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Archives 2013

La profezia del “Titanic” di De Gregori nella tragedia del barcone in fiamme a Lampedusa

Un disegno di Maurio Biani

Rosario PipoloChissà se tutte le imbarcazioni chic che la scorsa estate ciondolovano nel mare della Sicilia avrebbero fatto a gara per prestare soccorso allo yacht di un sultano che andava in fiamme. E’ quasi sicuro che la signora in topless avrebbe interrotto la sua tintarella per raccattare un binocolo e capire cosa stava accadendo al panfilo da un milione di dollari. Chiedere aiuto, lanciare un SOS è un diritto di ognuno e soccorrere è un dovere inespugnabile in un Paese civile.

Francesco De Gregori in un memorabile brano, Titanic, cantava la volgarità classista e tornava a metterci la pulce nell’orecchio: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento”. Per “la terza classe”, a cui appartengono quei disgraziati che sono morti ieri sull’imbarcazione in fiamme a largo di Lampedusa, rettificherei in “rabbia, dolore e spavento”. Ce lo ha ricordato il commento di ieri di Papa Francesco – “Viene la parola vergogna: è una vergogna” – in visita lo scorso luglio proprio a Lampedusa, per commemorare anche i tanti migranti morti durante le traversate.

Il mancato soccorso da parte di chi c’era ed ha fatto finta di non vedere non si estingue questa volta nella solita indignazione da copertina di rotocalco: siamo sì o no un Paese razzista? “A noi cafoni ci hanno sempre chiamato”, continuava a cantare De Gregori. Non si tratta di puntare il dito contro i pescherecci che erano nei paraggi. Piuttosto di capire quanto poco abbiano fatto i Governi che si sono alternati in Italia negli ultimi venti anni, per tutelare coloro che restano vittime innocenti nei flussi di migrazione dalle coste nordafricane. Ha tutto il diritto di urlare Giusi Nicolini, Sindaco di Lampedusa, e ribadire: “Questi uomini, queste donne e questi bambini non sono clandestini, ma profughi”. L’Unione Europea, che fa finta di guardare dall’altra parte, si assuma le sue responsabilità. Chi glielo ha messo tra le mani il Premio Nobel per la Pace?

“Su questo mare nero come il petrolio ad ammirare questa luna metallo” c’erano donne incinte che portavano in grembo con orgolgio le loro bimbe. Non volevano per loro un futuro da “Cenerentola”, ma le custodivano nel pancione come in un castello, affinché in una nuova terra incontrassero chi le avrebbe fatte diventare delle principesse, rispettando la loro dignità di esseri umani.

“Per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America”. Ahimé, si va in Italia, per morire e non per ricominciare. Oggi lutto nazionale. Ficchiamocelo bene in testa però. I due minuti di silenzio non bastano.

Milano e le suggestioni del sottomarino #L1F3: da Yellow Submarine a Capitan Harlock

Rosario PipoloUn primo di ottobre che Milano non scorderà perché, aprendo gli occhi, si è ritrovata un sottomarino in via dei Mercanti. Che sia stato un colpo di genio pubblicitario o un bel capriccio di qualche bravo creativo, resta il fatto che il sottomarino #L1F3 abbia movimentato il capoluogo lombardo in un grigio martedì autunnale.

Nonostante fosse un’operazione di marketing, destinata ad innescare la viralità dei social network, a me ha solleticato minuscole suggestioni, al di là del ruolo di addetto ai lavori. Si è trattato di godersi lo stupore, la curiosità e l’entusiasmo dei passanti che si sono visti sbucare dal sottosuolo milanese un sottomarino vero, il primo che aveva impresso un hashtag social. E così quello che per me appariva come un meraviglioso set cinematografico, per molti altri era l’interrogativo legittimo della serie “Vero? Puoi mai essere?”.

Quando si è diffusa la voce che si trattava di una trovata pubblicitaria, il sottomarino #L1F3 ha continuato a destare curiosità, perché dopo tutto era diventato un vero simbolo per tutti i milanesi che sognano una Milano in stile Amsterdam e con i Navigli di nuovo navigabili. Torno a ripetere: la magia del cinema riesce a vestire di poesia anche i manichini o un totem da business. Per me fino all’altro ieri il sottomarino per eccellenza era Yellow Submarine dei Beatles, con lo strascico psichedelico tra musica e cinema della fine degli anni ’60.

Dopo aver incrociato #L1F3, mi è tornata in mente una stravaganza della mia infanzia: far volare nello spazio i sottomarini. Osservando il sottomarino di sera, nella penombra, ripensavo all’Arcadia di Capitan Harlock, ovvero l’astronave del personaggio di Matsumoto. Sognavo che Harlock passasse a prendermi e mi portasse con lui nello spazio a saltellare da una stella all’altra. E forse questa è la volta buona che il mio sottomarino prenda la piega di volare. Dopotutto #L1F3 si porta dietro l’immaginazione, l’unica ascia che può fare a pezzetti persino il pregiudizio che oltre lo steccato di un’operazione pubblicitaria non ci possa essere un batuffolo imbevuto di emozioni.

Cartolina da Rimini: La città di Fellini negli occhi di Ethan

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Rosario PipoloRimini ha smesso da un bel pezzo di essere la Las Vegas italiana, fatta delle luci lampeggianti delle discoteche che fecero furore sulla riviera romagnola negli anni del riflusso. La piadina viene servita in alcuni posti come se fosse cibo da ricchi. I Russi con il peso dei loro rubli si sono impossesati delle cittá di Fellini come fecero a suo tempo sulle coste del Montenegro, dall’altra parte dell’Adriatico.

Basta staccarsi da Marina Centro e rovistare tra le vie del centro cittá per scovare i riminesi, accoglienti e con gli occhi zeppi di dignità come quelli di Tonino Guerra. Gianluca ha le radici piantate qui: i suoi genitori sono riminesi come i nonni e i bisnonni. Gianluca ha un hobby. Mettere a posto vecchie Vespe e farle diventare nuovi gioielli a motore verniciati di vintage che riportano Rimini al bianco e nero di La dolce vita di Federico Fellini. Gianluca mi racconta di aver risistemato un vecchio Ape della Piaggio, il treruote che fece sognare i riminesi a cavallo degli anni del Boom economico. Ed era proprio su uno di questi che una ventina d’anni fa girava l’ambulante che mi fece mangiare la piadina più buona della Romagna.

Nonostante le invasioni barbariche, la Rimini dei miei ricordi vive negli occhi vispi del piccolo Ethan, il cui nome di romagnolo non ha niente. Eppure Ethan si sente riminese quando cammina a piedi scalzi sulla sabbia. In fondo al litorale c’è una ruota panoramica che ha poco a che fare con quelle dei Luna Park. E’ una ruota magica perché ad ogni giro evoca i mondi fellinani di Otto e mezzo, Amarcord e i Vitelloni. Se Rimini imparasse a proiettare i film di Fellini in ogni angolo della città – come già accade nello sguardo vispo del piccolo Ethan – forse saprebbe ritrovare la strada giusta per tornare ad essere più romagnola, più autentica, meno esterofila.

Il videomessaggio di Berlusconi come su un vecchio nastro VHS

Rosario PipoloNella landa dei social network e della viralità il videomessaggio di Silvio Berlusconi sembra venuto fuori da un vecchio nastro in VHS, sepolto in chissà quale soffitta impolverata della Prima Repubblica. Assomiglia ad un fuori onda montato sulle ceneri del primo video che vent’anni fa alzò il sipario sul berlusconismo in Italia. Tra gli sfottò in formato social, le analisi degli intellettuali, gli editoriali dei giornalisti e le opinioni degli avversari politici, il Cavaliere e i suoi cortigiani, che non si sono sentiti mai a proprio agio su Internet, hanno puntato ancora sulla scatola magica televisiva, quella che fece la fortuna di Forza Italia.

Tanto rumore per nulla, urlerebbe in sordina la vecchia canaglia di Shakespeare, per una sequenza di immagini che inciampano su contenuti prevedibili – il solito attacco ai giudici – scivolando sulla buccia di banana nel finale nazionalista. Un bollito di rancido populismo, con quella mano sul petto dedicata ai fedelissimi nostalgici che hanno associato erroneamente in questi lunghi anni il liberalismo al berlusconismo.

Quando nel 1990, grazie alla legge Mammì fatta su misura per il Cavaliere, i Socialisti craxiani si preparavano ad occupare il suolo dei nascenti notiziari della tv privata, chissà se avevano imparato a pappardella la predizione di Nostradamus: il monarca assoluto della Seconda Repubblica sarebbe stato un ometto, deus ex machina dell’invasione delle antenne nel Belpaese del Pentapartito che giocava a nascondino dietro le tette e i culi di “Drive in…”.

Nostradamus non si era lasciato scappare il finale della profezia. L’Italia, traghettata verso il berlusconismo, sarebbe stata abitata da una classe politica incapace di sconfiggere l’avversario alle urne elettorali e con proposte di legge in grado di rendere questo Paese vivibile e civile. E tra coloro che oggi sezionano il videomessaggio di Berlusconi come un cadavere ci sono anche i parolai di quella Sinistra pantofolaia a cui il berlusconismo ha fatto comodo su diversi fronti.

Alice e Renato: Felicità è…tenere lontani i bimbi dalla babysitter digitale!

Rosario PipoloGuardandomi intorno vedo decine e decine di bambini, nella fascia di età che non supera i quattro anni, affidati alla cura lampo di quella che io stesso definisco babysitter istantanea: La tecnologia. Una volta per tranquillizzare un bimbo irrequieto bastava un ciuccio zuccherato, oggi è sufficiente un iPhone o un tablet. Li osservo con gli occhi sgranati sulle iconcine delle app come se avessero trovato nel riflesso di quelle diavolerie la finestra per scoprire il mondo.
Tuttavia, il mondo non può essere raccontato né da un’applicazione né dalla nostra insistenza a convincerci che il virtuale possa stimolare il pargolo. Senza tirarla troppo per le lunghe, una fattoria animata su iPad potrà mai sostituire quel pomeriggio in cui mio padre mi portò in una fattoria, presentandomi galline, cavalli ed asinelli?

I ruoli potrebbero invertirsi. Cosa accade invece se un bimbo coglie in flagrante un quarantenne come me rapito da app, check-in e idiosincrasie da social network? Succede che ti guarda di sbieco come per dire “Il marziano sei tu o sono io che mi tuffo nell’erba, non so cosa sia un televisore o escogito un modo per ampliare la mia casetta di legno?”. La piccola Alice mi ha dato proprio una bella lezione che richiama una convinzione di Rudolf Steiner: “C’è una sola via per arrivare alla saggezza. Si chiama amore”.
E forse il ruolo di adulti dovrebbe essere quello di tenere alla larga i nostri bimbi dalle prigioni in cui siamo finiti con il passare degli anni. Alice si considera una “bimba adulta” perché ha nove figli, ovvero nove bambolotti di pezza senza volto, perché è la sua immaginazione che li restituisce l’anima. Via le maschere imposte dalle multinazionali che qualche volta mortificano la libertà del paradiso infantile? Perchè no!

Alice potrebbe far merenda con il piccolo Renato, tre anni e mezzo, che conosce a memoria mezzo repertorio di Bob Marley. Il papà lo ha tenuto lontano dal babysitteraggio digitale, cantandogli all’occorrenza con la chitarra i brani del re del Reggae. Alice e Renato sono bimbi felici perché chi sta accanto a loro ha compreso che “amore” e “saggezza” sono due facce della stessa medaglia e che non sono i riflessi di un touchscreen.

Diario dell’11 settembre: Rosalba Caruso, la prof. antiborghese che mi portò nel Cile senza Allende

Rosario PipoloIn un pomeriggio autunnale del 1986, nelle ultime ore del tempo prolungato a scuola, prese una ciurma di ragazzotti brufolosi per portarli a vedere un film. Rosalba Caruso, professoressa antiborghese di una scuola media alla periferia Napoli, prenotò il laboratorio e fece ingoiare al videoregistratore il film “Missing” di Costa-Gravas. Fu un atto coraggioso. Gli altri insegnanti si preoccupavano di rispettare i programmi ministeriali, lei trasformava la sua passione di docente in stimoli per noi alunni di provincia tra le mura di una scuola pubblica. Le sequenze della pellicola con Jack Lemmon fecero ammutolire tutti, persino i miei compagni più irrequieti, gli stessi che gettarono la maschera da bulli per bagnarsi gli occhi di lacrime davanti al dramma delle madri dei desaparecidos.

Rosalba Caruso, di estrazione cattolica cresciuta tra quattro mura borghese, aveva un’intelligenza e un sensibilità tali da svestirsi di qualsiasi etichetta, quelle che il sottobosco paesano avrebbe voluto metterle addosso. All’uscita da scuola, passeggiammo assieme e mi ricordò che le rivoluzioni non si fanno con i bagni di sangue, ma con la forza delle idee. Persino la penna e l’inchiostro potevano essere nel silenzio più efficaci di una spada. Mi mise tra le dita una Bic blu. L’ho conservata in tutti questi anni. La tirai fuori solo nel ’94 – l’anno in cui una brutta malattia me la portò via – per scrivere sul suo feretro “Grazie, professoressa. Ti ho amata come il figlio che non hai mai avuto”.

Oggi, 11 settembre 2013, a quarant’anni dal Golpe in Cile che sfregiò il volto di una parte del Sud America, ho tirato fuori la penna che mi regalò Rosalba Caruso. Non è più la penna di un alunno, ma quella di chi scioglie i suoi 40 anni in un urlo di rabbia e di dolore nell’11 settembre che si prolungò nella dittatura militare di Pinochet, tra la complicità dell’America di Nixon e l’omertà del Vaticano.
La mia intervista a Jorge degli Intillimani nel 2005 fu una scusa per esplorare, attraverso la musica, le ferite del Cile e dei suoi esiliati. Quando uscì il film 11 settembre 2001 ero in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia e contribuii ai lunghi applausi che accompagnarono l’episodio firmato da Ken Loach. La sequenza si chiudeva con uno scrittore cileno che scriveva agli americani: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”.

Rileggere “La Califfa” ad alta voce è il miglior elogio funebre per Alberto Bevilacqua

Rosario PipoloDovremmo rileggere La Califfa di Alberto Bevilacqua, scomparso poche ore fa a Roma all’età di 79 anni, per indossare di nuovo quella sottoveste che il Belpaese ha bruciato nell’ultimo ventennio di malessere politico e sociale. Ritrovare la sensualità di Irene, la protagonista del bestseller di Bevilacqua, diventato un celebre film, ci farebbe bene per scampare il subdolo pericolo di scambiarla con le nuove vedette alla Ruby che popolano la pattumiera della Seconda Repubblica tutta “Sex and Politics”.

La sottoveste è quella “operaia”, senza fronzoli o doppi merletti, che il Belpaese rinnegò durante i fasulli “happy days” del regime democristiano. La bella Califfa di Bevilacqua, cresciuta nell’Italietta di provincia delle rivolte operaie, protegge lo charme anche quando l’amore la porta in una direzione opposta, verso l’industriale cinico e avaro, che vorrebbe profumarla per toglierle di dosso l’odore sbriciolato di fabbrica.

Alberto Bevilacqua, figlio della Parma che dai granduchi fini nel palmo della mano operaia, ci ha lasciato un bel ritratto femminile, che oggi mette in evidenza lo squallore delle nuove dee della bellezza femminile, sottomesse e svendute agli orchi dei Palazzi di lusso. Vorremmo che da una di queste stanze uscisse l’erede della Califfa, con lo sguardo impavido di chi non si fa sottomettere al potere ed è pronta a ritornare nella terra che l’ha partorita, senza rinnegare le proprie origini.

Alberto Bevilacqua è morto e nessuno riuscirà più a smuovere quella penna per convincerlo che il tanfo operaio della protagonista del suo romanzo sia robaccia di altri tempi. Anzi no, di un solo tempo, quello in cui L’Italia rinnegava di essere stato un paese operaio, mentre noi uomini ci appostavamo ancora all’uscita degli stabilimenti per innamorarci di quelle donzelle che sapevano esprimere la propria femminilità anche sulla catena di montaggio.

L’ultima neve alla masseria tra i faraglioni di Capri

Assieme a Manuela Schiano al Garden di Capri

Ospito sul mio blog Manuela Schiano di Capri Studium – Comunicazione e Cultura, che lo scorso luglio ha organizzato la presentazione a Capri del mio romanzo. Ringrazio Manuela per questa analisi del mio racconto e per la dose di passione e amore che sa mettere in tutto ciò che fa.

Nella splendida cornice del Capri Garden Bar, il 13 luglio 2013 ho avuto il piacere di presentare il libro “Ultima neve alla masseria” del giornalista Rosario Pipolo.
Una piacevole chiacchierata che ha visto partecipi giovani studenti del liceo e adulti appassionati di lettura.
Il profilo dell’autore si è delineato attraverso le sue parole e attraverso una lettura critica del suo romanzo che io ho operato, da moderatrice della serata, cercando di individuare nella storia di Pietro tracce del vissuto di Rosario.

Rosario ama presentarsi con queste parole: “Ci sono le mie radici del Sud a cui appartengo, intorno al Vesuvio che mi ha partorito. Le mie radici però “hanno le gambe lunghe”, se ne vanno in giro e si trascinano dietro i mondi da cui sono stato allevato: la musica di John Lennon e dei Beatles; il teatro in cui mi sono rifugiato, che mi ha trattato come un figlio d’arte; il cinema delle migliaia di pellicole divorate; le letture di Shakespeare, Kerouac e Bukowski. Il viaggio dentro il viaggio, sempre, da quando in sella ad una Vespa rossa PK50XL esploravo la periferia di Napoli, i suoi contorni, i suoi dintorni umani, raccogliendo storie, senza sapere ancora che scrivere sarebbe diventato il mio lavoro.”

Una presentazione che a mio parere ci dice molto anche del suo romanzo, che ha come vero protagonista proprio il viaggio, filo conduttore della sua vita.
Pietro-Rosario fa ritorno alla terra natìa per risolvere un enigma che ossessiona il suo presente. Un ritorno alle origini attraverso trenta momenti (i capitoli), ciascuno dei quali è dedicato all’incontro con un personaggio del passato che fa riaffiorare alla memoria di Pietro ricordi indelebili la cui metabolizzazione sarà determinante per il futuro.
Fondamentale è il richiamo alla figura del nonno paterno, di cui Pietro porta il nome e anche il peso della reputazione. Quel nome lo spinge a voler ritrovare un pezzo di passato che lui credeva fondamentale per il completamento del puzzle della storia familiare. Quasi come se la visione sfuocata del passato fosse da ostacolo al futuro.

Nel libro ho trovato accenni al sapore tipico della narrativa verista: i riferimenti ai luoghi, ai vecchi mestieri, al cibo semplice di una volta, alla terra, al peso della storia. La Masseria è come La Casa del Nespolo verghiana, uno stato mentale oltre che un luogo, il nido dove rifugiarsi o la prigione da cui fuggire.
E ho scorto anche qualcosa di Pavese: Pietro è novello Anguilla che analizza il presente con gli strumenti del passato offertigli dalla sua memoria, confondendo inevitabilmente i contorni della realtà con la poesia del ricordo.

Nel libro si respira l’atmosfera della società del sud Italia ai tempi della Grande guerra e della ricostruzione del dopoguerra: c’è lo stupore di fronte al cinematografo e la consapevolezza di come l’illuminazione pubblica abbia fatto cambiare la prospetti va con cui guardare la realtà; c’è la paura di fronte allo sviluppo industriale e lo straniamento causato dal lavoro in fabbrica; c’è la rabbia per il clientelismo come molla e freno della politica del Sud ; c’è tanta povertà, ma c’è anche tanta solidarietà umana; c’è il quadro nostalgico di relazioni umane fondate sulla garanzia della parola data, sull’onore familiare.

Tutto il racconto viene costruito sul rapporto simbiotico tra due elementi primigeni, la terra e l’acqua(neve), simboli dei valori su cui è fondata la vita del protagonista: l’importanza delle proprie radici (la terra) e il valore della memoria come magistra vitae (la neve). La neve di Rosario è come la madeleine di Proust: è il trait d’union tra presente, passato e futuro; è il correlativo oggettivo dei sentimenti di Pietro che nel ritorno a casa, in occasione del suo quarantesimo compleanno, diventa finalmente uomo, ed è finalmente pronto ad afferrare la sua vita a piene mani, senza più il rischio che la neve si sciolga di nuovo tra le dita.

Una piacevole lettura, un piacevole scambio di idee. Questa la vera ricchezza e semplicità della cultura che intendiamo promuovere in un’epoca di apparenze e colpi di scena. Grazie Rosario!

Manuela Schiano

Album fotografico della presentazione

Storie di casa mia: Se al ritorno dalle vacanze, il tuo vicino Silvio è partito per sempre…

Rosario PipoloI luoghi comuni recitano che i rapporti di vicinato siano quasi inesistenti al di là del Po e siano un’esclusiva del Sud. A dire il vero non ho mai amato “le comunelle” del vicinato chiassoso che nutrivano il folclore delle zone in cui sono cresciuto. Ho riconosciuto però, in diverse occasioni, il valore aggiunto di un buon vicino di casa.

Quando più di quattro anni fa ho cambiato casa, Silvio è stato il primo che ho incrociato. Il signore ottantenne conosceva ogni angolo della palazzina dove mi ero trasferito e mi offrì le giuste indicazioni, da come aprire il cancello alla gestione della raccolta differenziata. Nel giro di pochi mesi Silvio si rese conto che, oltre ad essere il condomino più giovane, ero anche quello più sregolato, che non aveva mai orari. Appena capitava l’occasione di incrociarmi, mi sussurrava: “Quando sento la musica ad alto volume, so che si aggira da queste parti”.

Il mio vicino sapeva porgerti persino un rimprovero con garbo ed era una piacevole sorpresa ritrovarmelo all’improvviso, come fosse l’ombra di mio nonno, accanto al garage o alle prese con il suo orticello. Spuntava nel momento in cui meno me lo aspettavo. Avrei conosciuto il suo passo lento ovunque. Al ritorno dalle vacanze, non ho sentito più i suoi passi e il bidoncino della spazzatura, che lui puntualmente mi metteva dentro, era rimasto lì.

Mi hanno avvertito che, proprio nelle stesse ore del mio rientro, Silvio se ne era andato per sempre: con garbo, senza far rumore, nel suo stile. C’eravamo salutati prima delle vacanze e, osservandolo mano nella mano con sua moglie, dicevo tra me e me: “Spero di arrivare alla sua età con tanto amore negli occhi per le mia donna”. Sì, perché Silvio nascondeva nel suo sguardo sterminato amore.
Rincasando stasera mi sentirò più solo, perché non ci sarà più l’anziano signore del piano di sopra che a modo suo si preoccupa per me. Allora metterò ad alto volume su un vecchio vinile una canzone dei Beatles, aspettando che Silvio bussi al campanello per chiedermi di abbassarlo. E se ciò non accadesse, sparerò ad alto volume un concerto Brandeburghese di Bach, l’unica musica che può arrivare in fretta alle orecchie di Dio. Sono convinto che da lassù Silvio dirà al Padreterno: “E’ il mio vicino di casa. Anche qui riesce a farsi sentire. Questa volta però non lo rimprovero perché questo è il suo modo stravagante di salutarmi”.*

*Dedicato a Silvio Minoli (1925-2013)

Diario d’estate: Alla ricerca di Gaëtan, sulla spiaggia di Saint-Clair

Rosario PipoloSulla spiaggia di Saint-Clair, a Le Lavandou, hanno lasciato un nome scritto sulla sabbia: Gaëtan. Il sole era spuntato da qualche ora sulla costa meridionale della Francia e non si vedeva anima viva. In lontananza c’era solo un vecchio scorbutico che camminava in riva al mare con un paio di baguette sotto braccio. Era forse lo stesso uomo di cui hanno scritto il nome sulla spiaggia? Lui diceva di no. Gaëtan, sarto del Sud Italia espatriato in Francia alla fine degli anni ’50, diventò autista di autobus. Fu lì che conobbe, quarant’anni dopo, Noëlla. Gaëtan non diventò francese quando lo stato d’oltralpe gli francesizzò il nome, ma appena Noëlla e i suoi 6 figli lo vestirono di amore, restituendogli il significato di famiglia.

Ci sono tanti modi per dare e restituire amore. Eccone uno. Mi sono messo alla ricerca di Gaëtan, camminando a piedi nudi sulla spiaggia di Saint-Clair. Ho passato le prime vacanze dei 40 anni a cercarlo ogni giorno per farmi raccontare come fosse cambiata la sua vita laggiù. Non lo avevo visto invecchiare e lo immaginavo sospeso nel tempo come una comparsa del mio romanzo, che portava il suo stesso nome.

Durante questi quindici giorni intensi, ho incrociato diverse persone che, avvistandomi, mi ripetevano la stessa cosa: “Gaëtan non lo troverà, se non in ciò che ciascuno di noi ti regalerà”. C’era chi mi offriva un panorama, chi un pezzo di formaggio o di salame, chi un ricordo o un bicchiere di vino, chi un soffio di vento o una vecchia fotografia. Tutti questi doni erano appartenuti a lui. Ognuno di loro aveva conosciuto Gaëtan e provava a restituirmelo attraverso un odore, un sapore, una libellula della memoria.

Qualcuno addirittura diceva che gli assomigliavo, in quel mia maniera di “far famiglia” con chiunque mi capitasse davanti. Alla fine del mio viaggio sono finito al Camping Le Marmier di Le Lavandou. In una piccola aiuola tutti i campeggiatori avevano seminato un fiore per ricordare Gaëtan e lì ho trovato una copia del mio romanzo, che Gaëtan non aveva finito di leggere. A pagina diciotto aveva messo come segnalibro una foto ingiallita che lo ritraeva assieme ad un bambino occhialuto. Il marmocchio ero io. Quell’immagine ha fatto scivolare via la vigliaccheria che mi aveva impedito di arrivare in quel posto in tempo per abbracciarlo l’ultima volta. Poi mi sono ricordato le parole che gli avevo sussurrato subito dopo quello scatto: “Zio Gaetano, torna presto. Quando sarò più grande voglio passare tutta l’estate con te”.

Questa è stata l’estate mia e di Gaëtan. Io non sono più un bambino, ma un uomo dai capelli brizzolati. E lui è diventato una scritta sulla sabbia, lì sulla spiaggia di Saint-Clair.