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Archives 2015

Perché i 40 anni di Candy Candy non possono passare inosservati

Rosario PipoloCandy Candy, l’eroina manga di Yumiko Igarashi che ha fatto da babysitter tv alla generazione degli anni ’80, ha compiuto i primi 40 anni. Le scaramucce legali sulla maternità tra la disegnatrice e l’autrice del romanzo Kyoko Mizuki ne hanno impedito la traduzione e la pubblicazione in Italia.

Tuttavia, furono i 115 episodi a cartoni della Toei Animation – un piccolo gioiello dell’anime giapponese – a rendere Candy popolare nel nostro Paese, nonostante gli snobismi intellettuali addittavano il manga sentimentale come genere per ragazzine brufolose. In realtà non fu così, perché anche noi maschietti, cresciuti all’ombra dei Goldrake e Jeeg di Go Nagai che nascondevano anche lo choc giapponese per l’atomica, seguimmo con interesse le disavventure della “signorina tutte lentiggini”.

Perchè i primi 40 anni di Candy non possono passare inosservati? Hanno un bell’involucro di reminiscenze letterarie che i professori noiosi della mia generazione avrebbero dovuto considerare per movimentare qualche lezione al liceo: dal romanzo d’appendice ai trovatelli della pagine di Dickens che facevano dei Remì o delle Candy i cugini di Oliver Twist; dal romanzo picaresco alla Barry Lindon, che nel nostro caso inizia e finisce alla Casa di Pony; alla letteratura anglosassone rinsavita da scenari storici.

La Mizuki saccheggiò dalla letteratura occidentale e fece di Candy la ragazza emancipata di un lungo pulp-fiction, sventolando valori come amicizia, amore, lealtà, educazione dei minori figli di N.N. in un perimetro narrativo cicolare, dove c’era spazio anche per sentire il rumore delle bombe della Prima Guerra Mondiale.

Mentre la censura della tv dei ragazzi avrebbe voluto tagliare il primo bacio tra Candy e Terence o gli abitini sgargianti, i telespettatori più accorti sbucarono oltre i vezzi sentimentali e intravidero vari spunti: la decadenza dell’aristocrazia americana (le famiglie  Andrew e Granchester) e le vie di fuga dei rispettivi figli ribelli  (Albert usa il viaggio e Terence il teatro ); il maschilismo sottomesso (Anthony); la religiosità disciolta nella concretezza e nella comunione (suor Gray e suor Maria); il principe felice wildiano traslato nel protettore misterioso e generoso (Il principe della collina/Signor Williams); i legami dell’infanzia che ci accompagnano per tutta la vita (Annie); l’aria domestica dell’animaletto fedele (il procione Clean).

Come mi hanno ricordato il regista e il produttore dell’anime I Cavalieri dello Zodiaco, intervistati all’ultima edizione di Lucca Comics, il successo dei cartoni animati nipponici è trattare i bambini come degli adulti, mettendo in conto che non c’è sempre lieto fine nella vita.
Infatti, Candy non sposerà Terence ma Albert, il vero principe della collina. Gli autori italiani fecero soltanto un gioco di montaggio – addirittura nella versione per il cinema riciclarono un bacio di una puntata precedente – pur di farci credere che Candy e Terence sarebbero vissuti felici e contenti.

I 40 anni di Candy Candy non posso passare inosservati perché la signorina tutte lentiggini  ha aiutato i bambini della mia generazione a crescere con la consapevolezza che sfidare il destino è un punto a nostro favore per dare un significato all’esistenza. Oggi Candy Candy aiuta gli adulti, ovvero noi bambini di allora, a ritrovare il sentimentalismo necessario che dà lustro all’immaginazione dei cuori ribelli.

Viva l’Italia, quella dei MasterChef e delle “patonze”

Rosario PipoloAltro che “Viva l’Italia presa a tradimento, l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento” del cantastorie Francesco De Gregori. Piuttosto viva l’Italia dei Masterchef, quella degli indignados del tiro alla fune tra food e tv, tra Striscia la Notizia che svela il nome del vincitore e la concorrenza incazzata nera. Cosa si farebbe oggi per alzare il termometro dello share?

Viva l’Italia dei Masterchef perché una trentina d’anni fa volevamo i nostri figli tutti bacchettoni al liceo e snobbavamo l’istituto alberghiero. Allora andava di moda scaccolare con la puzza sotto il naso. Oggi chi di noi non sognerebbe un figlio “divo chef” in tv.
E allora tutti dietro i fornelli perché vuoi mettere “farsi il culo come papà sulla catena di montaggio” anzichè lottare per guadagnarsi un bel mestolo d’oro? Se arrivasse il podio, i nostri pargoli campioni metterebbero la firma culinaria sotto una patatina industriale.

Altro che “Viva l’Italia, l’Italia che lavora, l’Italia che si dispera e l’Italia che s’innamora”. Viva l’Italia delle intercettazioni e delle “patonze”, perchè se non ci fossero bisognerebbe inventarle. Fanno vendere qualche copia di giornale in più, rendono euforico il popolo dei social network, annacquano con il gossip quelle che di certo non sono riflessioni politiche e, per giunta, mortificano il giorno della memoria profumato dalla mimosa dell’8 marzo.
Le nostre nonne sognavano un figlio partigiano come presidente; le nostre mamme un figlio laureato in economia; noi abbiamo capito che è meglio un figlio puttaniere, perché se gira la patonza, gira pure l’economia.

Viva l’Italia dei MasterChef e delle patonze, quella che cammina per strada e non si accorge che un giovane su quattro si è ridotto a fare il neet; che si tappa le orecchie quando la sopravvivenza per la globalizzazione fomenta disagio sociale; che preferisce un comodo lento nostalgico su Felicità di Albano & Romina piuttosto che un tango sovversivo, taccheggiando sul letale luogo comune del “si stava meglio quando si stava peggio”.

“Viva l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare, l’Italia metà giardino e metà galera, viva l’Italia, l’Italia tutta intera”.


La Russia dei complotti di potere, da Anna Politkovskaja a Boris Nemtsov

Rosario PipoloIeri anche Milano, laggiù nel piccolo angolo dei giardini Politkovskaja, era unita spiritualmente alla Russia indignata per l’uccisione di Boris Nemtsov, vicepremier del governo di Eltsin e instancabile oppositore del governo di Vladimir Putin.
Le fiammelle, i fiori, i canti e i messaggi lasciati dall’Associazione AnnaViva ci hanno aiutati a non essere distratti, a non permettere al vortice della nostra banale routine di schiacciare la riflessione.

Sì, perchè dopo il misterioso assassinio della giornalista Anna Stepanovna Politkovskaja, penna scomoda al Cremlino, il complotto del potere si rianima in quello che in tanti proclamano un omicidio politico.

Nei giorni complicati della crisi ucraina, che ha riportato i venti della Guerra Fredda al centro dell’Europa, l’assassinio di Nemtsov ha convinto migliaia e migliaia di moscoviti ad uscire dal torpore, marciando a viso aperto e sbandierando voglia di libertà e verità, grande illusione al di là degli Urali.

Cosa ci fanno a pochi passi, in un cimitero alle porte di Mosca, Anna e Boris? A quest’ora dovrebbero essere ancora tra noi: la Politkovskaja armata di inchieste giornalistiche affilate alla ricerca della verità; Nemtsov portatore di entusiasmo civile e infaticabile spirito riformatore, cardini della sua politica il fronte di una vita spesa a favore della comunità.

Je suis Nemtsov è stato più di uno slogan per la marcia nel cuore di Mosca, perché quei passi lenti avevano lo stesso rumore delle rivolte del secolo scorso contro il regime zarista. Dallo scettro del sovrano al potere di un ex Kgb ne è passata di acqua sotto i ponti della storia sovietica.

Tuttavia, è arrivato il momento che i russi legalizzino la necessità di pretendere la verità, perché nessuno sia più complice di un destino infame. Gli errori e fallimenti politici non hanno più bisogno di claque. Oggi, dopo la martire Politkovskaja, Boris Nemtsov è un’altra scintilla immensa nell’oscurità che nessun complotto di potere spegnerà.  

Diario di viaggio: Giovan Giuseppe Di Costanzo e le eccellenze all’ombra della Sanità Pubblica a Napoli

Rosario PipoloCi sono più generazioni che vivono sotto la spada di Damocle. Si tratta di un milione e mezzo di italiani infetti da Epatite C, la patologia mostruosa che agisce sul fegato e lo riduce come un rottame.
Il fegato cirrotico è la condanna di 300 mila diagnosticati (fonte L’Espresso on line), la maggior parte dei quali fu infettata tra gli anni ’60 e gli anni ’80, quando bastava una piccola negligenza per entrare nel tunnel, dall’ago di una siringa alla lametta riciclata dal barbiere; da una trasfusione al bisturi malandato.

Mentre da una parte c’è chi grida alla salvezza con i costosissimi farmarci miracolosi messi sul mercato, dall’altra ci chiediamo: cosa ne sarà degli ammalati in stadio avanzato, ai quali nessuna azienda farmaceutica potrà dare supporto?
Escluse le possibilità di intervenire con il trapianto o con il dolorosissimo interferone, non resta che affidarsi al medico sperimentatore della Sanità Pubblica, colui che il più delle volte agisce all’ombra e del quale dovremmo tornare a scrivere.

Non è una beffa scoprire che proprio all’ospedale Antonio Cardarelli di Napoli, finito di recente nell’occhio del ciclone per i malati assiepati in corsia e il morto in barella, sopravvivano delle eccellenze. Giovan Giuseppe Di Costanzo, direttore dell’unità di fisiopatologia epatica dell’omonima struttura ospedaliera partenopea, rientra in questa categoria.
La mia generazione aveva ereditato il laser dall’immaginario collettivo cinematografico di Star Wars: per noi era l’arma letale con cui annientare il malefico Darth Vader. Di Costanzo trasferisce questa visione fantastica in campo medico e eredita dal pioniere Claudio Maurizio Pacella la tecnica sperimentale della termo-ablazione laser.

Di Costanzo, concreto e sobrio, è lontano dalle luci della ribalta e dal divismo che quale volta contagia pure “i camici bianchi”. Basta fare toc toc alla sua porta e trovare tanta disponibilità per un confronto. E’ davvero uno dei fiori all’occhiello della nostra Sanità Pubblica, quella che ha il dovere sacrosanto di calpestare il baronato delle corsie preferenziali del privato;  quella che non deve guardare al portafogli, perché un ammalato non è né ricco né povero ma è un ammalato punto e basta.

Diamo il merito alla nostra Sanità Pubblica che, nonostante le deficienze, riesce ancora a mettere in condizioni migliaia e migliaia di pazienti di supportare i costi ed affrontare cure senza indebitarsi, ipotecare la casa o i piccoli sacrifici di una vita.
Giovan Giuseppe Di Costanzo sa di non essere un Jedi che deve affrontare il male diabolico nella saga di Guerre Stellari, piuttosto un uomo che, armato di laser, battaglia per aiutare altri uomini a sopravvivere, entrando con rigore in una sala operatoria del Cardarelli.

Dobbiamo tornare a fare viaggi nelle corsie degli ospedali all’ombra del Vesuvio ed imparare a riconoscere senza soggezione medici alla Di Costanzo, capaci di trasformare Napoli da Cenerentola della Sanità in principessa dal mantello bianco che fa della vita e delle cure un diritto di tutti.

Luca Ronconi, quelli che il teatro…

Rosario PipoloQuelli che il teatro lo scelsero perchè il restante fuori il recinto del palcoscenico fosse risucchiato e vissuto con lo sguardo di chi mette insieme drammaturgia, personaggi, esistenza viscerale nella lotta scomposta tra anima e corpo. Il gigante Luca Ronconi.

Quelli che il teatro lo trascinarono nella visione riflessa, dopo Giorgio Strehler e Luigi Squarzina, del terzo occhio per costruire l’impalcatura che fece della regia presa di coscienza, irreversibile rivolta al sistema, contropartita nell’Orlando Furioso, scacco matto dell’avanguardia teatrale in Italia. Il regista Luca Ronconi. 

Quelli che il teatro lo donarono con generosità agli attori e alle attrici che palparono sotto forma di argilla l’unico modo di esistere senza compromessi: dai Branciaroli alle Melato che gli riconobbero il merito di averli illuminati. Il maestro Luca Ronconi. 

Quelli che il teatro lo abitarono e fecero del sipario le tende della propria casa; del palcoscenico la quercia centenaria del proprio giardino; delle quinte gli armadi di tutte le stanze; delle luci della ribalta l’illuminazione di ogni ambiente domestico; dei camerini le tane dove fermarsi a riflettere, dall’Argentina di Roma al Piccolo di Milano. L’uomo di teatro Luca Ronconi. 

Quelli che il teatro lo vissero senza la persecuzione delle scadenze del tempo, convincendoci della reincarnazione dell’uomo di teatro come se, l’invecchiamento a cui siamo condannati noi comuni mortali, non li riguardasse.
A questi ultimi gli dei dissero no alla sepoltura, lasciando il legno del palcoscenico come involucro delle spoglie mortali.  Essere Luca Ronconi.

Quelli che il teatro lo fecero senza sapere che il teatro furono loro stessi. 

Napoli e le spose di Oreste Pipolo, fotografo-antropologo della bellezza imperfetta

Rosario PipoloDa quando sono nato, a Napoli mi fanno puntualmente la stessa domanda: “Sei parente di Oreste il fotografo?”. Ai tempi del liceo mi spinsi fino al suo studio fotografico in via Carbonara, per conoscere il fantomatico Oreste Pipolo con cui spartivo il cognome senza un legame di parentela.
Non fu quella l’occasione. Sarebbe arrivata anni dopo, prima del mio trasferimento a Milano, mangiando una pizza da Michele. Era seduto a fianco a me. Dopo le presentazioni, Oreste Pipolo tiro giù gli occhialini e mi disse scherzosamente: “Ora ti riconosco. Tu se il giornalista che mi ha fregato il dominio Pipolo.it”.

Più che “fotografo di matrimoni” – come recita il bel documentario che Matteo Garrone gli tributò  – Oreste Pipolo è stato l’antropologo delle spose napoletane. Le osservava con occhio critico e le denudava da tutti i vezzi pacchiani, di cui molti dei suoi colleghi ne fanno un vanto, prima e dopo il servizio fotografico da matrimonio, per immortalare così le principessine cafone di mammà e papà.

Tutte le spose, raccontate dall’obiettivo stilografico di Pipolo, diventavano la polvere di stelle con cui era stata creata Napoli dal Padreterno: non erano colte nella finta bellezza, che popola la maggior parte delle sposine “photoshoppate” ammucchiate sugli album dell’era digitale, ma in un misto di imperfezioni, lapilli poetici della bruttezza insidiata in ciascuno di noi. Perciò il matrimonio raccontato da Pipolo si staglia netto da ispirazione per il cinema.

Alla fine degli anni ’90 avevo conosciuto un gruppo di matrimonisti pugliesi che, dopo aver fatto un seminario con l’artista napoletano, mi dissero: “Osare come Oreste nella scelta degli scenari, significa non lavorare dalle nostre parti. Qui da noi le spose vogliono il ritratto accanto al mobiletto della mamma. E’ una malattia cronica del Sud”.

Il destino delle spose di Oreste Pipolo, per fortuna nostra, fu lo scatto su i binari dismessi della stazione di Gianturco o sotto un’arrampicata dei Quartieri Spagnoli, per essere misteriosamente velo della Napoli che nasconde la bellezza principesca sotto i cenci di una gatta cenerentola.

Evocando la sposa felliniana nel film Amarcord, avrei voluto un’ultimo scatto nel portfolio di Oreste Pipolo: una sposa scalza sulla spiaggia abbandonata di Coroglio, tra il lido Pola sbarrato dove si conobbero i miei genitori e il tanfo di catrame dell’ex Ilva di Bagnoli che arrivava fino alla finestra dei miei nonni. Nella tessitura visiva immaginata, accanto alla donna col velo, lo sposo volevo essere io.

Diario di viaggio: Michele Ferrero, il galantuomo di Alba che mi fece felice

Rosario PipoloIl mio viaggio ad Alba di qualche anno fa fu una tappa di un giro on the road nella langhe piemontesi. La mia auto, come al solito, andava a passo d’uomo per raccogliere le impressioni del territorio. Arrivato nella cittadina del cunese, ebbi la tentazione di andare fuori lo stabilimento della Ferrero. Mi feci scattare una foto lì. Per me quello stabilimento era la casa del signor Ferrero.

Ai tempi del liceo volevo lavorare in quell’azienda, non solo per mangiare chili di Nutella in nome delle merende dell’infanzia condivise con mia madre e mia sorella, ma per conoscere di persona Michele Ferrero.

Per me in un certo senso il signor Ferrero è stato un “secondo” nonno: mi ha viziato con pane e Nutella; mi ha fatto guardare il mondo “a colori” attraverso le scatoline dei Tic Tac, che conservavo per creare arcobaleni artificiali; ha deliziato mamma con i Mon Chèri, da sempre i suoi cioccolatini preferiti che le regalava papà; ha fatto su misura per me un premio, l’ovetto Kinder, che nonno Pasquale tirava fuori dal taschino quando veniva a prendermi all’asilo e non avevo fatto il monello; mi ha fatto corteggiare una compagna di classe alle elementari lasciandole sul banco un Rocher, senza dovermi sentir chiamare Ambrogio.

Michele Ferrero è stato il galantuomo dell’imprenditoria italiana. Sobrio e discreto come la maggior parte dei piemontesi, voglio ricordarlo come uno dei fiori all’occhiello dell’industria italiana del Secondo Dopoguerra, sempre a distanza dai clamori e dai riflettori.
Da un piccolo laboratorio di pasticceria nel centro di Alba, il signor Ferrero ha regalato la felicità anche alla mia generazione, a piccole dosi. Oggi, grazie a Michele Ferrero, posso filare ricordi privati e legarli ai sapori che lui ha inventato anche per me, facendo scattare l’inevitabile meccanismo proustiano della memoria.

Quando nel 2005 fu tolto dalle confenzioni delle barrette Kinder il volto dello storico bambino, stavo per scrivere al signor Ferrero una lettera di protesta. Quella faccia datata apparteneva all’amico immaginario di merenda, che veniva a farmi compagnia puntualmente nei pomeriggi dell’infanzia.
Il papà della Nutella se n’è andato nel giorno della Festa degli innamorati. Ero a casa dei miei e, prima di tributargli un tweet, sono andato a trafugare nel frigo. Sapevo che, a ridosso dello snack di mezzanotte, papà e mamma mi avrebbero fatto ritrovare le barrette di cioccolato che ora hanno la forma di una “M”.

Sanremo 2015, il Volo “cantanti da pizzeria” e le penne con l’Alzheimer

Rosario PipoloI due giovanissimi tenori e il baritono che compongono il Volo, la formazione musicale vincitrice del 65° Festival di Sanremo, si sono guadagnati meritatamente il consenso popolare, destando però qualche perplessità nei corridoi della Sala Stampa dell’Ariston. Tra l’altro pare che Pietro Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble siano stati additati pure come “cantanti da pizzeria”.

Senza tener conto di chi non ha digerito il successo planetario dei tre mocciosetti del programma tv di Antonella Clerici e la conquista degli USA,  dobbiamo rassegnarci al fatto che in Italia abbiamo delle penne malate di Alzheimer. Si tratta delle medesime biro che, abusando del loro inchiostro, pensano ancora di vivere ai tempi in cui segnavano il bello e il cattivo tempo della discografia.

Per fortuna o per sfortuna oggi ci sono i social media, non soltanto territorio di clowneria e nefandezza ma anche di competenza, la stessa che ha l’orecchio lungo e riconosce il talento di Il Volo. Le penne malate di Alzheimer hanno esaurito l’inchiostro a supporto di mediocri pianisti contemporanei, facendoli passare come geni incompresi, e non ne hanno più a dispozione per riconoscere la bravura di questo trio?

Consapevoli da una parte che i Festival di Sanremo dei Modugno, dei Dallara, dei Latilla, dei Villa, dei Rascel, degli Endrigo, dei Tenco o dei Gaetano non torneranno mai più, dall’altra ci opponiamo a questi ciarlatani da corridoio perché Barone, Boschetto e Ginoble possono fare un miracolo con le loro romanze pop: far avvicinare i ventenni alla lirica, ricordando loro che la radice della musica è tutta lì.

La mia generazione fece il grande passo scoprendo Luciano Pavarotti, l’antesignano di quella fusione magistrale tra lirica e pop. E me ne resi conto il 30 luglio 1991 quando, all’uscita da una merenda all’Hard Rock Cafè di Londra, mi ritrovai il grande tenore che cantava sotto la pioggia ad Hyde Park. Ebbi la fortuna di ascoltare quel concerto gratuito che in parte avrebbe compromesso alcune mie scelte musicali future.

Il Volo sono l’unico sollievo di questo Sanremo avaro che dimenticheremo in fretta, forse il peggiore musicalmente di tutte le edizioni. Se proprio dobbiamo salvare una baby band, teniamo loro e buttiamo giù dalla torre i Dear Jack, flop del filone della tribù della De Filippi.
Pietro, Ignazio e Gianluca hanno talento ma devono sapere che l’umiltà è necessaria per crescere. La strada per guadarsi un posto nella storia della musica è ancora lunga, faticosa, tortuosa e il pericolo che il successo negli USA li abbia montati la testa è dietro l’angolo.

Le braccia spalancate di Mimmo Modugno sulle note di Volare fecero il giro del mondo. E questa Grande amore? Nonostante resti una romanza pop di serie B avrà il pregio di ricordare all’estero che l’Italia – ed in particolare Abruzzo e Sicilia, le regioni che li hanno partoriti – non è solo corruzione e volgarità ma è ancora culla di ragazzi entusiasti, capaci di assistere con la passione il faticoso cammino per le nuove generazioni, orfane della grande musica che fu.

14 febbraio, il primo San Valentino non si scorda mai

Rosario PipoloQuante banalità intorno al 14 febbraio. Tutti lo snobbano ma ciascuno ha un ricordo che lo lega a San Valentino, patrono degli innamorati. Ci sono ricordi che restano intatti come bottiglie di vetro in un angolo. Non è nostalgia ma piuttosto la presa di coscienza che la Festa della Innamorati può avere col tempo connotati diversi.

Sembra una beffa ritrovarmi a passare nello stesso posto in cui esattamente venti anni fa parcheggiai la Panda. L’avevo trasformata in una mini navicella piena di palloncini. In radio, dove avevo iniziato le prime collaborazioni, le avevo registrato una trasmissione tutta per lei che avrei fatto uscire dall’autoradio.
Mi procurai tutto l’occorrente per preparare una cenetta su quelle quattro ruote. Fu dura far capire al tizio della cornetteria che, il cornettone gigante con le nostre iniziali doveva essere pronto per le sei di sera. La mezzanotte di Cenerentola si era ridotta alle nove e mezzo. Ricordo la sua faccia al semaforo quando mi vide sbucare con l’auto allestita per l’occasione.

Il tempo non è il nostro padrone. Piuttosto lo sono i sentimenti. Il primo San Valentino non si scorda mai quando a distanza riesci a sentire i dolori, gli stati d’animo dell’altro. È come se questa reciprocità, libera dalla prigionia del passare degli anni, dimostrasse che i nostri cuori non invecchiano, restano intatti, hanno un piccolo congegno nascosto a medici e scienziati che sono la valvola di tutto, la valvola della vita.

Non si diventa uomini con una divisa addosso, come sotto gli addestramenti spietati del film Full Metal Jacket, ma calpestando la rancida viltà che ci fa avere paura di mostrare ciò che abbiamo dentro.

Il 14 febbraio di vent’anni fa non fu più il giorno dove regalare una manciata di Baci Perugina perché, in quell’auto trasformata in una navicella, scoprii insieme alla ragazza accanto a me che la nostra autenticità è direttamente proporzionale alla manifestazione di ciò che sentiamo dentro.

Alle nove e trenta in punto la lasciai nella strada dietro casa per non insospettire i genitori. Andando via in silenzio, per un attimo mi venne il dubbio che la mia strampalata macchina organizzativa non fosse riuscita. A togliermi il dubbio fu un biglietto, trovato sul cruscotto, sui cui era scritto: “Solo un pazzo come te avrebbe potuto fare tutto questo. Non so dirti altro. Ti voglio bene. 14 febbraio 1995” 

Benvenuti nel Sanremo 2015 di Carlo Conti, karaoke dei “Migliori anni”

Rosario PipoloOgni anno ci portiamo avanti con una vena polemica che ci fa rimpiangere i Festival di Sanremo precedenti nonostante, da alcuni anni a questa parte, puntualmente non ricordiamo il titolo della canzone vincitrice dell’edizione precedente.

Questo Sanremo 2015 ha tutte la carte in regole per riproporre sul palco dell’Ariston il karaoke dei Migliori anni, la fortunata trasmissione di Carlo Conti che ricompone il Belpaese ammalato di nostalgia canaglia. Prima del siparietto buzzurro di Albano e Romina, ci pensa la famiglia più numerosa d’Italia a riproporre in prima serata la famiglia Mulino Bianco catto-democristiana.

Se non fosse per la delicata e vaporosa Io sono una finestra di Grazia Di Michele, che ci ha tolto di dosso l’odioso travestimento di Platinette per restituirci il sincero Mauro Coruzzi, staremmo ancora a cantare banalmente Felicità.
Quel fottuto “panino e bicchiere di vino” non appartengono più all’illusione del benessere economico del Pentapartito degli anni del riflusso ma ai litigi ridicoli di Albano e Romina, che giocano a fare la coppia appassita dell’Horror Picture Show sanremese, nella nuova vallettopoli delle Emma e Arisa, caricature degne del prossimo film di Quentin Tarantino.

E le canzoni? Non ci sono. Basta ascoltare la Chiara o l’Annalisa di turno per convincerci che siamo tornati alle canzonette che ammazzarono i rivoluzionari alla Luigi Tenco. Grignani ci aveva illusi che, con la sua Sogni infranti, saremmo tornati alla bella époque dei cantautori; i Dear Jack riciclano la lagna dei Modà; Lara Fabian sembra la Oxa del Belgio; Nesli ci fa rimpiangere amaramente Grazie dei Fiori (roba di sessant’anni e passa); Alex Britti e Malika Ayane si sono già sentiti; Nek pensa al look e non  alla canzone, tanto da sembrare venuto fuori dalla pellicola Il pianeta delle scimmie.

Non ci resta che piangere – per citare il saggio Troisi nel Festival incapace di ricordare “i due Pino” (Mango e Daniele) – a meno che le canzoni dei giovani in gara non ci stupiranno a tal punto da rinnegare tutto.
Preferisco tenermi stretti i lettori che mi seguono nel mio live tweet e, in particolare modo, la mia Melina S. che, con garbo e aria domestica, sa ricordarmi: nonostante tutto, il festival di Sanremo riesce a riportarci col cuore ai ricordi di famiglia.