Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives 2013

Il successore di Napolitano: Paz, ci riprendiamo il partigiano Pertini?

Sandro Pertini di Andrea Pazienza

Rosario PipoloTanto rumore per nulla con tutti gli uomini del Presidente. Accostare una commedia di Shakespeare al titolo di un film per giocare con le parole appare proprio una scostumatezza. Mai come questa volta la scelta del Capo dello Stato ci sembra un’impresa napoleonica, tra le Quirinarie grilline, rallentate da un flop di sistema, e gli inciuci di palazzo, con facce della vecchia guardia bene in vista. Augurandomi che non spediscano D’Alema o la Bindi al Quirinale, vorrei buttare ad indovinare chi sarà il successore di Napolitano alla Presidenza della Repubblica.

E con un Papa Argentino sotto la Cupola di San Pietro, bissare uno smacco ci starebbe bene: ripetere quello del 1978 – all’epoca ero viziato dalle coccole della maestre d’asilo – che regalò all’Italia un Partigiano come Presidente. Ah, se mi leggesse Andrea Pazienza in questo momento. Gli chiederei in ginocchio di disegnarmi tanti manifesti, uno diverso dall’altro, con il faccione di Sandro Pertini. Paz sì che mi capirebbe. E su ognuno scriverei a caratteri cubitali: “Ridatemi il mio presidente partigiano”.

Lo rivoglio, con il suo sorriso sornione, condimento di uno sguardo saggio. Restituitemi il Pertini acuto, sensibile, sempre con una parola pronta per dare conforto ai giovani.
Restituitemi il Pertini con la sacca zeppa di memoria, quella che si è intrufolata nel cinema neorealista, sopravvissuto alla censura democristiana. Restituitemi il Pertini tifoso della Nazionale che balzò dagli spalti come un ragazzino la prima volta allo stadio. Restituitemi il Pertini socialista, della razza a favore del bene comune prima che il fango “apparentemente” riformista spazzasse via un sogno in quel congresso della fine degli anni ’70.
Restituitemi il Pertini che se ne andava a passeggiare in montagna con un polacco parroco del mondo o quello in mezzo alla gente, in lacrime di fronte al pozzo in cui smise di respirare il piccolo Alfredino Rampi.
Restituitemi il Pertini che fu definito “squilibrato”, spesso “sopra le righe” e che avrei voluto come nonno. Lui è stato il nonno della mia generazione e ci ha indicato la strada per scappare dall’ovvio conformismo di pensiero.

Paz, a che ora passo a prenderti per appiccicare questi manifesti? Me lo disegni sì o no Sandro Pertini?

A ripetizione di teatro da Regina Bianchi, l’ultima grande Filumena Marturano

Rosario PipoloNel 1988 mi presentai in camerino a fine spettacolo. Avevo un piccolo registratore a cassette. Regina Bianchi mi rimproverò: “Guagliò, vai a giocare con quelli dell’età tua. Che ce fai a sentì ‘na vecchia comme me?”. L’attrice era della stessa generazione di mia nonna Lucia. Le dissi che non mi interessava quello che facevano i miei coetanei. A quindici anni volevo capire da lei di che materia fosse fatto il teatro.
Regina cominciò a struccarsi. Il mio sguardo incrociava il suo attraverso lo specchio di un teatro alla periferia di Napoli, mentre mi accennava all’incontro con il palcoscenico e all’esperienza con Eduardo. Alla fine di questa breve lezione, precisò: “Guagliò, il teatro è sacrificio costante e quotidiano. E’ come la vita. Finché non lo avvertirai sulla tua pelle, non capirai mai questo mestiere”.

Ogni stagione teatrale capitava che la incontrassi, puntualmente alla fine dello spettacolo. Mi ricordo una volta la sua assistente: “Signò, c’è quel ragazzino con gli occhiali. Ve lo ricordate?”. E lei, dopo avermi riconosciuto, ripeteva: “E tu ccà nata vota staje”. Regina Bianchi aveva capito che il mio “toc toc” alla porta del camerino assomigliava alla voglia di prendere ripetizioni di teatro. Si trasformò in un piccolo rito e una volta aggiunse: “Mi sento una nonna che racconta il teatro al nipote incuriosito”.

Per diversi anni la persi di vista. La incrociai a metà degli anni Novanta. Lei non lo riconobbe quel giovane giornalista, che fu annunciato per una breve intervista. Le chiesi della severità di Eduardo De Filippo e dell’aneddoto che circolava tra noi addetti ai lavori: pare che Eduardo l’avesse buttata fuori dalla compagnia perché, dopo una rappresentazione di Filumena Marturano, chiamata dal pubblico che la acclamava, avesse fatto un passo in avanti per prendersi gli applausi. Secondo il rigido protocollo, non avrebbe dovuto commettere questa gaffe perché sarebbe toccato al capocomico, Eduardo in questo caso, prenderla per mano e condurla verso il pubblico.

Regina Bianchi fu molto diplomatica e replicò: “Crede pure agli aneddoti?”. Cambiò discorso. Io per smorzare i toni, le rivelai chi fossi. Sorrise e si ricordò. Anzi, mi chiese anche di mia nonna Lucia,  perché una volta aveva apprezzato un suo maglione all’uncinetto che indossavo. Quando avvertì il mio dolore – l’avevo persa da pochi mesi – mi diede una lunga carezza. Mi guardò con lo stesso sguardo della sua Filumena Marturano, come a voler dire che “io la soddisfazione di piangere l’avevo potuta avere perché il bene lo avevo conosciuto”.
L’accompagnai all’auto, tenendola sottobraccio. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Scomparve nel buio l’attrice Regina Bianchi, che con il suo stile recitativo sobrio e interiore aveva dato voce all’anima di Napoli,  e riapparve la sagoma di donna Regina D’Antigny. Adesso il sipario è calato, per sempre. Per me no, che ho avuto la fortuna di prendere qualche ripetizione di teatro da lei.

  E’ morta Regina Bianchi, grandissima del teatro napoletano.

Perché racconterò la Milano City Marathon 2013 con la T-shirt “El purtava i scarp del tennis”

Rosario PipoloNon sarò mai un maratoneta. Questo lo so. Da qualche anno a questa parte però mi capita di raccontare la Milano City Marathon attraverso i social network. Ripesco così le mie origini di cronista d’assalto per i quotidiani e le mescolo a tutte quelle diavolerie tecnologiche, che poi sono gli attrezzi del mio mestiere. Nella mia “social marathon” di domenica 7 aprile indosserò la maglietta degli staffettisti in una versione unica e speciale, con la scritta sul retro “El purtava i scarp del tennis”.
È buffo pensare ad un napoletano che se ne va in giro per Milano con il titolo di una canzone milanese. Quando gli organizzatori dell’evento sportivo hanno presentato un prototipo di t-shirt per omaggiare Enzo Jannacci, scomparso la settimana scorsa, ne ho chiesta una tutta per me.

Sono stato esaudito. E non l’ho fatto per il legame privilegiato avuto con le canzoni del cantautore milanese e per gli incontri condivisi con lo stesso Jannacci nella Milano degli ultimi dieci anni. L’ho fatto perchè nella sportività della Relay Marathon, che fraziona il percorso della Milano City Marathon in più tappe, si intravede la generosità artistica di Enzo Jannacci. Le sue canzoni hanno attraversato Milano per mezzo secolo lasciando nei punti di cambio una staffetta per la generazione successiva: il valore del pensiero e della riflessione aggiunti all’ironia, alla surrealtà, all’ilarità. La staffetta si vince se c’è il team, proprio come il canzoniere di Jannacci, che continua a fare gioco di squadra con gli stati d’animo del nostro tempo.

“El purtava i scarp del tennis” non è solo il titolo del famoso brano che riascolterò puntualmente ad ogni punto di cambio della Relay Marathon. È soprattutto il titolo assegnato ad “un pretesto”, quello di “correre” con la fierezza di un podista ma che ha nel cuore le poesie musicate di Enzo Jannacci.

Roma e l’addio al suo Califfo: “Tutto il resto è noia.”

Rosario Pipolo“Ciao, Franco. Ora senza te, tutto il resto è noia” non ha l’aria del solito striscione di un concerto allo stadio. E’ l’epigrafe che la borgata romana dedica al suo cantore, Franco Califano, con un vezzo da balera che mischia l’esistenzialismo di un Moravia agli eroi della borgata pasoliniana.

Franco Califano è stato la controindicazione della voce nazional-popolare degli anni ‘70 o l’anti-divo della discografia italiana d’autore, con la spavalderia di un teddy boy della Fontana di Trevi. Dicevano che nella vita privata il Califfo ancheggiava tra la fama di sciupafemmine e quella di legami con brutti ceffi, per giunta dalla “sniffata” facile. Sul palco, dietro gli occhiali scuri, diventava il neomelodico da fotoromanzi popolari con la romanità sotto la lingua, capace di sciogliere il cuore di chi popolava il quartiere.

Nonostante ciò, senza falsi moralismi né intellettualismi sofisticati, il Califfo aveva preferito legare la sua storia privata e pubblica a quella dei farabutti da borgata, i quali nell’urlo “maledetta noia” si erano fatti traduttori dell’esistenzialismo. “Tutto il resto è noia” non è un vecchio brano dimenticato in cantina ma il manifesto di uno stato d’animo che può far sprofondare la vittima negli abissi.

Esistere vuol dire anche osare per rincorrere le vittorie e le sconfitte dei giorni fugaci. Franco Califano intraprese più di quaranta anni fa una crociata contro quella “maledetta noia”. Si è dovuto ricredere chi lo accusava di nascondersi dentro un paio di occhiali scuri. La borgata romana però è andata oltre l’irrisoria apparenza. Il Califfo li metteva per capire di che forma fosse fatto il cuore del suo pubblico, che non lo hai mai lasciato solo, neanche quando la solitudine ha tentato di divorarlo e farlo a pezzetti.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=0Xjx1xLqid4&w=420&h=315]

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3sD0ITYCd_s&w=420&h=315]

La Germania vergognosa svende il Muro di Berlino per case di lusso

The Berlin Wall

Rosario Pipolo“State alla larga da quel muro!”, esclamavano i soldati intorno alla Cortina di Ferro nel tempo furioso della Guerra Fredda che lacerava la Germania in Ovest ed Est. Quel monito militare era rivolto ai tanti che tentavano di scavalcare il “muro mostruoso”, rischiando la vita, per riabbracciare chi stava dall’altra parte.
Oggi ci risiamo. E l’avvertimento non viene dallo strascico di quel dramma in bianco e nero ma da coloro che stanno rimuovendo pezzi del Muro di Berlino per rispettare gli accordi con un palazzinaro: si fa a pezzetti la memoria dell’Est side Gallery, il museo a cielo aperto di un flagello della storia del ‘900, per costruire case di lusso.

Berlino è stata sempre attenta alle invasioni urbanistiche che mettevano a repentaglio il tragitto che, dagli agglomerati di stampo sovietico di Alexander Platz agli slanci moderni della Potsdamer Platz, tracciava il passaggio dall’Est all’Ovest. Oggi sembra pura follia la rimozione di parte del Muro, nonostante le proteste di berlinesi e diverse personalità che si sono esposte contro questa offesa alla memoria civile non solo tedesca.
Il Muro di Berlino non è solo il simbolo della Germania o il santuario del turista invadente che lo fotografa come reliquie folcloristiche. E’ l’ombra spettrale delle cortine di ferro che tutti i santi giorni si alzano in ogni angolo del pianeta, mortificando la ricchezza della diversità e l’essenza di un dialogo costruttore di pace.

“State alla larga da quel muro!” lo urla la mia generazione che ha cominciato a studiare geografia con quel segno divisorio sulla cartina e ha attraversato il liceo, vedendolo scomparire dagli atlanti geografici.
“State alla larga da quel muro!” dovrebbero gridarlo i politici e i governatori di una Germania che vuole essere “europeista” solo quando le fa comodo, perché in questo preciso istante sta svendendo un pezzo del Nobel per la Pace assegnato al Vecchio Continente.
“State alla larga da quel muro!” dovrebbe urlarlo con il megafono l’aspirante cancelliere Peer Steinbrueck, che un mese fa definì l’Italia “un Paese governato da politici clown”. Meglio scimmiottare le gesta circensi e custodire la memoria storica. Da questo punto di vista l’Italia può dare ancora una bella lezione a qualcuno.

  Demolita parte del Muro di Berlino

#DarkSide40: Perché il lato oscuro della luna dei Pink Floyd resiste al voyeurismo degli anniversari

Rosario PipoloHo scampato l’anniversario e me ne sono volutamente dimenticato. Gli americani sulla luna ci avevano messo piede quattro anni prima. L’Inghilterra si mise di traverso tra le navicelle di russi e americani quando il 24 marzo del 1973 uscì The Dark Side of the Moon. Questa volta ad andare nello spazio era la musica, in un groviglio di sonorità ultramoderne, che bilanciavano le intuizioni sperimentali dei Pink Floyd con i presagi del futuro.

Roger Waters e compagni, dopo la separazione traumatica dal pargolo visionario Syd Barrett, calpestarono ciò che l’astronauta Neil Armstrong non vide: Il lato oscuro della luna. Al ritorno da quella missione onirica, che mise in crisi musicologi e musicanti di tutte le razze, i Pink Floyd avevano ricalcato le orme antropologiche del film “2001 Odissea nello Spazio” di Kubrick e catapultato i sogni ingannevoli della generazione post-sessantottina tra le pagine della fantascienza musicale. Il concept album dei Pink Floyd liberò finalmente la luna dalla prigionia del mood romantico, mettendo in castigo evergreen come “Fly me to the Moon” e “Blue Moon” e stritolando i conflitti interiori dell’umanità in loop, ticchettii, scoccare di orologi e nel resto dei rumori che assordano la routine.

Dopo quarant’anni The Dark Side of the Moon resiste al tempo e al voyeurismo degli anniversari, perché è ancora sospeso nello spazio. Quel “disco volante”, una sorta di UFO della discografia contemporanea, ha respinto le minacce retrograde e consumistiche della musica usa e getta, raccontando qualcosa che non è accaduto. E’ l’elastico di un divenire ancora troppo lontano per finire in soffitta assieme ad altro vinile impolverato. Il rebus è tutto lì, nel prisma triangolare in copertina, nel luccichio rifrangente che anticipa quello nell’occhio di Jack Nicholson in “Shining”, perché l’alienazione mentale è vittima anche dell’isolamento sociale.

Su Twitter, con l’hashtag #DarkSide40, sono partiti per altre galassie migliaia di pensieri che hanno trasformato una ricorrenza in una presa di coscienza: il lato oscuro della luna è l’unica terra straniera meritevole di ulteriori esplorazioni filosofiche e peotiche. E forse non sarebbe stata un’idea bizzarra tweettare qualche verso di “Alla luna” di Giacomo Leopardi, perché più di un secolo prima lo sguardo dell’anima di un poeta italiano aveva dato il via a questa missione esplorativa. Chi ama stare alla larga dagli anniversari, che come le parole lasciano il tempo che trovano, può sempre farlo senza il ricatto del calendario.

Custodi del creato: Il Sudamerica di Papa Francesco come l’Est Europa di Giovanni Paolo II

Rosario PipoloDopo una settimana dall’Habemus Papam, ci sono gesti a sufficienza per riflettere. Papa Francesco ha conquistato tutti, credenti e non. In volo tra le parole del primo Angelus e quelle dell’insediamento di ieri davanti ai capi di Stato, diciamolo pure: Abbiamo un pontefice spirituale, umile, concreto e persino ambientalista.
Ciò che sta accadendo in Italia in questi giorni, rievoca una polaroid che mi passò dinanzi agli occhi di bambino alla fine degli Anni di Piombo: un Papa polacco a San Pietro e un Presidente partigiano al Quirinale. Forse qualcosa sta cambiando. Nel 2013 il risveglio con Francesco a capo della Chiesa e la coppia Boldrini-Grasso ai timoni di Camera e Senato; nel 1978 Giovanni Paolo II e Sandro Pertini, quest’ultimo tra l’altro con il fardello della Prima Repubblica corrotta e melmosa, lasciato dal predecessore Giovanni Leone.

Tornando a Jorge Mario Bergoglio, pardon Papa Francesco, non avevamo bisogno del bisbiglio della presidente Argentina e della richiesta di mediazione per le Falkland per abbandonarci a vezzi di geopolitica. Alla fine degli anni ’70 i Paesi dell’Est Europa si affacciarono al balcone: l’asse spirituale-politico del sognatore Karol Wojtyla e del visionario Lech Walesa diede i frutti sperati. Oggi a sporgersi allo stesso balcone c’è il Sudamerica. Non le Americhe – la cortina di ferro tra USA e l’altra America è ancora troppo marcata – ma l’America Latina, quella che per decenni agli occhi di europei e italiani è stata beffeggiata dai cliché delle dittature facili, balli tropicali e i faccioni di Che Guevara che sventolavano sulle bandiere. L’Argentina di Papa Francesco non è una pallonata di Maradona, una notte di tango a Buenos Aires, un ululato appassionato di Mercedes Sosa o lo sbuffo a fumetti della Mafalda di Quino che “di questa minestra non ne può proprio più”.

L’Argentina di Bergoglio è quella del Peronismo, della dittatura dal pugno di ferro di Videla e del dramma dei Desaparecidos, delle rivendicazioni colonialiste delle isole Falkland, delle favelas e dell’estrema povertà, tenuta nel pugno da un piccolo branco di ricchi sfondati. Nello sguardo tenero di Papa Francesco si intravede lo sforzo del parroco umile, oggi “parroco del mondo” senza oro né scarpine rosse, che ha saputo affrontare la povertà e camminare a fianco degli emarginati, attraversando sottovoce e con concretezza la storia travagliata del suo Paese.

Il Sudamerica si aspetta che Papa Francesco si faccia umile portavoce della sua identità politica ed economica, soprattutto oggi che gli scenari sono in continua trasformazione: i sogni filo-occidentali delle generazioni cubane che pensano al dopo-Castro; lo stallo del Brasile di Lula; il Venezuela post-Chavéz tra ventate populiste e intrighi di palazzo; gli scheletri nell’armadio lasciati da Pinochet nel Cile contemporaneo (dossier e fiumi di articoli ci dicono che dal Vaticano alla vigilia dell’11 settembre 1973 non mossero un dito per evitare la caduta di Allende); i contributi di Uruguay e Paraguay allo sviluppo dell’economia sudamericana; il filo religioso che lega la comunità messicana alla terra di frontiera tra voltagabbana repubblicani e sognatori democratici.

E’ vero, Papa Francesco lo ha ribadito: “La Chiesa non ha natura politica ma spirituale”. Lo sosteneva anche Giovanni Paolo II, ma poi accadde qualcos’altro. Oggi il Sudamerica aspetta il suo riscatto, come accadde ieri per l’Est Europa. E nella “custodia del creato” rientrano anche i passi silenziosi della storia, che a volte non fanno rumore come quelli del Padreterno.

Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino Jorge Mario Bergoglio

Rosario PipoloL’agognata fumata bianca del primo Conclave invaso dai social network ha fatto sventolare qualche bandiera tricolore di troppo. L’Arcidiocesi di Milano non ha cantato vittoria neanche questa volta. Il cardinale Angelo Scola era troppo schierato con i ciellini per aggiudicarsi l’ambito pontificato dopo le dimissioni del principe Ratzinger. C’è chi ha creduto fino a pochi istanti prima dell’Habemus Papam che dietro la finestra sarebbe apparso un successore in toto di Benedetto XVI. I movimenti conservatori che animano la Chiesa cattolica hanno subìto il contraccolpo perché ad affacciarsi alla finestra c’è stato un gesuita, per giunta per niente Ratzingeriano, per giunta argentino, la cui elezione riscatta la memoria di Carlo Maria Martini. Habemus Papam: è il moderato Jorge Mario Bergoglio, che da arcivescovo di Buenos Aires sale al pontificato con il nome di Francesco I.

Sostenuto dallo stesso Martini al precedente Conclave, la scelta di Bergoglio mantiene da una parte il passo della transizione e dall’altra porge un segnale moderato di cambiamento nella Chiesa dilaniata da scandali, misteri di Vatileaks, abusi sessuali, intrighi di palazzo, complotti della curia, senza menzionare gli scheletri nell’armadio (da Emanuela Orlandi alla Banca Vaticana). Francesco I non sarà il pontefice progressista che qualcuno si aspettava, almeno che non ci siano sorprese lungo il pontificato, ma sarà il Gesuita rigoroso e severo che potrebbe scuotere persino le fogne dei sotterranei vaticani. I bookmaker e i sondaggi hanno fatto l’ennesima figuraccia allontanandosi dai pronostici, ma era qualche decennio che ci aspettavamo un Papa dell’America latina.

Si finisce nell’incappare nel solito luogo comune: Abbiamo un Pontefice di destra o di sinistra? Direi che abbiamo un Papa Argentino che, nella sua terra, si è distinto per aver difeso i poveri e gli emarginati. Sarà dura fargli indossare il mantello e le scarpine da principe. Quando lo hanno annunciato come Francesco I, non ho pensato per riflesso al piccolo grande uomo di Assisi, nonostante il nome scelto indichi chiaramente che Bergoglio farà sentire il profumo di povertà a gran parte della curia asservita dal potere.
Mi è venuto in mente Francisco, il pastorello portoghese che nelle campagne sperdute di Fatima vide un raggio di luce bianca. E forse è la stessa luce che si sforzerà di farci intravedere Jorge Mario Bergoglio, senza le vesti dell’alto porporato, perché dopo duemila anni sopravvive ancora una grande testimonianza. Quella di un “povero tra i poveri”, sfidante agguerrito di principi e regnanti e urlatore, in una zolla del Medio-Oriente, di un principio che non appartiene soltanto ai naufraghi della spiritualità: l’amore è l’unica via che può dare un senso alla nostra affannata esistenza.

Jorge Mario Bergoglio è giunto al Pontificato in punta di piedi proprio come potrebbero essere i cambiamenti che si prospettano. E se così fosse, il Padreterno ci ha messo del suo.

  Il Paradiso può attendere? Il Sudamerica no!

El nuevo Papa es el argentino Jorge Bergoglio

  Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

iPhone low cost: Se la Apple conquista il ceto medio-basso

Rosario PipoloIl profeta Steve Jobs se n’è andato all’altro mondo e gli apostoli infedeli hanno deciso di fare a meno della sua spiritualità visionaria e raffinata. Siamo in tempo di crisi, anche per la “Mela” di Cupertino. Con la scusa di aggredire il mercato indiano e cinese, la Apple abbandona il pubblico di sempre, quello smanettone ed elitario, possibilmente chic, tecnologicamente inserito, fanatico all’occorrenza e qualche volta con la puzza sotto il naso, per non dire sotto il touchscreen! Strizza l’occhio al ceto medio-basso e chissà che non vedremo persino in Italia un metalmeccanico cassintegrato o un pensionato andare a zonzo con il primo iPhone low cost.

L’iPhone 5 è stata “una mezza sola”, come direbbe un venditore ambulante romano, e in più il suo prezzo si è rivelato un insulto, se pensiamo a quanto prende mediamente un operatore call-center in Italia. Il luminare Jobs si starà rivoltando nella tomba, ma la Apple ormai è sulla via del lowcost: i rumors del 2012 sono confermati e possiamo cominciare il conto alla rovescia per l’iPhone a basso costo, il melafonino semi-plastificato per la tasca nazional popolare, che dovrebbe oscillare tra i 200 e i 300 dollari.

Direi che possiamo dargli anche il nomignolo di iPhone giocattolo. Finirà prevalentemente nelle mani degli stessi cinesi, che avevano intrapreso indirettamente la crociata contro Apple con i cloni del phone più ambito del pianeta. E chissà che la stessa sorte non tocchi prima o poi anche ai MAC, sui quali sventola la bandiera bianca di un’antica leggenda: pur di non dar via a prezzi stracciati i modelli andati fuori produzione, la Apple li seppelliva in chissà quale angolo sperduto del pianeta.
La mela “morsicata” non è più l’oscuro oggetto del desiderio in tempo di crisi. Se la Apple di Tim Cook conquisterà il ceto medio-basso, riuscirà a compensare la perdita di Jobs? I profitti non sono tutto, almeno non sempre. E questo il predecessore di Cook lo teneva a mente.

Tutto pronto per l’iPhone low cost