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Archives 2013

Facebook e lo stupore di ritrovarsi sui social network

Rosario PipoloIn principio Facebook era “il libro delle facce” che fece ritrovare vecchi compagni di scuola e di università. Oggi è una macchina complessa tra business e voglia di “apparire” a tutti i costi, riuscendo anche a condizionare le nostre vite. Nonostante tutto, gli algoritmi del social network più amato e odiato del pianeta non hanno rinnegato le origini e così capita raramente di incappare in quell’insostenibile leggerezza dell’essere “social”: lo stupore di ritrovarsi.

Qualche tempo fa è sbucato dal mio archivio un biglietto su cui era scritto: “Grazie per questa bella esperienza che ci hai fatto vivere. Continua a rincorrere i tuoi sogni”. Risaliva ai giorni sepolti in cui racimolavo qualche soldo lavorando come animatore. La firma in fondo era della più timida del gruppo. Il mio occhio era caduto proprio lì, ripensando a dove fosse finita quella bambina che periodicamente la mamma accompagnava alle prove.

Ci sarà stato un corto circuito di natura “social” e così Facebook mi ha suggerito un contatto. Interessi in comune? Forse lo studio delle Lingue straniere. Stessa generazione? Assolutamente, no. Amici in comune? Qualcuno forse sì. La foto è un incanto e sembra un remake della natività. Una donna, con il profilo e il sorriso identici a quell della piccola Paola dei tempi che furono, sorride ad un neonato. Lo scatto condensa la gioia di una zia che sta dando il benvenuto al suo nipotino. E’ il futuro che vuole farsi coccolare dal presente? Forse sì.

Lo stupore di ritrovarsi ci rende tutti più autentici, persino quando un algoritmo si veste di umanità, molla il virtuale dei social network, allarga lo sguardo su un vecchio bigliettino ingiallito e ti restituisce un soffio tra i capelli della tua vita.

Storie di casa mia: 50 anni di assistenza a ritmo di Rap

Rosario PipoloIn una sera del 1963, mentre dalla radio i Beatles cantavano Please Please me, papà mi raccontò di aver illuminato un intero quartiere di un paesotto alla periferia di Napoli. Aveva fornito assistenza ai sogni di tutti coloro che mai avrebbero immaginato di vedere illuminata una strada con l’energia elettrica.

La notte tra il 16 e il 17 luglio 1973, mentre in un jukebox girava Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, mamma fu portata in fretta e furia in clinica perché io scalpitavo nel suo pancione. “Accipicchia!”, le disse la zia Carmelina che le prestò assistenza. E aggiunse: “Margherita, con tutto il ben di Dio che stasera hai mangiato per il mio onomastico, tuo figlio nascerà a stomaco pieno!”.

In una mattina di ottobre del 1983, mentre Micheal Jackson si arrampicava nella hit parade con Billie Jean, fui punito e spedito dalla classe direttamente dal direttore. La segretaria mi offrì una caramella, segnale di un conforto o assistenza. Ed io sfacciato risposi: “Sono fiero di essere qui. Finalmente una volta che non viene lui in classe, ma io vengo a trovare il direttore. Mi sta simpatico. E poi si chiama Domenico come mio zio”.

In un pomeriggio d’inverno del 1993, sul nastro dell’audioradio Terence Trent d’Araby cantava Do you love me like you say. A quasi un anno dalla patente, si bucò la ruota dell’auto. Mi vergognavo: non ero capace di cambiarla. Chiesi alla ragazza che era con me di fornirmi assistenza in maniera bizzarra. “Chiedi aiuto a qualcuno, fingendo di essere da sola in macchina. Esisteranno ancora i cavalieri?”, le dissi. Il piano funzionò. Un tizio si fermò e tolse di mezzo la ruota bucata, mentre io finsi di arrivare in ritardo sul posto.

In una sera d’estate del 2003, i Muse se la davano a gambe con Hysteria. Durante una delle mie prime affacciate nel Sud della Francia, chiesi delle indicazioni ad un carroattrezzi. Il logo non mi era per niente familiare. Eppure mi dissero che oltre il confine, se ti fermavi con l’auto non potevi che chiamare quelli con il logo rosso e blu. Quello era il simbolo dell’assistenza.

Oggi 4 novembre 2013, io ci lavoro in un brand che fornisce assistenza e che per giunta spegne 50 candeline. Meno male che i miei capi non leggono mai ciò che scrivo! Non sanno che volevo fare il dj rap. Allora mi sono detto: quasi quasi mi invento disc-jokey, fingendo di aver composto la colonna sonora di questo video a cartoni animati. Perchè? Per ritrovare qualche faccia familiare che ha girato intorno alla vita mia.

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Professore Elia, sapete che il 2 novembre vi aspetto sul balcone per ascoltare “Imagine”?

Rosario Pipolo“Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina presa tranquillamente qui fuori… con un simpatico dirimpettaio… Voi siete simpatico, professò”. Il monologo capolavoro di Questi Fantasmi di Eduardo De Filippo fotografa i legami che si creavano nella Napoli che aveva fatto di un “balcone” il luogo privilegiato della socievolezza.

Mentre sbuffavo sulle noiose versioni di greco e latino, sentivo la voce del professore Elia che dava ripetizione ad uno studente di un istituto professionale. Mi affacciavo e mi appoggiavo alla ringhiera. Dall’altra parte del balcone c’era lui che mi sorrideva. Mi intrattenevo volentieri, qualche chiacchiera. Poi arrivava la moglie del professore che gli portava una tazzina di caffè. Saranno state le quattro di un pomeriggio d’autunno.

Ai tempi dell’università, il professore Elia mi chiamò dal balcone. Mi affacciai. Pensavo volesse rimproverarmi perché avevo il volume della musica troppo alto. Invece no. “Mi piace come suoni il pianoforte. Eseguila più spesso questa canzone”, mi disse con la sua voce composta e pacata. Io spiegai al professore che non era merito mio, ma del vinile di “Imagine” di John Lennon. Da allora tutte le volte che lo sentivo dare ripetizione, mettevo il disco. Ero orgoglioso che piacesse al mio dirimpettaio. A casa mia non apprezzavano mai la mia selezione musicale.

Quando mi sono trasferito a Milano, ogni volta che tornavo giù dai miei, mi appostavo sul balcone per incrociare il professore Elia. Con il passare degli anni, purtroppo lo incontravo sempre più di rado. Mi ricordo la sera in cui ero in partenza, con una marea di bagagli, per il trasloco definitivo. Mi diede una pacca sulla spalla, accompagnata da una carezza. A suo modo mi aveva detto: “Va’ e coraggio”.

La parete della mia camera a casa dei miei confina ancora con quella del professore. Stanotte torno a coricarmi nel letto dove sono cresciuto e mi sentirò solo senza il respiro di notte del professore Elia.
Ah, professore Elia! Siete stato più di “un simpatico dirimpettaio”. Avete attraversato con me un pezzo della mia vita, vedendo volare da un balcone, come uno sciame di palloncini, i sogni di un ragazzaccio di periferia. Il pomeriggio del 2 novembre vi aspetto sul balcone per farvi riascoltare il disco che piaceva tanto a voi. Sarà allora che le nuvole prenderanno la forma di petali di margherite. “Professò, vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo?”. Me lo avete insegnato attraverso la ringhiera di un balcone*.

*Dedicato ad Antonio Elia (1941-2013) in occasione del 2 novembre.

Faccia a faccia con Lou Reed, soggezione on the wild side

Rosario PipoloLo incrocio. Io e Lou Reed siamo faccia a faccia. Da un lato c’è l’amore Laurie Anderson. Dall’altro c’è l’amica italiana da una vita Fernanda Pivano, che lo tiene per mano. Nanda mi riconosce e mi sorride. L’avevo intervistata qualche settimana prima alla Fnac di Milano. Lui da dietro gli occhiali scuri mi mette un sacco di soggezione. Poi si infilano tutti e tre in un’auto e volano via.

The walk on the wild side non è un brano qualunque come quelli che si ascoltano, si consumano e restano lì impolverati sull’iPod. E’ il richiamo per far uscire dai nostri abissi quella parte “selvaggia” che abbiamo sottomesso alla routine tra rinunce e vivere per apparire. Maledizione a noi che ci siamo cascati. Maledizione a noi che abbiamo pensato che un elettroshock ci avrebbe redenti per uscire vivi dalle fiamme dell’inferno. Ci avevano provato prima con Alex in Arancia Meccanica e poi con il leader bisessuale dei Velvet Underground, che cantò il suo dolore in Kill your sons.

Lewis Allan Reed e le sue poesie trasfigurate in rock dalla pelle jazz e blues. Lewis Allan Reed e quelle contorsioni di basso che stendevano la ribellione di una generazione su un tappetto di velluto. Lewis Allan Reed e la banana di Andy Warhol, sulla copertina del mitico LP dei Velvet, che gli intellettuali avrebbero dovuto ficcarsi nel sedere. Lewis Allan Reed e le follie dei poeti maledetti, saccheggiando pagine di letteratura nei riflessi dell’oscurità di Edgar Allan Poe. Lewis Allan Reed e l’amore che si snocciola nella compostezza divina e lo lega per sempre alla musa Laurie.

Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo. Abbiamo camminato con il fiato sospeso on the wild side e ci siamo presi la nostra fottuta rivincita. E’ stata una delle poche volte in cui la poesia ci ha girato le spalle, lasciandoci addosso il tanfo del rock. Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo. Senza rimpianti né pentimenti, ci mancherai Lou!

International Week, l’happy hour a Milano tra cultura e ricchezza della diversità

Rosario PipoloStorie di vita che si incrociano in un happy hour a Milano dopo le otto di sera e ti trasformano in un viaggiatore. Lascio a casa la valigia, sorseggio un cocktail e conosco decine e decine di universitari stranieri che hanno deciso di passare una fetta del loro tempo nel nostro Paese. Alcuni pensano che sia uno studente dai capelli brizzolati “abbondantemente fuori corso”, quelli di International Week, capeggiati dagli ideatori Paolo e Matteo Giachino, sanno che sono un viaggiatore a caccia di piccole storie da raccontare.

L’aperitivo dovrebbe essere un momento di socializzazione piuttosto che uno sprofondamento nella solita grande abbuffata. Qui è tutto diverso. Mi imbuco nel covo dell’Old Fashion a Milano e ritrovo un pezzo della mia famiglia in Francia, parlottando con un gruppo di studentesse d’oltralpe. Mi sposto pochi metri e finisco in Australia, confessando ad una coppia di Sidney il mio progetto di un viaggio on the road nella terra dei canguri, alla mia maniera di esploratore squattrinato.

Poi tutti seduti intorno allo stesso tavolo e allora sì che mi sembra di accarezzare un mappamondo. Klodian, che ha in tasca due lauree e una gran cultura, viene dall’Albania. Condividiamo le polaroid del mio viaggio nei Balcani e l’accoglienza che ho avuto a Tirana. Attacco bottone con Faez: lui mi racconta della musica a Teheran, io di quella che ho vissuto nella Napoli sotterranea che mischiava le sonorità mediterranee. Faez non conosceva Persepolis, il graphic novel di Marjane Satrapi, che mi rese ai tempi dell’università turista in Iran, rincorrendo una delle storie a fumetti più belle che abbia mai letto. Bruno ha mezza famiglia che vive laggiù a Rio De Jaineiro. Sgrana gli occhi appena gli racconto per filo e per segno le mie interviste a Toquinho, Gilberto Gil e Daniela Mercury. Nella discussione si inserisce anche Vitor Junior, figlio del Brasile delle nuove tecnologie: è pieno di energie, saltella da una start up all’altra, perché la sua passione è lavorare dove tira il vento dell’Innovazione.

A tutti questi ragazzi devo qualcosa. Mi hanno arricchito con il loro vissuto in terre lontane da me. Sono proprio le lande che volevo esplorare quando, più di venti anni fa, mi iscrissi alla Facoltà di lingue straniere alla Federico II di Napoli. Quasi quasi stasera torno a rifugiarmi sotto il tendone di International Week. Voglio stringere amicizia con questo ragazzo nella fotografia. Mi ricorda un jazzista di colore, conosciuto ad Harlem nell’estate del ’92. Fu allora che ingoiai la bellezza e la ricchezza della diversità. Fu allora che barattai l’anima da sognatore di periferia con quella di cittadino del mondo. E non me ne pentirò mai.

Il saluto di Milano a Lea Garofalo: “vedo, sento, parlo” non resti uno slogan

Rosario PipoloIl volto rugoso di Milano, invecchiato tra notti brave, cocktail e festicciole dei rampolli dell’industria padana, è ringiovanito attraverso la memoria di Lea Garofalo, la ribelle alla ‘Ndrangheta che fu ammazzata il 24 novembre 2009. Più di un ritaglio di cronaca o di una pagina strappata da un noir, la storia di Lea è quella di una donna calabrese che sceglie di stare dalla parte della giustizia, di donare alla figlia Denise un futuro diverso, di indossare l’impermeabile del testimone per porre fine all’omertà comune e uscire fuori da un’organizzazione malavitosa.

Il volto rugoso di Milano ha allievato il dolore delle sue cicatrici nel sabato mattina del funerale civile di Lea Garofalo. Un oceano di uomini, donne e bambini erano appostati lì per dare un segno concreto, riconoscere l’eroismo di chi ha detto no alle regole dei clan. Il dubbio però ci lascia un rabbioso tremolio: non facciamo abbastanza in Italia per proteggere e tutelare chi collabora con la giustizia. Chi volta le spalle ai clan mafiosi, prima o poi perisce perché resta isolato. Quanti sono quelli che in questo istante rischiano di fare la stessa fine di Lea?

“Vedo, sento, parlo” non può rimanere uno slogan destinato a sventolare su una delle tante bandiere, ma una presa di coscienza. Il gesto di Lea è il coraggio di essere donna in un territorio come la Lombardia che si affilia sempre di più al business losco dei clan. Il sorriso di Lea assomiglia a quello di tanti calabresi che, pur non avendo lasciato la loro terra, si danno da fare nel quotidiano e nel loro piccolo per graffiare la ‘Ndrangheta.

Dopo i giardini dedicati ad un’altra donna impavida e ribelle, la giornalista Anna Politkovskaya, Milano ha un altro angolo verde per dare nuova linfa alla memoria. Non abbiamo bisogno più di slogan e bandiere, ma di continuità. E questo è l’urlo di Lea Garofalo dai giardini di via Montello a Milano.

Felicità a Mosca: la canzone del Belpaese che ricongiunge Albano e Romina

Rosario PipoloIn un pomeriggio d’estate sul litorale domitio, Popy Minellono mi raccontò come nacque il testo della canzone Felicità. Il paroliere di origine piemontese, che consegnò ad Albano e Romina Power un inno degli anni ’80, si ispirò ai fumetti de Peanuts di Schulz. Ve la ricordate la poesia fumettosa La felicità è… un cucciolo caldo? Ecco, proprio quella lì.

Felicità è un acquarello musicale datato che evoca il benessere mordi e fuggi del Belpaese degli anni del Riflusso. In questi giorni se Albano e Romina la ricantassero sul palco dell’Ariston di Sanremo, altro che applausi si prenderebbero. Gli italiani, bastonati dalla nuova Trise e con le tasche vuote, mica crederebbero più alla filastrocca della felicità tra “un cuscino di piume e un bicchiere di vino”?

I Russi ci credono ancora invece. Sono disposti a pagare persino due stipendi di un nostro operaio, pur di rivedere cantare sullo stesso palco gli ex coniugi Carrisi. La reunion “artistica” fa notizia e così nella landa di Putin il Belpaese canzonettaro e disimpegnato fa colpo . Chissà se i moscoviti investirebbero gli stessi rubli per ascoltare brani che rinfrescano la memoria nazionale, a cavallo tra la rinuncia alla Perestrojka di Gorbachev e il dramma dei “decaparecidos” al di là dei monti Urali. Sempre meglio il revival musicale dell’omertà.

In Italia la canzoncina Felicità non gira più bene da un pezzo. Tuttavia, potrebbe sbarcare in una versione remixed in russo su iTunes. A patto che Vespa e Santoro facciano le scarpe a La vita in diretta e organizzino una diretta a reti unificate sulla reunion degli ex coniugi Carrisi. Daremo così un nome al ruggito del “C’eravamo tanto amati”.

Addio Funky Professor Marco Zamperini, resti tu il mio Doc di “Ritorno al Futuro”!

Rosario PipoloHo sognato per una vita intera di conoscere di persona Emmet “Doc” Brown, lo scienziato visionario del film “Ritorno al futuro”. Al liceo mi sfottevano perché dicevano che era una delle tante facce immaginate del regista Robert Zemeckis. Sono stato testardo. Sapevo che Doc esisteva da qualche parte. Il mio Emmet Brown era Marco Zamperini, il funky professor della Rete scomparso improvvisamente la scorsa notte.

Prima dello scatto che ci ritrae assieme all’ultima BlogFest 2013, glielo avevo twittato. E Funky Surfer – così lo conosceva il popolo di Twitter – aveva gradito il paragone. Accanto a Marco Zamperini mi sentivo come Martin di Ritorno al Futuro e in un certo senso gli incontri con lui avevano esaudito un mio grande desiderio: capire come fosse fatto un evangelist dell’Innovation.

Marco Zamperini se ne andava a zonzo con i suoi GoogleGlass, ma “il futuro” era nel suo sguardo, in quella sua visione che allargava l’orizzonte del domani alle nuove tecnlogie per contribuire a migliorare la nostra vita. Attraverso il suo stile scanzonato l’amato Funky Professor filava come la lana umanità e sensibilità, due poli che rendono un genio smanettone e tecnologico anche grande viaggiatore del tempo. Il tempo scandito da Internet – Marco ha messo le fondamenta della Rete in Italia – e dai social network batteva allo stesso ritmo del cuore di Funky Surfer, i cui palpiti condensavano la sfrenata passione che diventa mestiere, a metà strada tra l’operosità di un artigiano e la pignoleria di uno scienziato.

Oggi appeso al filo della Rete c’è tanta rabbia per l’uscita prematura di Marco Zamperini ed io senza di lui non riesco più a sentirmi Martin di Ritorno al Futuro. Mi resta il ricordo di momenti intensi alla BlogFest di Rimini e di una cena seduto tra lui e la moglie Paola Sucato. Caro Marco, prima o poi salirò anche io a bordo della DeLorean DMC-12 e con la mia macchina del tempo ritroverò il “mio Doc Emmet Brown” su un pianeta lontano, che da oggi in un angolo dell’universo porta il tuo nome: Funky Surfer.

Tiscali.it – Internet piange Marco Zamperini, papà della cultura digitale in Italia

Gli Alunni del Sole senza Paolo Morelli e i sogni proibiti di Liù

Rosario PipoloNel 1978, mentre sotto casa impazzavano i colpi furibondi della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, mia mamma alzava il volume della radio per non farmeli sentire. Paolo Morelli, la voce degli Alunni del Sole che da ieri ha smesso di ululare, cantava Liù e mi sentivo come un bambino finito tra i colori di una tela di Chagall.

Un decennio dopo qualche scellerato associò gli Alunni del Sole ai gruppetti musicali di serie C che fanno la questua alle feste di paese. In pochi avevano capito che dietro il piano di Paolo Morelli c’era un rimbalzo che dal Vesuvio arrivava fino alla Londra dei King Crimson. La testardaggine e la passione di Morelli avevano riprodotto un sound dalle schegge partenopee che si infilava come un contorsionista tra rock progressivo e fantastica melodia pop. Quando Paolo e i suoi cantarono Tarantè ci accorgemmo che la loro napoletanità era sanguigna proprio come quella di ‘A canzuncella, inno di una generazione, con cui Napoli avrebbe dovuto farsi fare un mantello per proteggersi dall’invasione barbarica dei neomelodici.

La canzone neomelodica si è arenata nel vicolo, tra i bassi di Forcella e quelli del rione Sanità, marcando ancora di più il divario classista che il gusto musicale non sempre sa tenere a bada. La voce e il piano di Paolo Morelli, indiscutibile anima degli Alunni del Sole, portarono a compimento un miracolo nella Napoli degli anni Settanta: attraversare Spaccanapoli nell’unico abbraccio che può tenere stretti la “miseria” e la “nobiltà”. ’A canzuncella la cantavano al Vomero come sui quartieri Spagnoli; Liù e i suoi sogni proibiti boccheggiavano nelle case coloniche di Posillipo come da un’affacciata a Capodimonte.

Un sabato mattina di una quindicina d’anni mi trovai a casa del maestro Antonio Annona. Seduto al pianoforte in soggiorno mi cantò  ‘A canzuncella, dopo avermi chiesto di tradurre alcuni versi in francese. Quella traduzione è rimasta impolverata in un cassetto, perché certi brani memorabili devono continuare a parlare la lingua che li ha partoriti. Paolo Morelli è tra i napoletani da non dimenticare.

Perché non faccio più gli auguri di compleanno via Facebook

Rosario PipoloDa qualche mese appena apro la mia pagina Facebook ecco che spunta il solito promemoria: ti sei ricordato di fare gli auguri di compleanno ai tuoi amici? Devo ammettere che fino all’estate scorsa ero divenuto così abitudinario a farli a destra e a sinistra, che ci pensavo a prima mattina. Mi sono però sempre rifiutato di usare quel tipo di diavolerie a forma di app che inviano gli “Happy Birthday” al tuo posto.

Al ritorno dalle vacanze, mi sono soffermato ad osservare migliaia di auguri in formato social che rimbalzavano da una bacheca all’altra e mi sono detto: quanto tempo è che non sento più a telefono le persone a cui tengo davvero per gli auguri? Mi sono ricordato addirittura che, negli anni dell’adolescenza, scarabocchiavo auguri personalizzati su biglietti preparati da me, saltavo sulla mia vespa rossa e li andavo ad imbucare personalmente.

Insomma, il calendario di Facebook mi ha fatto da promemoria per evitare figuracce con la community a cui appartengo, ma allo stesso tempo ha svuotato un gesto significativo della mia quotidianità. I guru dei social network sostengono che augurare buon compleanno su Facebook migliori la propria reputazione social nella centrifuga infernale del virtuale. Aggiungerei però che deteriora anche l’essenziale e mischia in un unico calderone alcuni legami che ci circondano.
Me lo ha confermato una telefonata recente del mio amico di infanzia Antonio. Ci siamo sentiti per gli auguri, ma poi parlottando a telefono siamo finiti a condividere memoria e quotidianità, l’essenziale agli occhi di un augurio speciale. Torno a riprendermeli, spalancando la finestra e alzando la cornetta del telefono: “Pronto, sono Rosario. Buon compleanno…”