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La prima vibrazione del telefonino: Quando gli sms scandiscono il tempo dei sentimenti

Rosario PipoloQuando acquistai il primo telefonino nel gennaio del ’97, gli sms cominciavano l’ascesa per troneggiare la comunicazione in 160 caratteri durante l’exploit della rete GSM. Nel boom di WhatsApp e di app simili, il destino dei Short Message Service sembra avviarsi verso il viale del tramonto. Secondo dati recenti, nel 2012 il numero di messaggi inviati attraverso una chat è stato superiore a quelli tradizionali e, entro l’anno prossimo, il divario potrebbe essere di 50 contro 25 miliardi di invio.

Mentre in versione online questi fiumi di parole sguazzano chissà in quali server, i messaggini finiscono nella nostra sim o smartphone. Alcuni li cancelliamo, altri li teniamo in archivio, senza renderci conto che, ricucendoli, potrebbero scrivere un diario di bordo. Qualche volta sono sgrammaticati, spesso sono frettolosi, il più delle volte così incisivi da scatenare fraintendimenti, soprattuto se ne riceviamo uno non destinato a noi.
Sì è vero gli sms non hanno il calore, sono così freddi che sembrano arrivati dallo spazio, ma sequestrano un lato di un’umanità quando, sbirciando data e orario, li associamo all’evento a cui appartengono.

Accade soprattutto per i sentimenti e riguarda ogni fascia di età.  Non abbiamo scuse. Tutti almeno una volta  nella vita telefonica abbiamo digitato “TVB” o “Mi manki”. Finiamola di dire che gli affari di cuore via SMS sono robetta da adolescenti o studentelli dal cuore traballante.  Gli sms hanno scandito il tempo della nostra vita sentimentale, accompagnando il corso della giornata, nella naturale trasformazione da appuntamento “inaspettato” nella fase di corteggiamento a quello “fisso” della quotidianità, dal buongiorno alla buonanotte.

Abbiamo impiegato anni per capire che la vibrazione di un sms della nostra lei o lui coincideva con quella del battito del cuore. L’iPhone e l’ultima generezione di smartphone hanno sbiadito questo pizzo di romanticheria, uniformando i vecchi sms allo stile di quelli online, dove a farla da padrone sono i touchscreen e il tempo istantaneo della chat di Facebook. I messaggini a cui faccio riferimento sono quelli digitati con la tastiera, generati da uno schermo grezzo di un telefonino, in cui la classidra del tempo batte l’invio della bustina.
Custodire gli sms in una vecchia sim significa ripetere il gesto dei nostri nonni, che tenevano nel primo cassetto del comò le loro lettere d’amore. Tutte le coppie che si separano dovrebbero rimetterli assieme perchè, persino sul filo di 160 caratteri, può restare sospesa la più bella storia d’amore. Imperdibile resta l’sms del primo apputamento: “Dove sei, non ti vedo?”. E lei: “Girati, sono accanto a te. Non mi sono mai mossa”.

Ti chiami Missoni se il tuo stile mette a tacere il frufrù che c’è in noi!

Rosario PipoloSe fossi stato in zona, mi avrebbe fatto un effetto strano passare davanti alla Basilica di Gallarate e incrociare il corteo funebre di uno stilista. La moda è così prepotentemente di proprietà di Milano da farci convincere che ogni fashion designer che si rispetti dovrebbe pianificare l’ultimo viaggio all’ombra della Madunnina. Dove sta scritto? Mica la moda deve ostinarsi ad essere il riflesso posterizzato di Il diavolo veste Prada?

Ottavio Missoni è stato un imprenditore intelligente e visionario, prima di essere uno stilista. L’arcobaleno voltò le spalle al cielo per distendersi nelle sue creazioni, tra citazioni da art-decò, zig-zag e tinte accese che incidevano sui tussuti il Technicolor dei vecchi western americani.
Qualche anno fa, poco prima di entrare ad una sfilata a cui ero stavo invitato, sentii due fashion blogger civettare come se fossero dal parrucchiere: “Ci vuole una penna al femminile per raccontare il mondo della moda”. Dopo aver deglutito questa idiozia zeppa di smancerie, scivolai sul solito clichè, sulla solita ghettizzazione come se essere frufrù fosse il cannocchiale per cogliere i dettagli.

Il tratto inconfondibile di Missoni lo accosta al disegno industriale e alla sua evoluzione nel nostro Paese, rompendo quegli argini che hanno fatto del Made in Italy una condizione necessaria di versatilità, stile, sobrietà. Negli anni ’80 regalai a mia madre un foulard firmato Missoni. Un ragazzino delle scuole elementari cosa ne poteva sapere che l’alta moda non fosse alla portata della tasca di una casalinga? Era un falso d’autore, lo scoprii diversi anni dopo. Missoni era così amato all’ombra del Vesuvio, da essere riprodotto ovunque.

Ottavio Missoni aveva il senso dello humor e una volta replicò scherzosamente: “Per vestirsi male non serve seguire la moda, ma aiuta”. Dipende. Se ti chiami Missoni però lo stile sobrio e senza fronzoli mette a tacere pure il frufrù che c’è in noi. Una mattina accompagnai mamma a fare la spesa. Indossava il fatidico foulard. Per un attimo mi sembrò di essere il figlio di una modella e Ottavio Missoni trasformò quel corso di provincia in una lunga passerella.

Divo Giulio, ora pro nobis!

Rosario PipoloDivo Giulio, ora pro nobis. Qui, sul suolo dell’inferno terrestre, sono rimasti gli eredi. Non vestono in doppiopetto blu, non vanno a messa tutte le mattine, non hanno chiuso gli occhi con la corona del Rosario tra le mani. Sono i più insospettabili. Non li vedi mai in giro, ma agiscono in silenzio come gli amici falchi di Cosa Nostra. Rimpiangono le vacche grasse della Democrazia Cristiana, ripetono a pappardella lo slogan “Ambrosoli se l’è cercata”, fanno finta di dormire sonni tranquilli mentre scacciano il fantasma di Pecorelli. “Nessuna regola è infallibile. Ci sono solo errori da non commettere”.

Divo Giulio, ora pro nobis. Chi pittore riuscirà a ritrarre quel “bacio”, flagello della Prima Repubblica che trasformò un figlio della Costituzione in “punciutu”? Mentre l’elettorato generoso di gran parte della Ciociaria allunga il minuto di silenzio, le vecchie scuole feudatarie del Sud Italia, che hanno allevato i pargoli dei fedelissimi, si prendono tempo per onorare la tua memoria. Accadde anche in Campania, in uno degli istituti di cui fosti tanto benefattore, dove io non ci misi mai piede. “Meglio tirare a campare, che tirare le cuoia”.

Divo Giulio, ora pro nobis. La storia giudica solo con il tempo, lasciando indenni i sospetti e le alleanze trasformiste nel sottosuolo per mantenere il potere con liberali, comunisti e socialisti. Il ghigno malefico dei nemici a piazza del Gesù a Roma ora è un pianto continuo e le macchie dei complotti si sono sbiadite in tanti dossier seppelliti, senza risparmiare nessuna domenica delle salme, come quella di Aldo Moro. “A pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina”.

Divo Giulio, ora pro nobis. Mai nessuno percorse a tutte le ore – scalzo, in ginocchio, in abito da cerimonia – via della Concilazione, quando al di là del Tevere fu siglato il patto con gli alti prelati. Mai nessun politico fu così papalino, tenendosi stretta la cordata che stringeva il clero e la Chiesa tra le mani del potere occulto. La tua seconda casa era sotto il Cupolone. “La ragione non basta averla, ci vuole anche qualcuno che te la dà”.

Divo Giulio, ora pro nobis. Finiti i tempi del monarca assoluto dentro e fuori le mura dello Scudo Crociato, tra burocrati e piazzamenti di poltrone minesterali per i cortigiani, perché gli andreottiani erano una cosa, il resto dei democristiani un’altra.Finiti i tempi delle censure culturali per frantumare lo specchio cinematografico del Neorealismo sotto lo pseudonimo che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Finiti i tempi delle prescrizioni che sibillano tacite assoluzioni. Il feretro se ne va nel mistero, nell’oscurità, nel più buio cono d’ombra della storia plurimillenaria di questo Paese. “La cattiveria dei buoni è pericolosissima”.

Divo Giulio, ora pro nobis.Il potere logora chi non ce l’ha”, ma spedisce all’inferno chi lo ha avuto e lo ha gestito male, finendo per essere un mancato protagonista della storia di un Paese civile.

Fotografo da Instagram, quando chiedi all’app ciò che non puoi essere!

Rosario PipoloSi sa che gli italiani vivono sotto la gonnella delle mode. Accade anche per le app che ci fanno sguazzare sui social con l’illusione digitalizzata di essere ciò che non possiamo essere. Nell’occhio del ciclone c’è Instagram, l’app per scattare e condividere foto con lo smartphone, nata tre anni fa e subito avvinghiata da Facebook. Anzi, se la vogliamo dire tutta, l’app in questione ha perso pure la freschezza iniziale, piegandosi in questi giorni alla dittatura facebookiana del “tag”.

In Italia Instagram ha fatto il botto già nel 2012, soprattutto con gli over 20, ma in questi primi mesi del 2013 contagia pure chi si affaccia al balcone social sporadicamente. Anzi i nostri status stanno dicendo bye bye alle parole per infilarci ad ogni occasione una foto. Instagrammiamo tutto, dal paio di pantofole della nonna in soffitta allo sbadiglio del micione, con la preseunzione che la nostra immagine diventerà una piccola opera d’arte con il raggiro del “filtro”. Io abuso di quello sopranominato Nashville per le sfumature cinematografiche, ma in giro vedo tante foto filtrate con XProII, Valencia e Rise. Così dopo il filtro giusto e la valanga di “mi piace”, segue il compiacimento: “Sono davvero un fotografo mancato”.

I più onesti questo lusso non se lo sono mai concessi. Avremo azzeccato pure qualche scatto, ma ad Instagram in pochi di noi non abbiamo mai chiesto di farci sentire fotografi dalla sera alla mattina. E non perché quelli come me provengono dalla generazione che ha viaggiato su chilometri di rullini fotografici. Instagram arricchisce il racconto social e la nostra smania di trasformare la quotidianità in un grande reality. L’arte della fotografia è altro e un’app non può nascondere “il dilettantismo” che straripa nella rete. Non sarebbe “disonesto” pensare che, con una qualsiasi piccola diavoleria in veste di app, si possa diventare fotografi, montatori, dj, musicisti, pittori o scrittori?

Diario di viaggio: Un modo insolito per festeggiare il primo anno di Maxela Coppelle a Roma

Assieme a una parte dello staff

Rosario PipoloCapita che se ti trovi alla festicciola del primo anno di un ristorante, il palato pretende la sua parte: assaggi, punto e basta. Maxela, l’oasi dei mangiatori doc di carne in via Coppelle a Roma, spegne la sua prima candelina e così ti consoli spiluccando salumi, formaggi e una buona focaccia di Recco. Anzi, mi sembra di essere finito a Genova, rincorrendo quel sapore a cui accosteresti qualche canzone strimpellata in dialetto alla De André. E mentre butti l’occhio sulla carne in passerella – sono mica ad una sfilata culinaria? – aspetti l’ora di cena per azzannare qualche specialità alla brace e finire la serata con un buon bicchiere di vino.

Visto che la rete è strapiena di food-lover e in giro ci sono tanti critici gastronomici sul ciglio di una strada – un consiglio su Foursquare o un pallino su TripAdvisor valgono più di una guida blasonata – lascio a loro il privilegio di una noiosa recensione, mi fido dell’intuito del mio palato e mi spingo oltre. Oltre dove? Se c’è di mezzo un ristorante, di cosa dovrei parlare se non di cibo?

Sarà questa mia fissazione del “viaggio nel viaggio”, che mi porta ad esplorare l’ambiente: gli scaffali con i vini mi portano alle mie incursioni nelle cantine toscane; il banco da macelleria ai tempi in cui mi divertivo a guardare nonna Lucia che contrattava con il macellaio per avere la migliore carne; l’allestimento dei tavoli alle romanticherie del mio ultimo viaggio a Parigi. L’ambiente è fatto anche di persone ed è la chiacchierata con lo staff che mi porta a fare il giro di mezzo mondo, dal Senegal alla Romania passando per l’Ucraina, con tante piccole storie che si fondono con il gusto.

E non rimpiazziamo il solito Proust con la storia del gusto che evoca il ricordo, tanto basta la cordialità di ognuno di loro per convincermi ad infilarmi in una foto con lo staff. All’appello manca Andrea, il simpatico napoletano che dirige Maxela Coppelle, alle prese con lo chef per gli ultimi assaggi prima dell’apertura delle cena. Accipicchia, Andrea assomiglia tanto a mio cugino, il più piccolo della nidiata materna, che si dipingeva il muso con il ragù quando nostra nonna gli proponeva l’assaggio di un buon piatto di maccheroni.

Non dovevamo festeggiare il primo compleanno di Maxela? Ecco, lo abbiamo fatto, tirando le orecchie ai ricordi, dando una pacca sulle spalle a coloro che ci lavorano. Non è solo il cibo a fare la differenza, ma anche le risorse umane che contribuiscono al successo di un ristorante. Passione ed entusiasmo restano un valore aggiunto.

Diario di viaggio: In silenzio con PierPaolo Pasolini

Rosario PipoloOstia me la ricordavo in bianco e nero. Saranno stati tutti quei film italiani girati lungo il litorale ostiense a partire dagli anni ’50. Ostia è a colori invece, anche se dal pontile del lido Plinius vedo la stessa spiaggia di “Una domenica di agosto” di Luciano Emmer: le facce della borgata romane sono cambiate, lo spirito è quello. Le lambrette che arrivavano lì dal centro di Roma sono una foto ingiallita così come i juke-box che sparavano ad alto volume le canzoni di Califano.

Il caffè è rimasto lo stesso. Al bar me lo servono in un bicchierino di plastica perchè, come mi spiega Eva, “er romano vero” lo sorseggia in riva al mare. L’accento colorito della cantante di jazz tra i locali della capitale mi fa ricordare che devo spingermi oltre il mare dell ‘Idroscalo. Ci sono i ragazzi delle borgate che seguono la traiettoria del pallone; le case popolari; gli anziani su una panchina; le aiuole abbandonate, senza neanche un fiore sopravvissuto. Io cerco altro. È lì, in mezzo alla desolazione dell‘Idroscalo, lungo uno stradone che sembra non finire mai. C’è un una scultura che ci rinfaccia le contraddizioni della memoria. Impugno con rabbia il cancello che mi separa da quella zolla di terra, che raccolse il corpo trucidato di PierPaolo Pasolini.

Ci sono pochi modi per dare un significato profondo ad un viaggio disorganizzato. Tornare ad essere noi stessi e rimetterci alla ricerca della nostra coscienza civile, sputando fuori i rospi che ci hanno fatto ingoiare. Ostia me la ricordavo in bianco e nero. Adesso so per certo che è a colori.

Addio Fnac Italia! Via Torino a Milano non sarà più la stessa…

Rosario PipoloAddio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. Uno come me divoratore di musica, film e libri non può che essere affezionato ai tuoi scaffali. Perché? Perché una parte del mio cuore è francese, essendosi trasferita nel Sud della Francia un pezzetto della famiglia di papà. Nel 1996 mia cugina Gabrielle mi portò per la prima volta in una Fnac, era quella di Tolone. Mi regalò alcuni libri di grammatica francese, che mi hanno giovato all’università. E poi era lì che, durante le estate francesi, andavo a rovistare per cercare a prezzi modici la musica di Serge Gainsbourg.

I miei primi dieci anni a Milano sono stati decisamente uno per uno “fnaciani”. Ricordo nel gennaio del 2003, appena sbarcato a Milano, mi precipitai a via Torino per scoprire la sede milanese – era la prima che visitavo in Italia – e cogliere al volo i cd con il bollino “Affare FNAC”. Pure con pochi soldi in tasca, riuscivo ad uscire con qualcosa di buono.

Addio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. I rumor ormai sono certezza e uno di questi giorni troveremo Trony al tuo posto. Via Torino a Milano non sarà più la stessa senza Fnac. Per me è come dire Parigi senza i Magazzini LaFayette. Mi mancheranno le chiacchierate con gli addetti del reparto musica, grandi conoscitori della materia, le mie incursioni in compagnia di mio cugino Massimiliano,  i sorrisi delle cassiere da cui ogni volta portavo via una piccola storia per il mio diario.

Lo so, Fnac Italia, che non bisogna essere sentimentali al giorno d’oggi. Mi toccherà espatriare in Francia, perché senza Fnac io non posso stare. Il motivo è uno solo: sulle tue scale mobili ho fatto salire e scendere un mucchio dei miei sogni. Alcuni li ho riposti nei tuoi scaffali, tra libri, dvd e cd. Un giorno tornerò a riprendermeli.

Habemus il Presidente: Re Giorgio e la disfatta della classe politica di Pierluigi Bersani

Un caricatura dal web

Rosario PipoloNella nostra storia repubblicana non si è mai visto un teatrino così ridicolo come questa elezione del Capo dello Stato. Giorgio Napolitano, l’ultimo volto istituzionale, ritratto in questa vignetta di Portoscomic.org, sopravvissuto ai balletti del Belpaese movimentista, ci ha salvati dal naufragio. Ha accettato di essere rieletto Presidente della Repubblica. Speriamo che il Quirinale non prenda esempio del Vaticano e che “Re Giorgio” non segua le orme di Papa Ratzinger per un ritiro anticipato.

Su tutto questo ambaradan si sono espresse troppe voci, persino quelle discordanti che vacillano fuori dal coro, ma nessuna ha centrato la stonatura. Lo ha fatto invece con la classe e l’ironia di sempre Lady Luciana Littizzetto, che ieri sera a “Che tempo che fa” ha letto a “Re Giorgio” una letterina con un post scriptum emblematico: “Napolitano torna al Quirinale, si mormora di Amato come Presidente del Consiglio, se le gemelle Kessler accettano una prima serata su Rai Uno, siamo veramente un paese proiettato verso il futuro!”.

Dall’altra parte dell’ambaradan ci sono le “lacrime” romanzate di Pierluigi Bersani, dimissionario in esilio dopo aver ridicolizzato Marini e Prodi , che ci hanno rimesso la faccia cascandoci come due pesci lessi: i due santini della Prima Repubblica pensavano davvero di poggiare il culo sulla poltrona del Quirinale. Questa elezione presidenziale ha dimostrato con i numeri alla mano che in Italia, con il tiro alla fune tra Destra e Sinistra, siamo in pasto ad una grande armata Brancaleone. Neanche un pianto alla Fornero, potrebbe convincerci del contrario.

Mentre il PD cerca alla svelta la scorciatoia di un congresso per farsi passare il più dolorso mal di pancia degli ultimi vent’anni, qualche vecchia volpe socialista se la ride e se la canta. E’ come dire che la storia repubblicana è una ruota che gira e i tradimenti prima o poi si pagano. La classe politica che, dopo l’uragano di Tangentopoli, intortò il Belpaese confezionando le vecchie falce e martello con il decalogo del socialismo europeo e lo scudo democristiano, è pronta per andare in pensione. Basta vedere le facce trafitte di un Massimo D’Alema o di una Rosy Bindi.

Consoliamoci. Abbiamo un Presidente della Repubblica quasi novantenne, la cui autorevolezza non basta a far sentire l’Italia un Paese “ringiovanito”. Ammettiamolo. Viviamo in un Paese ammalato di nostalgia cronica per gli inciuci in stile Pentapartito, che non sa affrontare le sfide del futuro. E l’ironia sopra le righe di Luciana Littizzetto ce lo ha ricordato con garbo.

Londra saluta Margaret Thatcher e dimentica gli angeli caduti in volo

Rosario Pipolo“Oggi siamo tutti thatcheriani”. Le parole di Davi Cameron, nel giorno in cui Londra ha dato l’ultimo saluto a Margaret Thatcher, sono inesatte. Non è così e lo sanno bene il volto pallido della storia britannica, sulla coda del ‘900, così come i minatori che hanno organizzato una festa folk dall’altra parte del Paese. Mentre il feretro della Lady di Ferro si muoveva lento verso St. Paul, ripensavo ad un altro funerale affollato, quello di Lady Diana Spencer, la principessa amata dal popolo e osteggiata da Buckingham Palace.
Quella era la fine di una favola da fotoromanzo popolare con la regina coronata, che non sapeva se abbassare il capo dinanzi al passaggio del feretro. Qui si trattava di un capo di Stato, di un ex ministro che aveva tenuto in pugno, dal 1979 al 1990, il destino della Gran Bretagna. Persino il Big Ben si è ammutolito. Non accadeva dai tempi dell’addio a furor di popolo a Winston Churchil.

Troppa scena per dare solennità al momento, per restituire smalto ai nuovi rampolli del partito Conservatore, per fare uscire dallo zoo della politica d’oltremanica le scimmiette come Tony Blair, che fecero crogiolare i progressisti sulle gambe del thatcherismo. “Oggi non siamo tutti thatcheriani”, ribadirei, aggiungendo però che la Sinistra blairiana lo è stata quando non sapeva più che pesci prendere.

La regina Elisabetta in testa, era lì nel silenzio tombale che ha trasformato la ciurma dei capi di Stato invitati come un set di manichini da vetrina. La verità spetta di diritto alla voce delle nostre coscienze. Quando la bara è uscita da St. Paul avvolta dalla bandiera, mi sono convinto che in quella cassa di legno pregiato non c’era Margaret Thatcher. C’erano tutti i corpi e gli spettri dei morti sotto il suo regime tra tensioni sociali, aggressività colonialista e vecchi rancori tenuti a marcire in Irlanda. Non ho più visto la folla che salutava Lady di Ferro, ma le urla di donne, uomini e bambini che si sono visti strappare un caro dalla loro famiglia, negli anni in cui quel pugno di ferro sfigurò il volto della Gran Bretagna, privandolo di umanità e facendolo a pezzetti nella più grande macelleria sociale.

Maggie riposa e basta. Se esiste una giustizia divina, la pace spetta agli angeli spediti all’inferno durante il tuo regime.

“L’ultima neve alla masseria” a Roma, analisi tra autobiografia, psicologia e immaginazione

Assieme a Massimo Calanca alla presentazione del libro


Ospito sul blog il testo integrale dell’intervento di Massimo Calanca, in occasione della presentazione a Roma del mio libro “L’ultima neve alla masseria” presso la sede dell’Associazione Centro Internazionale CinemAvvenire.

Mi fa piacere presentare il libro “L’ultima neve alla masseria”, perché Rosario Pipolo è stato uno dei primi partecipanti alle iniziative di CinemAvvenire alla Mostra del Cinema di Venezia. La nostra iniziativa veneziana ha avuto fin dall’inizio l’obiettivo di trasmettere ai giovani, attraverso l’arte cinematografica, non solo la conoscenza e l’amore per un cinema “che aiuta a capire la vita ed a viverla meglio”, come diceva Gillo Pontecorvo, il maestro che ha fondato insieme a noi l’associazione; ma anche il desiderio e il piacere della creatività, applicata sia all’arte vera e propria, sia alla propria esistenza individuale, “per fare della propria vita un’opera d’arte”, come ha detto Antonio Mercurio, il maestro a cui si è ispirato gran parte del nostro lavoro di psicoterapeuti.

Il libro di Rosario è un misto tra l’autobiografia e il romanzo. Lo potrei definire una ricerca autobiografica di fantasia. A ben vedere, ogni opera d’arte è in qualche misura autobiografica, anche se parla di mondi lontani dall’esperienza di vita dell’autore, perché questi non può fare a meno da un lato di mettere dentro l’opera se stesso e la propria esperienza di vita, e dall’altro di ricercare un senso alla propria vita addentrandosi nei pensieri e nelle vicende dei personaggi di finzione. Ha scritto Luigi Pareyson: “L’arte è l’attività formativa per eccellenza….. La persona dell’artista è al tempo stesso “contenuto” e soggetto formante; mentre, nell’interpretazione, la persona del fruitore “si fa organo di accesso all’opera e, rivelando l’opera nella sua natura, esprime nel contempo se stessa”. E poiché la vita umana è tutta invenzione, produzione di forme, “l’arte modifica la nostra capacità formativa e quindi lo stesso nostro modo di vedere e formare la realtà e la vita.” (L. Pareyson, Teoria delle formatività”).

Ma, se ogni opera è in qualche modo autobiografia, esistono tuttavia opere, come questa di Pipolo, più chiaramente e direttamente figlie del pensiero autobiografico. Capita a tutti, prima o poi, di sentire il bisogno di ripensare alla propria vita passata e di raccontarsela e raccontare se stessi a se stessi (e qualche volta agli altri) in modo diverso dal solito. E’ quello che viene chiamato “pensiero autobiografico” (Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore). “Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità. Poco importa se ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta. E’ l’evento che conta, che sancisce la transizione a un altro modo di essere e di pensare.” (Ivi.) Il pensiero autobiografico è quell’insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e che si è fatto, che ripercorriamo in cerca di un nuovo senso. Anche quando tale pensiero si rivolge verso un passato doloroso, di errori o occasioni perdute, è un’occasione di un “ripatteggiamento”, di una riconciliazione, a volte con sentimenti di maliconia o di compassione, ma comunque di rappacificazione con se stessi. “Ciò che è stato poteva forse compiersi altrimenti, la storia potrebbe aver avuto altri finali, ma, comunque sia, ora quella storia è ciò che è. E si tratta di cercare di amarla, poiché la nostra storia di vita è il primo ed ultimo amore che ci è dato in sorte” (Duccio Demetrio, op. cit.).

Paradossalmente questo non ci porta alla chiusura individualista o egocentrica, ma al contrario ci aiuta a sentire che condividiamo l’essere al mondo di tutti gli altri. Il pensiero autobiografico in qualche modo ci cura. Mentre ci rivediamo alla moviola (“sviluppiamo i negativi della nostra vita”, come ha detto Marcel Proust), ci riprendiamo tra le mani, “ci prendiamo in carico (in cura) e ci assumiamo la responsabilità di tutto ciò che siamo stati o abbiamo fatto e, a questo punto, non possiamo che accettare” (D: Demetrio). Ma questo non significa rassegnazione. Da un lato significa accettazione, cioè amore per noi stessi. Dall’altro può significare decisione di cambiare o di lasciare andare qualche parte di noi, proprio alla luce dell’esperienza passata rivisitata, meglio compresa e “metabolizzata”. Cioè è un’occasione di trasformazione esistenziale che guarda al futuro.

Infatti il ricordo non è mai soltanto un semplice rivivere il passato. Da un lato, certo, è una riedizione, cioè ci fa rivivere, mentalmente ed emozionalmente, situazioni già vissute, che ci richiamano e ci legano in qualche modo al passato, e a volte rischiano di farci rimanere dentro il circolo vizioso della “coazione a ripetere”. Dall’altro, poiché noi non siamo più quelli di un tempo ed inoltre il nostro Sé ci spinge ad evolvere e a crescere, il ricordo è sempre qualcosa di rivisitato, di nuovo, di diverso, di inventato, che già contiene in parte quello che siamo diventati oggi e quello che vogliamo diventare domani.

L’autobiografia non va intesa come una specie di farmaco che ci aiuta a liberarci dal nostro passato prendendone le distanze. Questo può valere in parte per le situazioni traumatiche che abbiamo rimosso o dimenticato, di cui fatichiamo a prendere coscienza, e che quindi ci condizionano senza che ne siamo consapevoli. Allora, rivisitarle con il ricordo e oggettivarle con l’autobiografia, può servire non a liberarsi di loro, ma a liberarsi del conflitto inconscio che continuano a generare, per integrarle armoniosamente nella nostra personalità. “L’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere: è un tornare a crescere per se stessi e per gli altri…è un viaggio formativo e non un chiudere i conti” (D. Demetrio). “Io pongo il mio passato come mio avvenire, mi sottraggo alla minaccia della dispersione e stabilisco l’unità e la coscienza del mio io” (Nicola Abbagnano, “Introduzione all’esistenzialismo”, Mondadori).

“E’ vero che scruto nel mio passato per trovare chi sono, da dove vengo, chi mi ha aiutato ad essere ciò che poi sono divenuto; però è pure vero che, già con quest’opera di scavo, mi apro al mondo, ad altre possibilità” (D. Demetrio). “Entrare in autobiografia” (come la definisce Vincenzo Masini) è superare la paura del tempo, perché l’atto autobiografico è sempre al presente. S. Agostino, nel suo interrogarsi sul tempo, scrive: “… Futuro e passato non esistono… impropriamente si dice: tre sono i tempi, il passato, il presente e il futuro. Più esatto sarebbe dire: tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nell’anima … il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa.” (S. Agostino, Le confessioni) Lo stesso poeta Gibran non si allontana da S. Agostino quando, interrogato sul tempo, risponde: Vorreste misurare il tempo, l’incommensurabile e l’immenso. Vorreste regolare il vostro comportamento e dirigere il corso del vostro spirito secondo le ore e le stagioni. Ma l’eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo. E sa che l’oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani il sogno di oggi.

Ma se col pensiero volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione racchiuda tutte le altre. E che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l’attesa.” (Kahil Gibran, Il profeta). Come è noto, il concetto di Sé è molto importante in psicoterapia. Un elemento caratterizzante del Sé è il suo manifestarsi in forma narrativa. Ha scritto lo psicoanalista junghiano Robert H. Hopcke: Essere umani significa raccontare storie, vivere e usare dei simboli per dare senso alla nostra vita, cercare un’esperienza profonda e diretta di ciò che trascende la nostra limitata esistenza mortale…(Robert H. Hopcke, Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la nostra vita, Mondadori, Milano, 1998). Scrive Andrea Smorti, uno psicologo cognitivista che ha studiato il pensiero narrativo: “Che cosa è il Sé? Non è facile definirlo. Ce lo possiamo però rappresentare come un testo che giorno dopo giorno viene scritto dal soggetto stesso e dagli altri”.( Andrea Smorti, Il Sé come testo. Costruzione di storie e sviluppo della persona, Giunti, Firenze, 1997. Il corsivo è mio)

Lavorare alla propria autobiografia non significa soltanto affastellare insieme una serie di ricordi che emergono alla mente alla rinfusa, ma anche ricercare le connessioni, i nessi, le coerenze tra i ricordi, ricomponendoli in figure, disegni, architetture. Ogni singolo ricordo è un segno, che ha “graffiato” la nostra vita come una lastra da incisioni, ma appartiene ad una rete che tende a ricomporlo in una scena, in una storia dotata di senso. La mente non si limita a rievocare immagini tra loro isolate e distinte. L’intelligenza retrospettiva ricostruisce, collega e quindi colloca nello spazio e nel tempo, riesce a dar senso agli eventi solo se li colloca in un processo e in un percorso. L’autobiografia, sia quella che rimane ad uso personale, sia quella che ha ambizioni letterarie, viene scritta perché l’autore ha bisogno di attribuirsi un significato, e forse più di uno, e di presentarsi in modo nuovo a se stesso e, qualche volta, al mondo.

Ma ho detto che il romanzo di Rosario Pipolo è anche fatto di immagini fantastiche. Sia nella storia che il protagonista racconta di sé, dei suoi familiari e della sua terra, sia in alcuni dei personaggi tra il reale e l’onirico che incontra nel suo ritorno a casa, sia nella sua ricerca documentaria delle proprie origini, a figure della realtà, che hanno il sapore inconfondibile del vissuto personale nella terra e nella cultura del suo paese, si mescolano immagini della fantasia. Lo stile di questo “melange” mi ricorda quello del Fellini di “Otto e ½” o di “Amarcord”, film dove realtà, sogno, immaginazione e prefigurazione, si inseguono sulla base di associazioni più analogiche che logiche, più emozionali che razionali; anche se l’insieme finisce per comporre un “puzzle”, o meglio un affresco, in cui pian piano emerge il senso faticosamente cercato dal protagonista e dall’autore riguardo la propria opera e la propria vita. Ho pensato che non a caso Rosario, anni fa, si è impegnato nel progetto “Fellini 2000”, evento omaggio al grande regista, realizzato in collaborazione con la Fondazione Fellini e Mediaset.

Ma, al di là delle suggestioni e dei rimandi, la parte fantastica del romanzo di Pipolo è altrettanto, se non più, interessante di quella del ricordo reale per la ricerca di senso di cui sto parlando. Infatti, la fantasia – quando non è impacciata da intenti didascalici o dimostrativi, ma si esprime con associazioni libere guidate da autentiche emozioni – è capace di illuminare di senso e di nuovo significato fatti, eventi e situazioni che nella semplice ricostruzione del vissuto ci appaiono inesplicabili ed oscuri. E’ il potere del pensiero primario, che attraversa facilmente nei due sensi il confine tra l’inconscio e la coscienza, mettendo in comunicazione mondi separati e diversi e creando collegamenti e nessi che mettono in luce aspetti nuovi e significati inediti di eventi, cose, persone.

E infatti è dall’intreccio di ricordi reali e fantastici che emerge a poco a poco il senso che Pietro, il protagonista, ritrova. Non è tanto importante portare fino in fondo la ricerca delle radici reali, quanto metabolizzare i ricordi del passato integrandoli nella propria personalità unificata, filtrandoli e risanandoli, affinché non ingorghino il futuro, attraverso il sogno del padre, “quell’ultima neve alla masseria” rimasta ancora intatta nonostante il degrado del tempo e di uno sviluppo sociale ed economico senz’anima. Discorso che io interpreto così, nel mio linguaggio La ricerca di senso è indispensabile per uscire dal nichilismo disperante. La distruzione di tutti i valori operata dalla razionalità occidentale, se da un lato ci ha liberato da schemi mentali e di comportamento limitanti e spesso soffocanti, aprendoci a nuove possibilità di libertà, dall’altro ci ha privato di ogni punto di riferimento e, soprattutto, del senso e del significato della realtà e della vita. Sembra che manchi il motivo e la direzione del nostro agire e del nostro stesso stare al mondo. E ciò, al di là dell’illusione di riempire questo vuoto con il consumo, con “quell’edonismo di massa” di cui ha parlato Pasolini, non può che produrre disperazione.

Ma davvero la ragione deve limitarsi a togliere senso? – si è interrogato Eugenio Scalfari. – Non potrebbe invece avere un’autonoma capacità di dare senso e valore, cioè contrastare il nichilismo con le forze dell’illuminismo invece che con quelle del mito? Secondo me, da sola, la ragione non basta, anche se può dare un grande contributo a questa ricerca. Occorre addentrarsi anche nei territori oscuri dell’inconscio, degli archetipi, dei miti; confrontarsi con le parti oscure che ci abitano come esseri umani, nei ricordi personali della nostra infanzia ma anche in quelli ancestrali della specie che sono stampati dentro di noi. Contrastare la rimozione e l’oblio, per portare queste parti alla luce, non per eliminarle in quanto parti oscure, ma per unificarle con le nostre parti luminose e diventare così persone intere.

In fondo ogni opera d’arte è il frutto di una sintesi di opposti. Questo vale sia per l’arte vera e propria, sia per l’opera d’arte della nostra vita. E ognuno di noi oggi deve fare questo percorso in parte insieme agli altri, cioè ai personaggi del suo passato, del suo presente e del suo futuro, perché “l’Io senza il Tu non esiste”, come ha detto Martin Buber. Inoltre deve farlo riallacciando i nessi con il padre, con quel “principio paterno” che è insieme garanzia di radicamento nella storia evolutiva dell’uomo e prospettiva di ulteriore evoluzione verso nuove proprietà emergenti dello spirito. Ma, nella “Babele” del mondo contemporaneo, è inevitabile che ognuno debba fare questa ricerca in parte anche da solo.

E’ quello che mi pare dica il libro di Rosario Pipolo alla fine. E in questo mi pare in piena sintonia con quanto ha scritto Joseph Cambell, il grande mitologo americano: “è il cuore dell’uomo (e della donna) oggi il luogo creativo del mito moderno, il centro focale dello sguardo divino”. Di “quel Dio che in parte siamo noi e che in parte dobbiamo ancora diventare”, come ha scritto Antonio Mercurio. Senza deliri di onnipotenza, perché non nasciamo dal nulla ma veniamo dalla materia e dalla vita che agiscono secondo leggi che ci precedono. Ma anche senza rinunciare alla responsabilità che ci compete, quantomeno come co-autori della creazione nostra e del mondo in cui viviamo.

Roma, 13 aprile 2013

Massimo Calanca*

Psicologo e psicoterapeuta


* Nato a Roma nel 1947, è stato segretario nazionale dell’ARCI, organizzando tra l’altro la tournèe dei fratelli Taviani in America Latina, il viaggio di Gillo Pontecorvo in Nicaragua ed in Salvador alla ricerca delle idee per un film e fondando la ONG di cooperazione allo sviluppo Arci-Cultura e Sviluppo. Laureato in lettere moderne, si è specializzato in comunicazione sociale. Nel 1992 ha fondato con Gillo Pontecorvo alla Mostra del Cinema di Venezia l’associazione CinemAvvenire, per promuovere l’amore e la conoscenza del cinema tra i giovani e gli studenti, divenendone presidente alla scomparsa del fondatore. Vive e lavora a Roma, dove si occupa di psicoterapia, counseling e formazione.