sono perso invece proprio tra quegli edifici fatiscenti, nell’estate del 1990, ancora minorenne, alla ricerca di posti e persone che avevano ruotato attorno ai quattro ragazzotti di provincia anglosassone: dalla vicina di casa di Paul alla birra con Williams, il primo manager; dall’abbraccio con un fantomatico zio di John alla passeggiata assieme ad una donna, figlia di una Anne che in gioventù aveva pomiciato con Pete Best.
Mezzo secolo fa, proprio oggi con il singolo “Love me do”, i Beatles entrarono nella storia personale di più generazioni; venticinque anni fa bussarono alla porta della mia adolescenza: ci sono entrati, ci sono rimasti per sempre, con costanza.

Sono stati la colonna sonora di gran parte della mia vita, ma non mi sono bastate le canzoni, gli album, i cimeli racolti nel tempo. Volevo guardarli da vicino, da giovanotti grezzi di periferia, prima che la Londra di Abbey Road li risucchiasse, trasformandoli in quattro baronetti metropolitani e sofisticati.
Mi accaparrai una mappa e scovai una cinquantina di posti, anche minori, che spesso parlavano più di quanto magari facessero Menlove avenue o il Cavern Club: una scalinata dove John e George si era fermati; il letto di un ospedale pubblico dov’era nato Ringo; un incrocio qualunque che aveva strappato via a John la madre Julia.

Le canzoni dei Beatles sono venute prima e dopo. Giusto in mezzo però c’è Liverpool, quella di vent’anni fa, che aveva raccontato un miracolo avvenuto nella Gran Bretagna del secondo dopo guerra: la classe operaria andò in paradiso con quattro sbarbatelli, cresciuti nell’Inghilterra “cafona”, che mischiarono sogni, poesia e musica come se fosse un gran bel gioco, destinato per volontà degli dei a non finire mai.

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Cartolina da Seyne-sur-Mer: Michel è partito senza il bicchiere di Pastis

Ricordo un sabato mattina d’estate, al mercato. Il brusio delle persone, lo schiamazzo dei bambini, i venditori ambulanti che gridavano “Bon prix, bon prix!”. Sembrava di essere a casa, nel mio Sud. Invece ero in Francia, a la Seyne-sur Mer, un paesotto avvinghiato tra Provenza e Costa Azzurra. Gente semplice, alla buona, tanti emigranti sbarcati dal Sud dell’Italia.
Passai davanti a una brasserie. Mi chiamavano. Erano Michel e Vincenzo, i miei zii. Il primo un emigrante italiano; il secondo un francese di quelle parti. Si conobbero negli anni sessanta, diventarono cognati e anche due buoni amici.

Mi offrirono da bere. Mancava ancora un bel pezzo all’ora di pranzo e mi fecero ubriacare con il Pastis, l’irrinunciabile aperitivo alcolico dal profumo d’anice che scioglie Marsiglia e le sue strade sotto il giaccone di un bicchiere. L’anice del Pastis si confondeva con l’odore del pesce fritto venduto in strada e con la salsedine accantonata dal porticciolo poco distante. Michel era un tipo alla buona, alla mano: il suo francese aveva l’inflessione marsigliese; il suo sorriso quello di uomo del Sud che si accontentava di cose semplici.

Michel e Vincenzo mi raccontarono di quando se ne andavano in campagna, laggiù nel cuore della Provenza, a fiondarsi sotto un albero, a bere vino. Condividevano i colori del loro Sud, quello che Nino Ferrer dipinse nella sua splendida canzone.
Michel se n’è andato ed ha lasciato mezzo vuoto il suo bicchiere di Pastis. L’altra parte del bicchiere la riempio io, allungandola con il ricordo di un sabato d’estate in cui, assieme a zio Michel, francesizzai la mia anima meridionale.

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Troppo rumore per nulla: Fidanzarsi su Facebook

In tv non c’è niente di buono, solita pappa riciclata. Nei feed di Facebook troppo ciarpame, ovvero il qualunquismo social che si sforza di essere “sociale”. A lato della pagina Facebook c’è un cuore rosso e si alternano gli status che raccontano le relazioni d’amour: impegnato, fidanzato ufficialmente, relazione aperta, vedovo. Basta mattersi a giocherellare con il tastino, cambiare status improvvisamente e finire nell’occhio del ciclone.

Roba da “Chi” o “Novella Tremila”? No, siamo gente normale e ci godiamo i picchi della nostra timeline di Facebook, passando da uno status all’altro. Uno scherzetto?
“Vedovo/a” è usato ironicamente dai teenager che sanno come metterci una pietra sopra, quando una storia finisce a puttane. Non tiriamola per le lunghe: Morto un Papa, se n fa un altro. “La relazione aperta” esprime l’ambiguità della globalizzazione: Ci frequentiamo, non sappiamo, tanto sesso e rock ‘n’ roll, poi si vedrà. “Impegnato/a” è mettere le mani avanti, ma con discrezione: son cazzi nostri. E poi arriva “fidanzato/a ufficialmente” in cui “l’ufficialità” si colora in base all’area geografica di appartenenza. Nel Belpaese in canottiera e ciabatte sarebbe stato il “festino” di fidanzamento, pasticcini, qualche scatto delle famiglie dei rispettivi consorti che si conoscevano; nel Belpaese social è togliere da mezzo ogni ombra di dubbio.

Insomma questo status fa notizia come una volta accadeva sulle pagine di Grand Hotel, quando le nostre mamme curiosavano nella rubrica dedicata ai cuori solitari. Nell’epoca dello schiamazzo social, la coppia dovrebbe ritrovare fuori dal bunker facebookiano la fragranza del sentimentalismo, in una relazione che non è stata “annunciata”, ma “costruita”. Comunque vada, possiamo fare ancora a meno del benestare altrui, quello codificato nel clamore di “Stanno proprio bene assieme”.

Huffington Post Italia: Arianna e Lucia come Thelma e Louise?

Alla signora nella foto ho chiesto prima dello scatto: “In America chi la spunterà, Obama o Romney?”. Mi ha sorriso come per dire “segua l’Huffington Post”. Arianna Huffington, che si è già rintanata nella storia dei new media per aver creato sette anni fa il più popolare sito all news d’olteoceano, è una donna di spirito che sa come intrattenere una platea.
Certo che qui non eravamo né ad una Convention Democratica né Repubblicana – grazie a Dio abbiamo scampato le pièce teatrali di Bill Clinton e Clint Eastwood – ma alla presentazione dell’edizione italiana di Huffington Post.

Arianna ha lanciato una battuta spiritosa che sembra radiografare alla perfezione il Belpaese, di cui l’edizione italiana diretta da Lucia Annunziata dovrebbe raccontare le gesta: “Il matrimonio dura una volta, il divorzio sempre”. E tutto sommato in Italia siamo un Belpaese di “divorziati”, perché le memorie storiche sballottano da una sponda all’altra della barricata.
Avremmo immaginato mai una joint venture con al timone due donne così diverse tra loro? L’antiamericana Lucia dalle pagine del Manifesto di Pintor nel bel mezzo degli anni Settanta e la greca Arianna, adottata da New York nel 1980, con i suoi flirt liberal e repubblicani.

I tempi cambiano e il business dell’informazione fa ritrovare il “bel tempo delle diversità”. Sì perché fare informazione non è solo una missione, spartita nell’epoca social tra giornalisti, blogger e utenti, ma anche un giro d’affari. Ce lo ricorda la Manzoni Adversiting che gestisce gli spazi pubblicitari per il Gruppo l’Espresso, di cui l’HuffPost italiano è figlio adottivo: senza i soldi degli introiti pubblicitari non si cantano messe.

La partenza è incoraggiante sia dal punto di vista dei numeri (300 mila accessi nel primo giorno) sia in termini di baruffe chiozzotte all’italiana: Monti fa l’offeso perchè l’intervista a Berlusconi, spiattellata nel primo giorno di vita di HuffPost Italia, ha rotto le uova nel paniere nel rapporto delicato con la permalosa cancelliera Merkel. Lucia (Annunziata) e Arianna (Huffington) sono confidenti nel progetto italiano. E se fossero loro le nuove Thelma & Louise?

Quando una sposa cerca una stella…

Su una spiaggia del Sud, un uomo era accovacciato in riva al mare. Aveva lo sguardo puntato all’orizzonte. Accanto a lui c’era una bimba dagli occhi chiari che faceva castelli di sabbia. Dal mare uscì una voce: “Cosa vorresti per la tua piccola quando crescerà?”.
L’uomo, alzando gli occhi, rispose: “Vorrei fosse felice per tutta la vita”. E la voce replicò: ” Scegli una stella. Veglierà sempre su di lei, quella sarà il tuo dono”. L’uomo sbirciò in cielo e ne scelse una che cascava a pelo sulla linea dell’orizzonte.

Molti anni dopo lo sposo prese per mano la sua sposa* e la portò in riva al mare, su una spiaggia del Sud. La sposa allargò le narici e respirò l’odore del mare. Accanto a lei c’era un piccolo castello di sabbia, ma non lo riconobbe. Incisa nella sabbia c’era una data e lei di chiese come avesse fatto quel castello a restare intatto per così tanto tempo. Dal mare udì una voce: “Questo castello di sabbia è il tuo, dentro vi erano custoditi i tuoi sogni e la luce di quella stella lo ha protetto”.
La luce della stella lasciò due orme di mani sulla sabbia. Erano le stesse mani che da bambina la facevano volare; le stesse mani che l’avevano allevata; le stesse mani che le avevano indicato la via del cuore. Fu allora che la sposa si ricordò e due lacrime scivolarono sulla sabbia. Germogliarono tanti fiori in riva al mare.

Da quel giorno si dice che ogni volta una sposa è sulla spiaggia a cercare una stella, è quella che le ha dedicato il suo papà per restarle accanto nei giorni speciali che la renderanno moglie e mamma. E da quel giorno le fiabe non cominciano più con “c’era una volta”, ma si chiudono come se fossero una smisurata preghiera: Amen.

* Dedicato a Paolo e Adele, sposi il 22 settembre 2012.

Dynamo Camp, l’alternativa intelligente all’inutile bomboniera!

Back in Town Party: Ritorno a California Bakery

Un paio d’anni fa, in uno dei miei viaggi “metropolitani”, incontrai Caroline. Me la presentarono. Doveva essere un’intervista, ma si trasformò in una lunga chiacchierata. Mi raccontò della sua California Bakery, del suo sogno assieme al marito Marco di creare uno spazio che andasse al di là di un food place. Back Town in Party mi ha riportato nella nuova California Bakery di via Tortona a Milano e allora mi sono detto: O la va, o la spacca. Caroline era davvero testarda: voleva declinare il tempio di piazza S. Eustorgio in più quartieri di Milano e ce l’ha fatta; voleva ritagliare un mini cartellone musicale, coinvolgendo giovani emergenti e c’è riuscita; aveva capito che la socialità viaggiava in rete alla velocità della luce e fece bene a fidarsi di un gruppo di neolaureati che, tra Twitter e Facebook, avrebbero raccontato al popolo social tutto questo ben di Dio.

California Bakery mi riporta alla mia traversata on the road di settemila chilometri attraverso gli Stati Uniti, tra cheese cake, muffin e cookies. L’altra America, che non era quella dei fast food, ma quella che sfornava pane caldo come le canzoni di Bob Dylan; l’altra America, che non era quella della grande abbuffata, ma quella che ti serviva un hamburger o un hotdog con il garbo che hanno fatto di Barack Obama il Presidente della multietnicità; l’altra America, che non era fatta di cibo spazzatura, ma di vecchi sapori che riportavano il fremito nostalgico della tv di “Happy Days” nel cinema di “American Graffiti”.

Caroline mi fa venire in mente Jason e Brian che,  a Phoenix nella mia adorata Arizona, rimettono a nuovo vecchie auto yankee  di mezzo secolo fa. In una Milano, afflitta dalla crisi e dall’impoverimento di idee, questo entusiasmo è prezioso, perchè è capace di restituire un’anima anche ad una vecchia “carcassa”. Ho indossato un grembiule e mi sono imboscato tra lo staff di California Bakery. Qualcuno ci è cascato e mi ha chiesto da bere. Ed io sono stato al gioco così come quando mi sono messo a scarabocchiare con un pennarello indelebile sulle mattonelle bianche. Erano le stesse che le nostre nonne avevano in cucina, quando far da mangiare era anche passione. Su una mattonella del wall hanno scritto così: “Un altro posto dove sentirsi a casa. Alice.”

  California Bakery on Twitter

Quelli che il calcio: Voglio la Minetti “finta” tutta per me!

I gusti sono gusti ed io voglio la Minetti, quella “finta”, tutta per me. Una ventata di freschezza, visto che le previsioni del prossimo palinsesto autunnale ci porteranno verso la noia e ripetitività. L’imitazione di Virginia Raffaele, nei panni della consigliera regionale nella puntata di domenica di Quelli che il calcio, ha già bucato lo schermo e tutti i social. Da Facebook a Twitter non si fa che prolungare uno sfottò che è stato messo in piedi a regola d’arte.

Per quale motivo la Nicole Minetti della Raffaele, così perfetta nel modo di muoversi, di parlare, di stemperare il teatrino della politica del Belpaese, dovrebbe meritarsi delle sculacciate? Ci siamo lasciati alle spalle da vent’anni la censura televisiva della Balena bianca, ma c’è ancora chi affossa il pensiero sotto il tappeto della Prima Repubblica: un siparietto di satira sgargiante usato per fare campagna elettorale.

Macché, con tutto quello che stanno passando, gli italiani sarebbero così fessi da farsi infinocchiare da un siparietto televisivo? Anzi, se avessero dato retta alla satira “preventiva” della tv degli ultimi trent’anni, anni luce dietro dal tormentone del bunga-bunga, forse la nostra storia repubblicana avrebbe preso tutt’altra direzione. Ahimé, ridiamo per non piangere, perchè il teatrino purtroppo è fuori lo schermo. Ed è quello che dovremmo “censurare”, per non apparire agli occhi dei nostri figli i bamboccioni che alle urne ci cascano sempre.

Il siparietto di Virginia Raffaele a “Quelli che il calcio”

Cartolina da Viareggio: Mi sposo con Groupon!

Il “matrimonio” scotta sempre, soprattutto in vista di un autunno davvero caldo per il Belpaese. Scotta in che senso? Nel senso che ci sono un mucchio di soldi da sborsare, anche perché la regola “basta un prete e una chiesa” è rimasta imprigionata nella pagine degli “Sposi Promessi” di Manzoni. Per quanto riguarda l’aspetto folcloristico, il nostro Sud ha molto da insegnare al resto del Belpaese – l’assillo del regalo in busta è legittimo in giorni di crisi nera – perché gira e rigira il terrore è quello: Chi glielo dice a mammà che facciamo fuori un bel numero di invitati o in alternativa dimezziamo le portate del pranzo o della blasonata cena?

Una coppia toscana non ha rinunciato al numero delle portate, ma rischiava di far saltare il banchetto nunziale perché “fare un mutuo” per arrivare all’altare non era proprio il caso. E così si sono presentati al ristorante L’Ocanda Milu, delizioso posto a pochi passi dal centro di Viareggio e hanno trovato la soluzione intelligente: mangiare bene e spendere una sciocchezza, grazie a Groupon. Il ristorante viareggino, il cui menù è anche per celiaci, ha occupato quasi tutta la sala per questo banchetto nuziale che costerà 17 euro a persona.

Scusate, ma al paese mio non bisogna spendere dieci volte tanto? Il trucco c’è o non si vede? Niente, trucchi. Si tratta di acquistare un bel mazzetto di coupon sul sito famoso di offerte giornaliere e accordarsi con il gestore per un pranzo composto da più antipasti, primo, secondo, contorno, frutta, dolce, acqua, vino. Mettiamoci pure una torta buona e dello spumantino. Tutto con semplicità e dignità. Certo non ci saranno addobbi mega galattici, ma basterà la presenza degli sposi a rendere speciale il resto.

Ai tempi dei nosti nonni, la Versilia sapeva indossare “la conottiera” quando la  bellezza si dondolava sulla semplicità , senza il timore di “essere per apparire”. E questa cartolina sa darci una lezioncina, nelle estati magre in cui ci servono i russi per far sopravvivere il litorale.

  Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!

Cartolina dal Lido di Venezia: 20 anni di CinemAvvenire tatuati sulla mia pelle

Le passioni si vivono a pieno e sono bastate due persone testarde a confermarmi ciò che sosteneva un piccolo grande artigiano al di là della Manica: “Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”. Da una parte Gillo Pontecorvo, maestro del cinema e direttore “partigiano” al Festival del Cinema di Venezia; dall’altra Massimo Calanca, un comunicatore di stile cresciuto nell’audiovisivo a fianco di intellettuali della settima arte come i fratelli Taviani e lo stesso Pontecorvo. La rivoluzione è avvenuta grazie ad entrambi proprio qui, al Lido di Venezia, venti anni fa attraverso un progetto che ha avuto forti impatti su più generazioni: CinemAvvenire.
Finalmente i giovani entravano ad un Festival di Cinema dal portone principale, diventandone i protagonisti. Sotto la direzione di Gillo Pontecorvo, la Mostra d’arte cinematografica di Venezia si trasformò in una grande festa, dentro e fuori il Palazzo del Cinema, e un punto di ritrovo per la gioventù, di qualsiasi provenienza ed estrazione sociale.

Quando l’Anica-Flash nel 1993 scelse la giuria dei giovani di CinemAvvenire per premiare il film opera-prima, quella fu una grande svolta, perché diventammo un’istituzione all’interno della Mostra del Cinema di Venezia e i nostri premi erano annunciati ufficialmente tra quelli collaterali. Ed essere stato il Presidente di quella giuria per più edizioni ha rappresentato molto per me, soprattutto quando alla fine degli anni ’90 fu costituita una giuria Internazionale, con giovani provenienti da più parti d’Europa, inclusi i paesi dell’Est. La notizia fece così rumore che se ne parlò anche oltre i confini dell’Italia.
Senza contare gli incontri, i seminari, i workshop fatti con i grandi maestri, alcuni dei quali si sono concessi soltanto a noi : da Nanni Loy a David Linch, da Ken Loach a Robert Altman. Persino Jack Nicholson cedette alle avances di Pontecorvo, che quella sera puntò il dito su di me e disse: “Sei pronto? Ecco la tua chance. Prepara due domande per Nicholson”. Me la stavo facendo addosso dalla paura.

Non prendere sul serio una ciurma di ragazzotti che, invece di cazzeggiare chissà dove, venivano al Lido a parlare di cinema, era l’amo a cui adescavano i disfattisti. Il tempo ci ha dato ragione, perché molti di noi, figli di CinemAvvenire, oggi lavorano con successo nel campo del cinema, dell’audiovisivo, della comunicazione.

Ritornare al Lido dopo 10 anni, non mi ha restituito tanti luoghi della mia vita, ma alcune persone che hanno segnato il mio privato e il mio percorso professionale. Sono tornato non per tuffarmi in una reunion nostalgica, ma per ritrovare esseri speciali con cui ho condiviso giorni memorabili. Ringrazio i giovanissimi, che mi hanno fatto un bel regalo per questo ventennale: (ri)consegnare il premio CinemAvvenire. La mia prima volta fu all’Hotel Excelsior del Lido al produttore Domenico Procacci; sabato scorso nello stesso identico posto al regista Ulrich Seidl.
Sono tornato al Lido per onorare la memoria di Gillo Pontecorvo e ringraziare pubblicamente Massimo Calanca e Giuliana Montesanto, che per me sono stati anche due riferimenti importanti dal punto di vista umano. Grazie per aver scommesso allora sul figlio di un operaio, facendogli vivere uno dei sogni più belli della sua vita: entrare da protagonista nel mondo del cinema, tenendolo lontano dagli spasimi del divismo e della volgarità. Grazie per avergli lasciato oltrepassare il grande schermo e sperimentare la “ricchezza della diversità”, perché il cerchio non è rotondo.

L’estate 2012 nel Belpaese: Splash da Scalea a Santa Margherita Ligure

Si piagnucola sull’andamento negativo del turismo in Italia ad agosto. Secondo Federalberghi ci salvano gli stranieri. Non è una novità. Tuttavia, ci sono ancora gli impavidi italiani che hanno scelto le coste del Belpaese in questa estate così torrida.
A suon di colpi bassi da parte di Lucifero e compagnia bella, non abbiamo avuto un attimo di tregua, neanche se avessimo avuto l’aria condizionata appesa al collo.

Ho fatto splash a Scalea, colonia partenopea dai primi anni ottanta in terra calabrese. Tra il viveur nazional-popolare e l’imperdibile “tuffo a cufaniello” in acqua, il litorale che si spinge fino a Diamante riporta agli antichi abusivismi edilizi degli anni del riflusso. Che bei tempi: l’èlite di periferia si era fatta “la casetta in Canadà” a Baia Domitia, in Campania; l’operaio provava per la prima volta l’ebbrezza della proprietà privata in Calabria.

Ho fatto splash a Sorrento, con i depuratori che andavano a singhiozzo. Una bottiglia d’acqua la pagavi più della benzina. Ho chiesto al ragazzotto “panzuto” accanto a me: “Vuoi risparmiare i soldi della palestra il prossimo autunno? Vai di corsa al supermercato Decò in viale Italia e portami una bottiglia d’acqua frizzate, fredda al punto giusto con il contributo dell’aria condizionata”. Dare da bere agli assetati in stile low cost?

Ho fatto splash a Gallipoli, con la vana speranza di vedere Massimo (D’Alema) sorseggiare una birra e chiedergli in prestito qualche pezzo da 5 e 10 euro. Una volta con questi soldi si mangiava, adesso ahimè bastano solo per un soft drink.

Ho fatto splash tra Gaeta e San Felice Circeo, occupata per metà dalla chic borghesia paesana e pantofolaia, made in Campania e Lazio, a cui avremmo dedicato qualche vecchia melodia del mascalzone partenopeo Tony Tammaro. Quest’anno si aggiravano “incazzati” sulla battigia, perché con l’Imu e mazzi vari altro che godersi la quiete del golfo, la montagna Spaccata o l’isola di Ponza dalla villetta unifamiliare, salva spazio per suocero e suocera, all inclusive, così risparmiamo anche la baby-sitter.

Ho fatto splash a Numana e mi sono accorto che i marchigiani perderanno la bellezza del Parco del Conero se non si danno da fare per tappare “la bocca” a quel “fetuso” fiumiciattolo che tutti i pomeriggi riversa in mare l’occorrente per insozzare l’acqua.

Ho fatto splash sull’isola del Giglio, ma mi annoiavo sotto l’ombrellone. E così mi sono messo a fare il censimento di tutti “gli stupidi curiosi”, che a loro volta si facevano fotografare davanti al relitto della Costa Concordia. Organizzandomi in tempo, per ammortizzare lo stipendio, avrei chiamato il capitano Schettino e avrei venduto la foto con “l’eroe dei nostri tempi”.

Ho fatto splash a Forte dei Marmi, nel cuore della Versilia, dove senza tanti soldi non si canta neanche un quarto di messa e l’unica spiaggia liberà è “in culo al Forte”. Per fortuna ci sono i russi tra la Capannina e il centro del paesotto che vuole imitare Capri: bagni e vetrine di grandi firme semivuote. Dopo ferragosto, scarseggiavano persino le cinquantenni in menopausa con i diamanti appesi alle tette, quelle in cerca di toy-boy. Mare da bandiera blu? Mah, sarà. Dovrò tornare dall’oculista.

Ho fatto splash a Santa Margherita, dove i liguri con la puzza sotto il naso hanno finito di fare i gradassi. A metà d’agosto la Liguria a pezzetti si svendeva sui vari Groupon; i genovesi si sono messi a sguazzare nel mare cittadino; le famiglie vacanziere hanno dato forfait e sono fuggite sulla riviera Romagnola alla ricerca di strutture più moderne e più accoglienza.

Volevo fare splash portandomi dietro “la mappatella”, quella che andava di moda negli anni ’50, quella che i romani delle borgate del film di Emmer “Una domenica d’agosto” si portavano lungo il litorale d’Ostia. Mi avrebbero preso per un cafone. Oggi va di moda il cestino da picnic versione beach.

Cose buone dal “Belpaese”, dove l’euro vale meno di una lira e la Merkel lo sa!

Turismo, crolla il fatturato