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Archives Aprile 2015

Il 1° maggio nella tuta da lavoro di papà, amico dell’Uomo Ragno

Rosario PipoloDa bambino accostavo il 1° maggio, festa dei lavoratori, ad un indumento: la tuta blu che tutte le mattine mio padre si infilava per andare a lavoro. Provavo per quella tuta una sorta di amore e odio.
Da una parte mi piaceva, perché faceva assomigliare papà ad uno dei Fantastici 4; dall’altra la detestavo, perché me lo portava via e non mi restava che la sera per trascorrere del tempo con lui.

Mi raccontava di cosa faceva al lavoro con dei buffi scarabocchi, improvvisati al momento con una biro rossa e nera. All’alba dell’infanzia identificavo il lavoratore con papà che, nella mia visione, era un supereroe: si arrampicava sui tralicci, più alti del condominio dove abitavamo, e portava l’illuminazione ad intere città. Per non farla lunga, mi convinsi che papà era “amico dell’Uomo Ragno”, anche se lui stesso non ne faceva un vanto.

Ricordo una domenica notte di dicembre. Ci fu un nubrifagio che colpì parte del mio territorio, restammo senza luce e corrente elettrica per quasi due giorni.  Papà uscì di notte per l’intervento di emergenza e non si ritirò nei due giorni successivi. Ero spaventato. Nonostante fossi rassicurato dal fatto che papà fosse uscito con il suo casco giallo, dall’altra chiedevo al pupazzetto dell’Uomo Ragno di proteggerlo perché “da amico” doveva stargli vicino.

Fu a quel tempo che iniziai a percepire la minaccia degli incidenti sul lavoro.  Ho conosciuto diversi coetanei della mia generazione che non hanno visto tornare più il papà, perchè caduti da un’impalcatura e finiti nella tragica lista delle morti bianche.

Nel 2013, in occasione di una presentazione del mio romanzo nella zona in cui aveva lavorato papà, conclusi una lettura tenendo in mano la sua tuta blu. Fu un modo per ricordare  i tanti lavoratori che non sono tornati più a casa ad abbracciare i figli, con cui oggi voglio condividere il significato e l’essenza di questo 1° maggio.

A quarant’anni sono convinto ancora che mio padre sia “amico dell’Uomo Ragno”, con la differenza che dietro la la tuta del supereroe della Marvel si nascondano gli angeli “custodi” che Wim Wenders fece volare sopra Berlino in un film zeppo di suggestioni.

Il 25 aprile oltre l’anniversario: partigiani della musica come gli Area

Rosario PipoloFinito il giorno dell’anniversario, socchiuso nella sindrome del revival, sembra che il 25 aprile si sia arrestato a quella liberazione di 70 anni fa. Senza dimenticare che  l’Italia passò da una dittatura ad un regime fatto di meccanismi perversi – quest’ultimo era il soppalco della Prima Repubblica – resta da chiedersi chi siano stati i partigiani del dopoguerra.

Lo sono stati un po’ tutti coloro che hanno fatto “resistenza” nel proprio territorio a quel sistema che osteggiava il sogno collettivo di rendere la vita umanamente a misura di ciascuno, senza certi feroci dislivelli che fucilano la dignità umana.

Chiacchierando con Paolo Tofani e Patrizio Fariselli, due colonne del gruppo musicale degli Area, al termine di un concerto nella cornice della rassegna JazzAltro, ho confermato il mio bizzarro convincimento. Negli anni ’70, nell’Italia che brulicava delle bombe degli anni di Piombo, gli Area furono i partigiani della musica.

Non fummo all’altezza di capirlo né qui né all’estero perché accecati dall’innocenza melodica di casa nostra. Il sound sperimentale degli Area, che fece della voce di Demetrio Stratos l’urlo rabbioso del “nuovo partigiano Johnny”, declinò la resistenza come valore per annusare la vita.
Il  concerto del 14 luglio 1979, che rese il raduno musicale all’Arena Civica di Milano l’unica Woodstock nostrana che l’Italia ricordi, fu la testimonianza che quel sound fu la nuova liberazione dallo sguardo vigile dei nuovi padroni in ascesa.

Il repertorio musicale degli Area, così come il coraggio di Mario Caccia, Laura e i membri dell’Associazione Area 101 sostenitori di rassegne come JazzAltro, dimostrano che si può essere ancora partigiani a 70 anni dal 25 aprile che cambiò il volto all’Italia.
Possiamo esserlo tutti noi, nella nostra quotidianità, per superare ciò che scrisse Sandro Pertini: “È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le ‪‎dittature‬.” E per uscire dal tunnel di “la peggiore delle democrazie” dovremmo imparare a riconoscere i partigiani del nostro tempo, che resistono all’ombra dei riflettori.

Tradimenti e la parabola del backyard

Rosario PipoloTradimenti, piccolo perla della drammaturgia di Harold Pinter, ha quasi quarant’anni ma non patisce l’invecchiamento, soprattutto oggi che la labilità di qualsiasi legame è messa alla prova. Il tradimento verso gli altri e verso noi stessi, di qualsiasi entità, dovrebbe essere spedito al patibolo, senza “se” e senza “ma”.

Sulle bacheche di Facebook in tanti starnazzano, perché delusi dal piccolo o grande tradimento subìto dalla compagna, dal collega di lavoro, dall’amico di una vita, dalla moglie, dal vicino di casa, dal fidanzato, dal parente. Potrei andare avanti ancora tanto.

Quelli più insidiosi restano i “tradimenti minuscoli”, quasi impercettibili, che minano una relazione molto più di quelli eclatanti e che fanno rumore. Sfogliando le pagine della drammaturgia religiosa, il rinnegamento dell’apostolo Pietro, passato in sordina, è più infido rispetto al tradimento di Giuda Iscariota e alla svendita di un amico per trenta miserabili denari.

Attraverso i social network ci disabituiamo a tutelare una relazione autentica: ci illudiamo che una manciata di “like” o un paio di repost di vecchie foto patinante di nostalgia aggiustino tutto. Incide l’arroganza e la spavalderia 3.0, che ha abbattuto la colonna portante di un legame: entrare a far parte della vita dell’altro è un privilegio da non sciupare e non è poi così scontato il reintegro.

Il backyard di una casetta inglese mi lasciò una lezione durante il primo viaggio in Inghilterra nel 1988: si chiuse la porticina della cucina e finii nel cortiletto posteriore senza riuscire più a rientrare. Pur facendo ancora parte dell’unità abitativa non avevo più accesso alle mura domestiche.

Questo episodio mi ispirò la parabola del backyard, ovvero la parabola dell’isolamento senza saldi, resoconto perfetto di cosa capita a chi viene allontanato improvvisamente dalla nostra vita, in silenzio, senza sollazzi chiassosi.

Tornando alla commedia di Harold Pinter, nel ’78 Tradimenti fu un feroce attacco contro l’ipocrita middle-class britannica. Oggi invece che la crisi globale ha sbiadito i contorni della classe media, la pièce teatrale è un punto di partenza per una riflessione generica sul tradimento, la molla che può far scattare in noi la legittima voglia di calpestare la mediocrità, lentamente e in silenzio, senza sconti.

#Laquilasiracconta e il coraggio di cinque videomaker italiani

Rosario PipoloAbbiamo memoria corta in Italia e ne siamo consapevoli. I social network come Facebook ci ricordano “il selfie cazzuto” scattato esattamente un anno prima e gli algoritmi stritolano la reminiscenza legata allo storytelling della catastrofe finita nel dimenticatoio.

A sei anni dal terremoto di L’Aquila, il capoluogo abruzzese, oltre a piangere le vittime finite sotto le macerie, subisce e patisce il dramma di una ferita aperta ancora. Se una parte della politica italiana sfruttò la tragedia a livello mediatico per fare ai tempi campagna elettorale, oggi si sa poco o niente.

Una comunità si ricostruisce anche facendo in modo che le sequenze di un documentario siano il riflesso  della voglia di ricominciare. Aldo Ricci, Paolo Baccolo, Riccardo Andreaus, Fulvio Greco ed Emanuel Paliotti, cinque talentuosi videomaker italiani, si sono messi insieme per portare avanti il progetto #Laquilasiracconta.

Il mese scorso le loro videocamere hanno iniziato ad invadere L’Aquila per raccogliere testimonianze, storie di vita, ricordi che faranno parte di una serie di videoclip, disponibili sul sito Laquilasiracconta.com. I cinque moschettieri videomaker ricuciranno il girato che, nell’aprile del 2016, diventerà un docufilm, seguendo le orme di un giornalismo d’inchiesta che ahimè in Italia diventa ogni giorno una rarità.

Leo Longanesi scrisse: “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”. Questa riflessione affila nel suo sarcasmo un aspetto tragico del nostro Paese, rimasto immutato nel tempo. Purtroppo non solo gli aquilani sono vittime di questa arretratezza culturale che serpeggia in Italia e che sa come farci sentire, di fronte all’ennesima tragedia, mediocri sbandieratori di inciviltà.

Diario di viaggio: Gli italoamericani e l’America che sta cca’

Rosario PipoloGli italoamericani sono entrati nel nostro immaginario collettivo anche attraverso il cinema e la televisione. Il più delle volte con quelle forzature che affogano nell’odioso cliché, da Il Padrino ai Soprano. In quanti si sono lasciati affascinare e convincere che il successo all’ombra della Statua della Libertà sia tutto in un pugno di ferro, nel tiro alla fune che fa del Vito Corleone o del Tony Soprano di turno il braccio violento d’oltreoceano.

Se però mettiamo in conto che una famiglia italoamericana, prima dei suoi codici e delle sue regole, custodisce con gelosia il meglio della sua italianità, allora forse è il caso di dire che l’America sta cca’, come canterebbero i Terrasonora, e non nel quadretto televisivo della famiglia patriarcale della serie Dallas, tramontata insieme alla politica pirotecnica reaganiana.

Nel 1963 dal Sud dell’Italia Luigi e Concetta sbarcarono a ‪New York‬ e cominciarono a Queens una nuova vita. Nell’arco di tempo che va dall’America dei Kennedy a quella degli Obama, Luigi e Concetta vantano oggi una famiglia numerosa: più di 45 persone tra figli, generi, nuore, nipoti e pronipoti.

Condividere con loro una cena a ridosso della Pasqua, mi ha convinto che incrociare gli italoamericani in Italia è come il boato di un tuono per la nostra memoria. Le complicazioni di un pianeta testardamente globalizzato hanno cancellato la soluzione del rebus tatuato sulla pelle di ogni civiltà che si rispetti: chi emigra dona un valore aggiunto al Paese che lo accoglie.
Guardando negli occhi Rocco, Antonietta, Catherine, Antonietta junior, Francesca, Gina Marie e Giovanna, spicchio di questa numerosa famiglia che porta nomi italiani ma parla una lingua straniera, mi sono detto: Dobbiamo qualcosa a loro per aver schiacciato il cliché citato all’inizio, esportando negli ‪Stati Uniti‬ l’immagine autentica dell’Italia laboriosa e onesta.

I viaggiatori come me in realtà non hanno la vita rinchiusa nella famiglia d’origine ma la frazionano con tante altre anime conosciute lungo il percorso della vita. Catherine e le sue sorelle mi hanno restituito quel senso di libertà che conquistai nel 2005, attraversando gli USA su un autobus della Greyhound per oltre seimila chilometri.
Nell’aprile di dieci anni dopo è l’America che viene a farmi visita, ricordandomi che non si è mai abusivi quando il viaggio si è compiuto per riprendersi una vita vissuta insieme agli altri. Così accade che un Paese straniero diventi improvvisamente nostro, facendoci scivolare di dosso la sfacciata leggerezza da vagabondo.