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Cartolina dalla Barcolona 2015: nella bora io posso sognare la vela di Isabelle

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Rosario PipoloPer me la bora era confinata tra le suggestioni letterarie e cinematografiche. Perlomeno fino al mio ultimo ritorno a Trieste, che mi ha accolto con le carezze convulse di questo vento catabadico.

Nel sabato precedente al “dì di festa” della Barcolana, la storica regata che da 47 anni rende Trieste la culla internazionale delle vele, è stata la bora il direttore d’orchestra. Travolto da questo dondolio sfrecciante del vento mi sentivo come Mary Poppins, mentre i triestini mi rassicuravano sguinzagliando aneddoti sulla convivenza ventilata.

Trieste mi regala da sempre suggestioni, ispirazioni, incontri in un crocevia di culture: Emanuela e Sonia mi inondano di triestinità; Angela mi riporta ai miei reportage in Polonia alla ricerca delle tracce di Wojtyla e Walesa; Isabelle mi ricongiunge ad un pezzetto della mia famiglia che vive nel Sud della Francia.

Fuori soffia la bora, dentro si condividono piccole storie, come quella di Isabelle, velista vestita dalla semplicità, perchè i veri sportivi delle onde del mare schiacciano l’odioso divismo. La salsedine del mare triestino mischiata alla bora stropiccia la nostalgia per le passeggiate sulla spiaggia di Coroglio a Napoli. Così tento di spiegare a Isabelle uno slang partenopeo ereditato da nonno Pasquale.

Poco dopo la mezzanotte attraverso il salotto scapigliato di piazza Unità d’Italia. La bora è fortissima, all’altezza di Canal Grande, mi scaraventa contro la statua del mio amato Joyce. Mi tengo stretto, i ricordi della vita privata si mescolano a quelli lavorativi: in lontananza il mare agitato mi illumina.
La velista franco-tedesca, con cui avevo condiviso la vigilia della Barcolana, era la famosa Isabelle Joschke, “la Solitaire, une école de l’humilité” che appariva così in uno dei titoli del quotidiano Le Monde.

E’ come se la bora avesse strappato a Hugo Pratt la matita con cui creò Corto Maltese per disegnare nuovi paesaggi, uno sconfinato scenario di viaggio. L’indomani la bora è destinata ad assopirsi e il mare di Trieste a raccogliere le 1.667 vele della Barcolana. Io resto qui, perchè nella bora posso sognare la vela di Isabelle.

Sanità Pubblica, la sfida di Napoli nella lotta contro il tumore al fegato

Rosario PipoloNon ha fine la lotta contro il tumore al fegato: con tre morti al giorno la Campania è l’area geografica più colpita per cirrosi ed epatocarcinoma in Europa. Lo sa fin troppo bene a Napoli il dott. Giovan Giuseppe Di Costanzo, direttore dell’Epatologia AORN Cardarelli, che in un precedente articolo avevo soprannominato  “il  cavaliere Jedi” della termoablazione laser.

Lo stesso Di Costanzo ha organizzato, con la collaborazione della prof. Filomena Morisco, specialista in gastroenterologia ed endoscopia digestiva, e della dottoressa Raffaella Tortora, la II Multidisciplinary Conference on Viral Hepatitis and Hepatocellular Carcinoma, ospitata lo scorso weekend dal Museo Diocesano di Napoli.

Patrocinata dall’Università Federico II di Napoli, dall’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato e dal Ministero della Salute, la tavola rotonda è stata un acuto momento di riflessione e aggiornamento su questo tema delicato in ambito salute.
Quanto vi contribuiscono i farmaci per l’epatite da virsu C?
Come hanno ribadito i relatori queste cure farmacologiche eliminano l’infezione in media nell’80% dei casi, con variazioni dipendenti soprattutto dalla risposta a precedenti trattamenti, dalla presenza di cirrosi e dal genotipo virale.

Quali sono invece i contributi della nuova chirurgia? Ci sono segnali positivi in merito all’aumento della sopravvivenza dei pazienti con tumore del fegato. E’ stata presentata e illustrata la famigerata ablazione laser, messa a punto all’ospedale Cardarelli di Napoli, che consente di distruggere in maniera non invasiva anche neoplasie non trattabili con altre tecniche percutanee.

Tra il Cardarelli e il Policlinico di Napoli ho visto con i miei occhi decine e decine di giovani medici, che ogni santo giorno donano il meglio della loro professionalità a favore dei pazienti. Osservare all’opera donne in camice bianco come Maria Guarino e Silvia Camera conferma che la vera bellezza femminile abita nello sguardo impavido e premuroso di queste ancelle della Sanità Pubblica.

C’è una scena che mi sono portato a casa la primavera scorsa da una corsia del Cardarelli. Una donna sulla cinquantina che, avendo appreso della miracolosa cura farmacologica contro l’epatite C, ha sussurrato al marito: “Affronteremo anche questo e venderemo pure la casa se fosse necessario”. No, questo non accadrà, perchè i principi attivi della Sanità Pubblica sono a tutela di tutti. Di Costanzo  e i tanti collaboratori sono tornati all’opera, non c’è da perdere tempo, è una lotta senza fine quella contro il tumore al fegato.

La guerra è lunga, ma tante battaglie sono già state vinte, come quella di permettere ad un paziente, proprio oggi 9 ottobre, di festeggiare 43 anni di matrimonio.

Il delirio Expo 2015 tra i visitatori delusi e incazzati neri

Rosario PipoloDa una parte si mettono gli italiani con il brutto vizio di ridursi sempre all’ultimo; dall’altra si mette il fallo di una macchina organizzativa come quella dell’Esposizione Unviersale. Avete visto già con i vostri occhi quello che sta accadendo in questi giorni ad Expo Milano 2015?

Dopo la prima visita  nelle prime settimane di maggio, eccomi di ritorno nel luna park di Rho Fiera. Persino un bimbo nel passeggino  – loro sì che sono fortunati saltando le code asfissianti – si accorgerebbe che se in settimana si rischia il bollino rosso, figuriamoci nel weekend. Io ho vissuto il primo sabato e domenica di ottobre da bollino nero.

Mettetevi l’anima in pace: code chilometriche ovunque, dall’entrata all’accesso ai padiglioni (avete vinto la lotteria se l’attesa si riduce a due ore), per mangiare un boccone o per andare alla toilette. Anzi, se vi scappa la pipì farete meglio ad usare il “vasino” del vostro bimbo. Meno male che ci sono quelli di Cascina Triulza ad omaggiare noi disperati con vassoi di insalata da condire. Per non parlare del bus navetta che porta da una parte all’altra del perimetro, dove si fa a zuffa per salirci. L’albero della vita è inavvicinabile perchè l’accesso è bloccato dalle lunghe code per Palazzo Italia.

Il decumano di Expo sembra piazza San Giovanni a Roma in attesa del concertone del 1 maggio. Un gruppo arrivato da Arezzo, scambiandomi per uno dello staff, si lamenta: “Abbiamo fatto tanti sacrifici per arrivare qui. Dove siamo finiti? In quale baraonda?”. Per non parlare delle maestre inviperite, trasformate all’occorrenza in vere e proprie guerriere affinchè le classi della Primaria vedessero qualcosa.
Nel tardo pomeriggio di sabato c’è chi posta su Facebook il selfie da Expo, ironizzando: “Siamo entranti nel Guiness dei primati, da stamattina non siamo riusciti a vedere neanche un padiglione”.

Faccio una premessa: detesto i disfattisti di Expo e tutta la ciurma che, accecata dal pregiudizio, ha perso l’occasione di vivere questa esperienza. Nonostante sia stato trasformato in un luna park folcloristico per “fare cassa”, Expo Milano 2015 ospita tanti padiglioni che, durante il semestre, ci hanno aiutato ad esplorare l’emisfero della nutrizione e il valore aggiunto che essa ha per la vita.

Nonostante ciò, l’organizzazione è stata incapace di gestire criticità ed emergenze. Ribadiamolo: il successo di un evento di questa portata non si basa sul numero di biglietti venduti, bensì sulla qualità del servizio offerto al pubblico. Tutti, dal bambino all’anziano, devono essere messi in condizione di poter godere l’evento senza stress infernali. Non ci vuole Einstein per fare due conti e capire che gli accessi dei biglietti “open” dovevano essere controllati e limitati ogni giorno.

In tanti hanno deciso di mollare e svendere i biglietti di ingresso di questo rush finale. Cosa ci resterà di Expo Milano 2015? Il visitatore incazzato? No, l’amara cartolina che mi ha lasciato un anziano signore sabato scorso ai varchi: “Sono ammalato. Mi è costato un grande sforzo fisico essere qui. Questa forse è la mia ultima uscita stagionale”.

Diario di viaggio: Berlino e la memoria sfilacciata

Rosario PipoloDopo sette anni di assenza da Berlino, pare che la capitale tedesca si sia rassegnata all’affermazione di Scheffler per cui “é una città condannata per sempre a diventare mai ad essere”. 

Proprio questa ansia del divenire costantemente si lascia alle spalle il peso di chi non vuole essere ricordata più come “la città del Muro”, ma come il territorio che sfreccia verso il futuro.
Le gru che accerchiamo la vecchia Berlino Ovest sbranano le prospettive sopravvissute fino all’alba del nuovo millennio e Alexander Platz, crocevia di Berlino Est, è stata trasformata in un circo commerciale.

I vezzi delll’architettura contemporanea riescono sempre a sorprenderti, dall’armonia di Potsdamer Platz alla spavalderia della stazione centrale che si apre su Europaplatz. La crisi c’è e si sente: la sera i 3.000 metri di Rossmann, il mega store sulla Friedrichstrasse, contornano un vascello fantasma tra scaffali di libri, musica, oggettistica.

Lo scandalo delle emissioni della Volksvagen, icona di tutto il Paese, sembra così distante ai berlinesi che una coppia alla fermata dell’autobus mi dice senza esitazione: “L’onestà non è né da tutti né per tutti”.
Kreuzberg, tana dei Turchi a Berlino, da una parte è “il quartiere dei balocchi” della bella gioventù, sommersa dalla notte dei bagordi; dall’altra, lungo la Bergmanstrasse, è l’arcipelago dei localini dove ritrovarsi a bere o a mangiar un boccone.

Le briciole della Cortina di Ferro sono finite intrappolate nel sigillo del souvenir, perché in fin dei conti soltanto in minuscole oasi come il museo del Check Point Charlie riusciamo a fare i conti con la storia.

La bellezza della musica ci salverà? Sì, perché sull’altare della Philharmonie, casa della Filarmonica di Berlino, il tempo sembra sospeso. Ed è proprio questo stadio di sospensione che ricongiunge la memoria sfilacciata della capitale tedesca agli angeli custodi della memoria, ormai lontani dal cielo sopra Berlino.

E’ notte fonda. Vago nel buio. L’ultima luce è quella della Philharmonie lungo la Herbert-von-Karajan-Straße. Ich bin ein Berliner, ma restituitemi la Berlino dell’essere.

Quando le immagini scuotono le nostre coscienze

Rosario PipoloLe parole non ci scuotono più. Ce ne sono troppe, spezzettate, allungate, insipide nell’acqua che bolle dei social network. Qui non si tratta di pesare la pasta da buttare in pentola, ma la nostra coscienza civile, frullata negli sfoghi che una volta nascevano e morivano al bar sotto casa.

Gli algoritmi, che governano la traballante democrazia in Internet, non sempre sono la chiave d’accesso alle notizie per fare chiarezza su una questione che getta ombre sull’Unione Europea: il destino di migliaia e migliaia di profughi.

Siamo tornati all’Europa della frontiere, quella che fa venire fuori il lato oscuro nei recinti delle nostre lande. Basta guardare com’è andata a finire in Ungheria, scivolando sull’indignazione collettiva per la gestione del flusso dei profughi o dopo aver visto la videoreporter ungherese che prendeva a calci i migranti.

La bellezza salverà il mondo? No, perchè non è quella dei selfie che hanno affolato la nostra estate: tette e culi in riva al mare; il primo dentino o il ruttino sotto l’ombrellone di nostro figlio; l’ostentazione di dimostrare agli amici facebookiani che la nostra meta fosse la migliore; la lucida follia dell’anvedi come siamo belli.

La bellezza salverà il mondo a patto che le immagini scuotano le nostre coscienze. Il bimbo dormiente in riva al mare, che ha fatto in un batter baleno il giro del mondo, ci ricorda nella sua plastica drammaticità i calchi abbracciati degli scavi archeologici di Pompei. La riflessione, miscuglio di dolore e rabbia, è vellutata dal brusio del mare. Ahimè, non si tratta delle acque dove abbiamo fatto splash la scorsa estate.

Allora canto, perchè non so scrivere: “L’estate sta finendo e un anno se ne va, sto diventando grande, lo sai che non mi va”.

Ritorno a scuola: memorie ritrovate alle elementari di viale Bodio 22 a Milano

Rosario PipoloE’ ritornata a suonare la campanella nel bel mezzo delle polemiche, giocando al tiro alla fune tra buona e cattiva scuola. Parlano tutti di domani, dopo domani ancora, sgualcendo la memoria. Voglio riappropriarmi del ricordo dell’elementari – oggi non si chiamano neanche più così – fermandomi nella scuola al numero 22 di viale Bodio a Milano.

Non sono certo io il Ragazzo della Bovisa, specchio riflesso di Ermanno Olmi. Cosa c’entra un napoletano come me, che nel ’79 imparò a scarabocchiare il proprio nome in prima elementare con fuori il sottofondo della guerriglia della Nuova Camorra Organizzata, con una scuola della Bovisa?

C’entra perchè ogni scuola disegna la memoria a Milano come a Napoli, a Bolzano come a Palermo. Lo ricordate il treno che portò nel capoluogo lombardo i protagonisti di Rocco e i suoi fratelli? Forse in uno di quei vagoni c’era anche il medico Natale Giudice, ex allievo della scuola di viale Bodio, sbarcato a Milano dalla Sicilia negli anni ’30.

La cerco disperatamente la maestra occhialuta Enrica Galimberti, che prese servizio qui il 1 ottobre del 1945. La cerco perchè , attraverso i suoi occhiali, ha visto crescere la generazione di mio padre.
La scuola di viale Bodio ha scrutato l’Italia alienata dal Fascismo, i sogni luccicanti del secondo dopoguerra, le speranze in bianco e nero del Boom, l’irrequietezza sessantottina, la Milano ferita dagli anni di Piombo. Da quei banchi insegnanti e alunni hanno visto crescere il Belpaese.

Ha ragione Ornella Sberna quando scrive a proposito del quartiere Bovisa: “La luce è sempre la stessa, quella che la sua gente ha continuato a vedere negli anni bui, trattenuta nell’anima, tessuta sulla pelle”.
Oggi ritorno a scuola, partendo dai sotterranei di questo edificio scolastico, che è stato anche il Rifugio n.87, mettendo in salvo tanti milanesi dai bombardamenti.

Guardiamo al futuro della scuola senza perdere le tracce del futuro della memoria.

Cartolina d’estate: nella Germania di Costanza dal sapore svizzero

Rosario PipoloQuesta volta FlixBus mi porta in una città di frontiera. Si tratta di Costanza, quella nominata tra i banchi di scuola chissà quante volte per il famoso trattato, lì al confine con la Svizzera, a pelo nella Germania del Baden-Württemberg.

C’è un fiume di gente assiepata nel centro storico. Si beve, si fa festa, si sta insieme.  Tutto merito della musica: il festival Rock Am See diventa una Woodstock in miniatura tutta tedesca sul lago Costanza, quelllo che qui chiamano Bodensee. Bevo una pinta di birra, conosco gente del posto, condivido ritagli di viaggio.

Qui di pagine di storia ce ne sono. Ci pensa l’olandese Toni a farmi da guida. Le spoglie di San Pelagio nella Cattedrale ci ricordano che qui i cattolici riuscirono a riprendersi dai protestanti il proprio territorio ; nel monastero domenicano, trasformato a fine ‘800 in un hotel di lusso, c’è un manuale di tortura, dipinto su muro, che ci insospettisce; il teatro cittadino con le locandine di nuove e vecchie glorie; il cavallo in piazza che ricorda le gesta di Federico Barbarossa; la statua di Imperia sul porticciolo; il centro commerciale Lago che attira gli svizzeri spendaccioni.

C’è un’altra Costanza che mi piace, quella dei “veri Costantini”, lì nel quartiere Paradiso, lontano dall’invadenza turistica. Iniziano qui le mie passeggiate mattutine lungo il fiume Reno, che nasce dal ventre delle Alpi Svizzere, si lancia tra le bracce del lago Costanza, se ne innamora e poi scappa via verso la rotta di un nuovo viaggio.
L’incontro in un bar con due avellinesi emigrati a Costanza quarant’anni fa mi riporta al tempo in cui la Germania divenne la prima casa per tanti italiani.

La domenica mattina, bagnata da fili di pioggia, riveste l’atmosfera uggiosa del “dì di festa” in un riflesso di memoria. Un’anziana signora mi vede litigare con la cartina e mi fa capire che mi accompagnerà fino al punto indicato. Lei parla in tedesco, io in inglese, ma ci capiamo lo stesso. Guardo i suoi capelli innevati che mi ricordano la chioma di nonna Lucia e l’impertinenza fanciullesca del tipo “Nonna, perché non fai il più colore dal parrucchiere?”.

Mi giro, l’anziana si è dissolta dentro la pioggia.  A piccoli passi oltrepasso la sbarra. Non si tratta di un passaggio a livello, ma di una zolla di frontiera. Sono con un piede in Germania e con l’altro in Svizzera.

Cartolina d’estate: Salisburgo di Mozart che mai dimenticò la piccola Alice

Rosario PipoloIn un giorno d’inverno di oltre vent’anni fa una bimba italiana, in visita alla residenza di Mozart, chiese al papà: “Dov’è Mozart?”. Il papà cercò di spiegare alla piccola Alice che il famoso compositore, a cui Salisburgo aveva dato i natali, non fosse più lì. Alice non fu convinta e in parte non aveva così torto.

Questa volta FlixBus mi porta a Salisburgo, proprio per mettermi sulle orme di Amadeus. Salisburgo è per davvero la bomboniera dell’Austria perchè coglie le molteplici sfumature che ogni viaggiatore avrebbe il diritto di trovare nella sua meta.

Salisburgo sa essere sentimentale con i lucchetti “con le promesse d’amore” sul ponte Makartsteg e le atmosfere da set di Tutti insieme appassionatamente, il film di Wise che rese Julie Andrews bella salisburghese nella trasposizione cinematografica del famoso musical The Sound of Music.

Salisburgo sa essere portavoce di storia e arte nel meraviglioso quartiere del Duomo, tra il palazzo della Residenza e il museo della Cattedrale, custodi di segreti e contraddizioni dello strapotere dei principi arcivescovi.

Salisburgo sa essere ghirlanda del palato con la Sacher mangiucchiata al Sacher Cafè, mentre lo sguardo è rivolto verso i venditori ambulanti sparsi lungo il fiume, che attraversa la città il cui nome significata “Castello di sale”.

Salisburgo sa essere instancabilmente romantica quando la sera per te dipinge in cielo una luna piena e improvvisamente chic, elegante, pittoresca tra le viuzze della città antica, dove ti viene una voglia matta di perderti perché sai che ogni angolo è sempre una riscoperta.

Salisburgo sa essere vessillo medievalista tra le mura della Fortezza che guarda la città con l’occhio attento della sentinella e anche custode delle beffe della storia: osservare il pubblico in ghingheri al Festival di Salisburgo che applaude l’Ernani di Giuseppe Verdi, il cui Va’ Pensiero fece impallidire gli austriaci invasori più di due secoli fa, rivelandosi la baionetta che, senza fare né morti né feriti, fece scricchiolare il potere dello straniero. Le ferite si rimarginano, i tatuaggi della storia restano.

E Mozart dov’è finito? Aveva ragione la piccola Alice nel 1990. Dalla sua casa non se n’è mai andato, perchè la sua musica immensa nasconde dietro il brio e l’iralità la tragicità della vita. Ogni volta che un bimbo chiede “Dov’è Mozart?” è perchè sente il lontananza un suono: è quello di un enfant prodige del nostro tempo che mette per la prima volta mano su un pianoforte, da qualche parte nel mondo.

Sento anche io lo stesso suono di Alice. E’ troppo tardi per urlare a tutti che Amadeus abita ancora qui. Sono sull’autobus sul filo del tramonto. Il confine che divide l’Austria dalla Germania non è poi così lontano.

Cartolina d’estate: Norimberga, la bavarese che sussurra alla Germania

Rosario PipoloLa mia alba è on the road, su un FlixBus che mi porta da Monaco di Baviera a Norimberga. Mi sembra di essere tornato nella lunga traversata di oltre 6.000 km negli USA di dieci anni fa.

I viaggi in autobus ci aiutano a riscoprire la bellezza di essere parte della comunità locale: la mamma che accarezza il bimbo accanto a me guarda il passeggio delle prime nuvole dal finestrino. Norimberga è una città che non ti aspetti, lo capisci subito, appena arrivi: è una città che vuole farsi scoprire lentamente, con discrezione e svelarti così i segreti di questa zolla della Germania.

Alla larga dagli italiani piagnucoloni che a colazione vorrebbero solo cornetto e cappuccino, mi fiondo in una macelleria. Mi cuociono a prima mattina una manciata di salsicce di Norimberga, quello che loro chiamano Bratwurst.
Ingurgito calorie a sufficienza per arrampicarmi fino al Castello, che gioca a fare da macchina del tempo. Poi finisco nella casa di Albrecht Dürer. Ripenso a l’arte di Miriam Prato, brava artista scoperta in una galleria del piacentino e capace di ingrandire con poesia e dare una nuova vita ai piccoli dettagli delle tavole di Dürer.

Monica Giorgetti Stierstorfer, guida italiana trasferitasi qui da Roma vent’anni fa per amore di un tedesco, mi porta a zonzo. Raccolgo i piccoli dettagli che sono in fin dei conti il nutrimento di ogni viaggiatore che si rispetti. I riflessi dell’acqua dei canali sciacquano le macchie di chi continua ad assocciare Norimberga a roccaforte del Nazismo.
Gli orrori del Führer, seppelliti con disprezzo dai berlinesi, serpeggiano sotto le macerie di questa città completamente ricostruita, tra ombre della memoria, del Nazismo assassino dietro gli scheletri nell’armadio.

Norimberga merita di essere ricordata per altro, per la sua timida bellezza che viene fuori da una pudica scollatura come la piazza del Mercato dove mi fermo a parlare con gli ambulanti. Il ‪viaggio‬ è il tragitto più coerente per imparare a silurare  i pregiudizi: la grande civiltà dei tedeschi resta ancora una gran bella lezione a dispetto della cialtroneria all’italiana. E tutto non si riduce alla goliardica sfida su un campo di calcio al prezzo di un pallone tirato in porta.

Sotto una pioggia estiva, dal profumo bagnato delle lacrime, riparto sul mio autobus. La ‪‎Germania‬ ha sofferto, ha pagato. Con la complicità di una classe di docenti imbecilli noi abbiamo solo giudicato.

Cartolina d’estate: insieme a Luca sulla collina di Posillipo

Rosario PipoloSapevo che ti avrei trovato qui. Luca, sei proprio un milanese dal cuore napoletano: niente Navigli, niente Darsena, ma la cima della collina di Posillipo. Aspetta che mi siedo più vicino così riesci a sentire questo mio farfugliare.

Te lo avevo raccontato una volta e forse è accaduto negli stessi anni in cui hai vissuto nella mia Napoli. Nonno Pasquale mi portò qui da bimbo indicandomi questo posto come finestra spalancata su uno scorcio della città, lontano dalla solita cartolina con il Vesuvio intascata da chi vorrebbe questa Napoli culla del chiasso.
Proprio questa immensa terrazza, che affaccia sul parco sommerso della Gaiola, è il luogo più appropriato per appartarsi con i pensieri della propria anima.

Posillipo non appartiene ai napoletani radical chic, soffocati dalla goffaggine della loro finta signorilità, ma a Dio. Luca, non ridere: dai tempi dell’infanzia sono convinto che Dio non sa nuotare.  Secondo te se il Padreterno fosse stato un abile nuotatore, avrebbe lasciato annegare pescatori e marinai che da questo golfo non sono più tornati?

Pure nonno Pasquale assecondava, ridendo sotto i baffi, la mia stralunata idea. Dio usa la collina di Posillipo come materassino per galleggiare in acqua e puntualmente torna qui, lasciandoci innamorare.
Luca, la senti questa brezza che ci accarezza ora? Sembra la mano di Dio, ci libera, ci fa sentire più leggeri. Basta davvero una manciata d’amore per seppellire il dolore, per zittire il tamburo di latta della solitudine.

Mi sono convinto che ad arrugginirci in fretta sui nostri posti di lavoro è il maledetto muro alzato tra una scrivania e l’altra e cementato dalle banalità che spopolano alle macchinette del caffè. Per fortuna io e te ci siamo spartiti un capo donna capace di ricordarci che soltanto la nostra umanità può valorizzare i successi e i fallimenti nel lavoro di tutti i giorni.

Perciò Luca, anche tra colleghi, non dovremmo vergognarci di ripeterlo. Sono ritornato a Napoli d’estate non per farfugliare questi pensieri bizzarri, bensì per dirti che ti ho voluto bene.
Luca, pianto un fiore qui così la prossima volta sapremo quale sarà il punto esatto dove rincontrarci, qui sulla collina di Posillipo.