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Archives 2012

Cartolina da Brescello: Io sto con Peppone e Don Camillo e vi dico la mia

A Brescello non c’è nessun manifesto elettorale, in vista delle amministrative del 6 e 7 maggio. Tuttavia, al centro della piazza del paesotto della provincia di Reggio-Emilia, ci sono due statue sorridenti. Sono quelle di Peppone e Don Camilo, i due personaggi nati dalla penna di Guareschi, che hanno fatto la fortuna di questo luogo attraverso l’interpretazione cinematografica  del francese Fernandel e dell’italiano Gino Cervi.

Julien Dunvivier volle questo posto come set della serie di film dedicati al simpatico parroco e al sindaco comunista. Da allora Brescello è meta di pellegrinaggi. Persino la curia locale si è trovata in serio imbarazzo, perché il crocefisso, all’interno della chiesa, è continuamente visitato. Miracoli? Forse uno e dietro una macchina da presa: quello di parlare al parroco Don Camillo.

Arrivare in questi luoghi, che sembrano essere incollati al bianco e nero dell’Italia del Neorealismo, ti fa uno strano effetto. A metterci la pulce nell’orecchio c’è il museo pieno di cimeli, valorizzato dalla Pro Loco, ma il resto lo ha fatto la storia locale. La piccola stazione deserta è identica a quella di ieri e sui binari si sente ancora l’odore delle rotaie dell’ultimo treno, quello che, nel film “Don Camillo”, portò via il parroco più amato della storia del cinema.

La Brescello di Peppone e Don Camillo apparteneva all’Italia povera, sincera, che allontanò i rumori delle bombe per raccogliere la speranza seminata di un futuro migliore. Il passaggio travagliato da sogni contadini a quelli della rampante civiltà del boom economico avrebbe avuto un caro prezzo da pagare: nascondersi senza prendere una posizione netta.
A quei tempi o stavi con Peppone o con Don Camillo, conservando comunque la lealtà verso sogni ed ideologie. Oggi invece finisci prigioniero di molte liste civiche, che sono la liquefazione della diarrea da Prima e Seconda Repubblica. E le prossime elezioni amministrative ce lo dimostreranno.

Il regime democristiano è stato censore al cinema quanto il fascismo, ma per fortuna Peppone e Don Camillo l’hanno scampata bella. E ritornare a Brescello, anche in una mattinata uggiosa, è l’unico modo che il viaggiatore ha per risanare la memoria dei nostri nonni dalle porcherie di chi vorrebbe farci credere che qualcosa sia cambiato.

 Brescello, il paese di Don Camillo e Peppone

 Visit Brescello

Diario di viaggio: Il tesoro di Sabbioneta nello sguardo di Carolina

Volevo portarmi un souvenir speciale da questo mio ritorno a Sabbioneta, la bomboniera segreta, patrimonio UNESCO, ai confini tra il mantovano, il reggiano e il cremonese. E questa volta il pretesto per tornarci non erano solo lo gnocco fritto e la spalla cotta di Ciano, un buon bicchiere di lambrusco, la rassegna musicale all’interno del magnifico teatro o l’arte che si respira in ogni angolo di strada. La scusa erano alcuni legami che vi avevo lasciato, sospesi come quelli dei viandanti di una volta e che racchiudono il vero significato degli spostamenti di un viaggiatore.

Ho ritrovato la memoria impavida della comunità sabbionetana nel viso beato di Carolina, 85 anni portati splendidamente. Ero faccia a faccia con lei, poco prima di partire, ad un tavolo del bar Ducale. Mentre l’anziana signora voleva convincermi che i movimenti lentissimi degli arti la rendevano una figurante di una pellicola sbiadita del secolo scorso, io invece pensavo esattamente il contrario.
La sua lucidità, che scivolava in quel filino di voce, mi ha riportato ai tempi in cui noi giovani trascorrevamo più tempo con gli anziani, prima che l’invasione delle “badanti” li rendesse apparentemente rottami da museo. Sabbioneta non è “un paese per vecchi”, ma ha un tesoro che va oltre l’arte e le pagine di storia lasciate da Vespasiano Gonzaga: sono gli anziani, colonna portante di una comunità, perché se non fosse stato per il loro coraggio, noi oggi non staremmo qui a parlarne.

La gioventù dovrebbe trasformare la fretta dello sciupare il presente nella disponibilità a scambiare quattro chiacchiere con loro, a sedimentare nei racconti dei nonni la memoria civile che rende qualsiasi paese davvero libero. Negli occhi luminosi di Carolina ho scoperto l’ultimo segreto della Sabbioneta del secolo scorso, quello in cui bastavano i legami affettivi a rendere gli uomini felici.
Stringendole la mano, prima di partire, mi sono ricordato dell’ultima volta in cui lo ha fatto mia nonna Lucia. Da allora non mi sono più voltato indietro, perché sapevo che non l’avrei più trovata.
Eppure, nei miei vagabondaggi, mi capita sempre l’occasione di rivederla accanto a me, come è accaduto a Sabbioneta dopo l’incontro con Carolina, 85 anni portati splendidamente bene, protagonista del film più bello che sia stato girato nella cittadella della provincia di Mantova: la visione lucida della dignità di chi ha vissuto la vita per la famiglia.

 Sabbioneta

Imu: Oltre al danno, anche la beffa

La parola chiave è fatta di una povera consonante accerchiata da due vocali. Se l’Imu fosse formata da tre numeri, da vecchi giocatori incalliti gli italiani se li sarebbero già giocati. La tassa malefica è l’incubo della primavera, perché, nonostante Mario Monti si sia preso la briga di passare al Salone del Mobile di Milano per rassicurarci, resta davvero un colpo basso. Sputa in un occhio dell’ultimo sogno dell’italiano: un tetto di proprietà sopra la testa. La soluzione più easy è una bella “casetta in Canada”?

Si fa a scaricabarili perché i conti non tornano. La “sòla bella e buona” ce l’ha tirata il governo precedente, stonando con “Addio mia bella ICI”. Adesso restituiamo tutto e con gli interessi triplicati.
Mentre i partiti, chi più e chi meno, sono travolti da scandali e affari immobiliari, la stangata la subisce chi ha un mutuo acceso per la prima casa: oltre al danno, anche la beffa. Soldi da versare alla banca, alla quale si aggiunge una tassa di un immobile che per giunta non è ancora di proprietà. Mentre gli intoccabili delle caste, parlamentari inclusi, continuano a svignarsela, i poveri fessi restiamo noi.

Ieri in treno una signora sudamericana mi ha rimproverato: “Dite che noi siamo terzo mondo, ma dalle mie parti l’imposta sulla casa è davvero equa e il conto ci arriva preciso a domicilio”. Se continua così, dovremmo tagliare i costi della badante accanto all’anziano di casa e prenderci un contabile, perchè qui nessuno ci capisce un fico secco.

Mi sa che, per sfuggire al ricatto dell’Imu, rinuncerò alla mia casetta e farò come Beniamino Lomacchio, l’impiegato comunale del film di Steno & Monicelli “Totò cerca casa”. Chiederò rifugio in un’aula scolastica. Ops, dimenticavo che la scuola italiana sta messa peggio del secondo dopoguerra del secolo scorso.
Tra poco obbligheranno i nostri figli a fare i turni di notte per mancanza di aule e suppellettili.E noi li proteggeremo facendoli dormire di giorno per non destare il sospetto di vivere in un Paese dove, all’alba di ogni giorno, c’è un suicidio.

  Calcola l’Imu

Il Fu Mattia Pascal tutto social: Non lasciamolo marcire in rete!

Negli ultimi anni è balenata a non pochi l’idea che i profili fake proliferanti su Facebook rappresentino l’anima social di Il fu Mattia Pascal. Il personaggio pirandelliano, che una gran parte dei professori della mia generazione ha fatto passare come un vigliacco del secolo scorso, è stato riabilitato dal popolo della rete. Il sospetto resta: chi non ha mai pensato almeno una volta di taggare il proprio divenire in un’altra identità?

Quando nomino ad alta voce Mattia Pascal, irrompe nella mia mente il volto scalfito di Marcello Mastroianni, che nel 1985 si insinuò, con una memorabile interpretazione, tra le pagine pirandelliane lette e rilette. Tuttavia, mi convinco sempre di più che non dovremmo lasciar marcire questo personaggio tra i falsi profili facebookiani, ma concedergli un’altra chance.Chi ci dice che i sogni e le inquietudine non abbiamo le medesime urgenze?

La vita ci offre opportunità di cambiamento, ma non le cogliamo, perché preferiamo sguazzare nell’accomodante fluire della routine, innaffiata con una memoria patinata che mai più ritornerà. E liberarci di certe relazioni sociali che in fin dei conti non sono un valore aggiunto alla nostra esistenza?
Potrebbe essere il primo passo per attivare una reincarnazione all’interno della nostra vita. Il branco crea apparentemente sicurezza ed è uno status direttamente proporzionale ad un monito di Charles Bukowski:”Attenti a quelli che cercano continuamente la folla. Da soli non sono nessuno.”

Chi viaggia tanto, è facilitato nel creare nuovi legami, anche se a volte fatti di pochi istanti. E’ una delle scorciatoie per stare dietro al passo di chi non vuole marciare a testa bassa. La metamorfosi produce gli enzimi che flirtano con la parte vera di noi.

E forse dopotutto Mattia Pascal non ha fatto un grossolano errore in quella scelta azzardata e coraggiosa allo stesso tempo. Trasformare “il fu” della sopravvivenza e della rassegnazione in “il sarà” dell’evoluzione ha un prezzo in contanti: lasciarci alle spalle coloro che c’erano fino ad un attimo fa, ammettendo che sono usciti dal recinto della nostra vita e non ci torneranno mai più.

Pulitzer all’Huffington Post: La resa dei conti del giornalismo digitale

Uno smacco? Il premio Pulitzer se lo sono pappati quelli di Huffington Post, il sito all-news che è l’ultima frontiera del giornalismo digitale. Una sorpresa che gira bene sui social e che legittima ancora i percorsi intrapresi da alcuni di noi. Mentre la carta stampata diventa più vintage – anche i free press stanno andando a farsi benedire – l’informazione tritata nei bit ha ormai il suo device di consultazione: è proprio il tablet che qualche tempo fa lo stregone Steve Jobs consegnò a noi smanettoni e che ora, con i prezzi a ribasso, è sempre più alla portata di tutti.

Stanno scemando i tempi delle caste e dei privilegi di chi aveva in mano la penna e l’inchiostro. Questo non basta più, così come illudersi che sia sufficiente saper scrivere per fare di un sogno di molti la professione di pochi. Mentre Facebook e Google cercano di rinchiuderci tra mura blindate – un ex Google man potrebbe essere al timone dell’avventura Huffington made in Italy – si tentano nuove strade perché qui il nocciolo della questione è quello: chi li tira fuori i soldi per pagare l’informazione del giornalismo digitale, visto che la pubblicità on line non fa fare tanti quattrini?
Mi riferisco a quella di coloro che lo fanno per mestiere. I social network sono diventati la piattaforma più efficace per distribuire contenuti. Tuttavia, chi produce contenti social è sotto l’occhio del ciclone: non è poi così banale buttar giù un update di Facebook o una Tweettata, così come per uno storyteller non vale sempre la regola che la leggerezza la faccia franca sulla coerenza del trattamento riservato a qualsiasi notizia.

I prossimi mesi saranno cruciali ed è inutile stare a piangersi addosso, tanto l’editoria continuerà a depennare tanti posti di lavoro. Tutti a casa? Assolutamente no. Non è l’inizio, ma paradossalmente la fine del tunnel. Affacciandosi in Europa e al di là dell’oceano, stiamo capendo che direzione prendere, affinché ognuno di noi dia un contributo attivo alla definizione del nuovo identikit del giornalista, tenendo conto del lettore 3.0. Quest’ultimo avrà una voce più partecipativa, adocchierà l’informazione se si sentirà parte di una community e sarà pure disposto a pagare la notizia, se troverà professionisti veloci e puntuali. Le penne lumache finiranno in soffitta, perché in questa fase di interegno il destino è segnato: la carta sarà la landa isolata dell’opinionista, il digitale la spugna delle news in tempo reale. Sarà la volta buona per sbattercene di ordini di settore, cattedre o tribù?

Sabato di merda: L’addio a Morosini dall’Italia che sputa su Piazza della Loggia

L’Italia è ammutolita, tifosi e non, per la scomparsa in campo di Piermario Morosini. La morte del centrocampista venticinquenne del Livorno sabato a Pescara ha fatto il giro dei social in fretta e furia e su alcune bacheche di Facebook in molti si chiedevano: “Si può morire alla sua età faccia a faccia con un pallone?”.

Dall’altra parte della barricata era già bella e pronta la ramanzina. La prevenzione ha motivo di esistere quando si tratta di un arresto cardiaco? Mettendo da parte l’intralcio dell’auto dei vigili urbani, è legittimo un dubbio. All’interno di una macchina da guerra, pardon “da business”, come il calcio, quanto impegno spendiamo nel nostro Paese per tutelare la salute dei calciatori? Le malelingue risponderebbero che, con tutti i quattrini in tasca, i giocatori potrebbero permettersi il lusso di avere mezza clinica mobile ad personam.
Ci chiediamo se gli stadi siano davvero attrezzati come dovrebbero – senza distinzione di serie A o B – e quali siano in realtà gli investimenti in tal senso. Purtroppo viviamo in un paese in cui si agisce quando scatta l’allarme e può scapparci il morto. Senza mettere in conto l’adeguata formazione che manca ai soccorritori, in difficoltà al momento dell’insorgenza della criticità.

Tuttavia, nei tanti minuti di silenzio dedicati a Morosini lungo tutto lo stivale, ci siamo dimenticati delle vittime dell’attentato a piazza della Loggia a Brescia, i cui assassini l’hanno fatta franca una volta e per sempre. Quei morti, accartocciati nella memoria sbiadita degli Anni di Piombo, hanno subìto gli sputi dell’Italia assassina, quella ammantata nella stessa nonchalance di chi non avrebbe voluto sospendere il campionato, perchè dopotutto i calciatori devono essere macchine da guerra. E’ stato un sabato di merda, perchè siamo stati incapaci di unire un lutto sportivo a quello della nostra memoria civile.

Elezioni comunali ai tempi di Facebook: Fuori dal gruppo

Dalle mie parti professavano che ‘o paisano era ‘o paisano. Lui sì che si sarebbe fatto in quattro per te e guai a trattarlo male. Soprattutto a ridosso delle elezioni comunali, tutti tornavano a sorridere e non ti negavano una stretta di mano. Era arrivato il tempo di fare scorta di disinfettante, perché acqua e sapone non bastavano come detergente.
Anche chi non aveva mai visto un film di Pietro Germi, aveva imparato a distinguere i burattini della provincia arrivista dell’Italietta di mezza età: i democristiani papponi che ti mettevano in tasca pezzi da 10 e 20 mila delle vecchie lire per allenare l’olfatto al profumo fradicio del potere locale; i socialisti craxiani che inseguivano carri funebri per spargere garofani di prima scelta, mummificando le vecchie glorie; i comunisti cinguettanti che se la menavano con la solita filastrocca che in Russia tutto filava liscio come l’olio; i radicali chic a dieta perenne, perché lo sciopero della fame era un pretesto comodo per fare la cresta sulla spesa; i liberali insicuri che non sapevano mai quale fosse la strada del rigurgito tra libertinaggio e permissivismo; i fascisti piagnucoloni perseguitati dall’ombra del vittimismo plebeo.

I social network hanno cambiato la scenografia – la roccaforte dello sharing e del virtuale sembra più immediata ed incisiva – ma non il vizio. Anzi, hanno contribuito ad incrementare l’illusione ottica di pensare che basti poco per affacciarsi alla politica: un numero consistente di contatti su Facebook, attirati e coltivati nella tana del lupo, con le frasi scemotte che renderebbero interessante anche la peggiore delle bacheche.
Se una volta davamo ai tipografi la colpa per i manifesti osceni da campagna elettorale, oggi non possiamo che bastonare “i photoshoppari” improvvisati. Sono loro a far girare nei nostri feed o bacheche i santini grezzi che spostano una campagna elettorale locale verso una propaganda politica glocal, dimenticando che il voto dovrebbe riguardare chi vive ancora in quel posto.

Di fatto non è così, tanto che l’ultima tendenza è ritrovarsi membro di un gruppo su Facebook senza alcun preavviso o invito. Le notifiche proliferano e ti accorgi di essere contemporaneamente un simpatizzante di Destra, Sinistra e Centro. Come fare a non scontentare il “compagno di gioventù” che ti ha arruolato come supporter alla sua compagna elettorale?

  • Sganciarti dal gruppo, facendo finta di niente.
  • Uscire dal gruppo e postare un messaggio in bacheca che sottolinea la tua posizione netta: incazzatura a mille.
  • Inoltrare segnalazione di spam a Facebook.
  • Allertare il tuo legale per violazione di privacy.

Qualsiasi strada sceglieremo, sarà legittimo rimpiangere i vecchi tempi, quelli in cui erano riconoscibili i volti goffi degli aspiranti consiglieri comunali, assessori o sindaci, oggi moribondi e rifilati in un gruppo del qualunquismo facebookiano, e peggio ancora convinti che basti camuffarsi da piazzista-social per essere un divo volgare, pardon un politico glocal!

La fine del Carroccio: Io Terrùn? Tu Ladrùn…

Mi facevano sorridere quando mi chiamavano terrùn con quell’accento stretto che faceva della Padania il fortino del populismo leghista. Mi sono trasferito da queste parti per uno scopo ben preciso: capire se i leghisti fossero fatti di pelle e ossa.
Altro che traditore del populismo borbonico, l’altra faccia dello stivale dove sono cresciuto! Chi vuole osservare e capire deve muovere il culo una volta e per sempre. L’ho fatto senza dare troppo nell’occhio, sperando che i valvassori del Senatùr non bloccassero il mio treno Espresso prima di passare il Po.

Sbarcato nella landa del Sole delle Alpi, mi sono spostato da città a paesotti, dalle colline alla campagna per vedere se il cervello e il pensiero si imboscassero nell’ano della pseudo-civiltà. La stessa che voleva discendere dai Longobardi e che, a spasso coi tempi, aveva intossicato il senso della storia, sputando negli occhi dei poveri cristi che avevano fatto dell’Italia una terra di sognatori dalle Alpi fino a Canicattì.

Pure una penna, piena di inchiostro da terrùn, poteva finire sull’ambaradan del Carroccio. “Terrùn, vieni a scrivere da noi!”, mi dissero. E io col cavolo che davo a zio Peppino lo choc di leggere la mia firma sulla Padania o traviare la povera zia Concetta: come avrebbe fatto costei a rinunciare a Radio Maria per il sound pacchiano di Radio Padania? Prima che arrivasse il trota, erano i bei tempi delle sceneggiate padane, inscenate lungo la laguna di Venezia, tra fasti e festini a furor di popolo, mentre i giovani rampanti tappezzavano sui muri “Roma ladrona!” e recitavano a memoria i dieci comandamenti del federalista-indipendentista-settentrionale.

Mi facevano sorridere quando mi chiamavano terrùn. Adesso stiamo pace. Rideranno anche loro quando li chiamerò Ladrùn, con quell’accento languido che non farà più della Padania il fortino del populismo leghista?

L’uovo di Pasqua: “Sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà guardarti diritta nei tuoi occhi azzurri e far finta di niente. È invece è successo prima che i tuoi sei anni bussassero alla porta dell’età adulta.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Non era previsto un bel niente ed è legittimo il tuo sussurro di disperazione: “Io non sono grande, sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà non versare lacrime di rabbia perchè questa volta la risposta bella e fatta non ce l’ha nessuno, né gli strizzacervelli di turno, né i predicatori o i preti. Si diradano le mistificazioni di chi vive nella gabbia di un luogo comune. La morte è roba seria.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta di esser forte per te, perchè da grandi dicono ch e la rabbia, mescolata al dolore, dovrebbe evaporare. È una bugia. Mi prende ogni volta che finisce tra le mani un pezzetto di carta, su cui ti sei esercitata a scrivere, evitando le solite zampe di gallina da prima elementare, “Sei forte, papà”.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Era prevedibile il ritorno degli ipocriti, i cacasotto che un dì se la sono data a gambe. Adesso se la fanno addosso dai rimorsi e vorrebbero portarti a fare una scampagnata al parco. Le loro coscienze valgono quanto le pozzanghere, in cui ogni volta caschi tuffandoti dall’altalena.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta che il cioccolato dell’uovo di Pasqua sia dolce e farti le fusa mentre ti insozzi il musetto. Mi perderò nei tuoi occhietti azzurri e mi ricorderò di quando all’età tua mi rassicurarono: La luce sarebbe tornata dalle ferite dell’ultimo “Cristo finito in croce”.

Per questa Pasqua, nonostante sia un deplorevole mendicante di parole, vorrei pregare a modo mio, affinché l’ultimo Cristo finito in croce lasci tornare il tuo papà per un istante soltanto. Quello in cui, da grande, vestita di bianco, ti avvierai all’altare come una bellissima principessa scalza e raggiungerei l’uomo della tua vita.
Ti accompagnerà chi ha sostenuto, fino all’ultimo respiro, la convinzione che solo l’amore tra un uomo e una donna diano significato alla nostra esistenza. Lo riconoscerai perchè sarà uguale all’ultima volta che ti ha fatto toccare il cielo con un dito: tuo padre.

Sei proprio un Taricone! Chi glielo dice a Sophie che papà non c’è più?

 

Addio a Roberto Esposito, l’ultimo disegnatore della Napoli da strada

Se fino ad una decina d’anni fa fossi passato in via Stadera a Napoli, lo avrei trovato lì. Roberto Esposito (1962-2012), l’ultimo disegnatore della Napoli da strada, era appostato in qualche angolo ad osservare il fluire del magma partenopeo. Lui non sapeva di esserlo, ma il suo pennello e la sua matita appartenevano all’ultima generazione degli artisti “abusivi” partenopei. Gli stessi che, pur non avendo un nome quotato nelle gallerie o misurato con il termometro della popolarità, avevano avuto la stessa spiritualità dei pittori anonimi che ancora oggi si appostano lungo la Senna a Parigi: la spiritualità di cogliere e raccontare con un tratto semplice, dal sapore istintivo e popolano, la realtà che li circonda. Forse perché, come amava ripetere, “Ho sempre avuto la profonda convinzione di essere sempre stato nel posto giusto, su questa scacchiera del mondo”.

Diplomatosi al Liceo artistico di Casoria nel 1979, Roberto Esposito aveva trasferito nei suoi racconti disegnati l’iconografia teatrale partenopea – adorava Nino Taranto e la verve della scrittura di Gaetano Di Maio – diluendo il volto di un Totò o un Eduardo nella presa di coscienza della città, che muta con i passi dell’anima. L’arte da strada di Roberto Esposito non apparteneva alla superbia paesana e al goffo divismo
della provincia, ma alla sobrietà anonima e spigliata della città, intinta anche nella ritualità: il profumo del ragù domenicale, la culla della famiglia, la socievolezza davanti ad una partita di pallone, la lettura costante del passato letterario che fanno di Napoli la stella polare del tempo.

Ho conosciuto Roberto lo scorso novembre, durante uno dei miei viaggi. Era un altro viaggio verso casa, prima che tornassi a fare il vagabondo con due disegni suoi. La nostra amicizia è durata poco più di centoventi giorni. Quando gli chiesi dove fossero esposte le sue opere, lui sorrise e replicò: “A Napoli, nelle botteghe, nelle pizzerie, sulle bancarelle…”. Allora capii che lui apparteneva alla scuola partenopea dei disegnatori da strada, gli unici che sanno difendere la napoletanità dal napoletanismo contraffatto. Roberto Esposito, lettore di questo blog fino alla fine dei suoi giorni, adesso sa finalmente dove “vanno a finire i palloncini”, quelli di una vecchia canzone di Renato Rascel. Non scoppiano mai, ma si posano nell’ultimo angolo del cielo, sospesi per sempre come il suo aforisma nascosto nei suoi disegni: “L’Amore è la nostra destinazione ed è la massima realizzazione che un uomo e una donna possano conseguire”.

  Drawer Roberto Esposito died at 50 last Saturday… (from rosariopipolo.com)