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Archives 2015

La napoletanità di Pino Daniele ritrovata grazie a “Unici” di Giorgio Verdelli

Rosario PipoloQualche volta capita che il Servizio Pubblico televisivo ci sorprenda. Lo ha fatto con lo speciale che Unici di Raidue ha dedicato a Pino Daniele a un mese della scomparsa. Fuori dal perimetro della retorica, ci sono diversi spunti che ci spingono verso un’unica riflessione, oltre il commiato popolare: Pino Daniele è stato napoletano fino alla fine, nonostante le malelingue abbiano tentato di convincerci del contrario, puntualizzando su un mucchio di banalità.

Il rimbalzo delle polemiche da rotocalco tra gli eredi sulla possibilità di salvarlo lo lasciamo svanire nel falò dei social network. Noi invece ci teniamo la sagoma dell’artista, quella del musicista sul palco, anche perché noi addetti ai lavori conosciamo tanti retroscena che sfuggono al pubblico, compreso il gran bel caratterino del musicista partnenopeo.

Parto da una battuta che mi lasciò al termine della mia intervista alla Feltrinelli di Milano alcuni anni fa, per la quale ringrazio il social team di Unici per averla rilanciata su Twitter: “Guagliò, la memoria deve guardare avanti senza rimpianti”. A quello che disse Pino Daniele aggiungerei: questo vale soprattutto per chi decide di andare via da Napoli senza rimpianti, senza portarsi in valigia lo scheletro dell’emigrante raccontata da Massimo Troisi.

Nonostante Pino Daniele abbia cantato “‘o munno” con gli occhi della Napoli metropoli del Mediterraneo, la sua napoletanità è cresciuta nella fuga geografica che ne ha segnato crescita artistica. E paradossalmente le meravigliose note di Eric Clapton al “dear friend Pino” da una parte fungono da ninna nanna e dall’altra sottolineano ciò che Gad Lerner e tanti altri non sono stati all’altezza di capire.

Quando all’alba degli anni ’70 mia mamma si trasferì da Napoli per andare a vivere in periferia dopo il matrimonio, mio nonno ne fece una tragedia. Il suo risentimento è comprensibile ad un napoletano, perché chiunque ne varchi i confini è considerato in un certo senso un traditore. Ce lo siamo sentiti ripetere tutti noi che ce ne siamo andati.

Ho imparato che la napoletanità è prima di tutto uno stadio interiore e non si misura facendoti seppellire a Napoli ma se, mangiando un frittella nel cuore di Sarajevo, ritrovi il sapore di quelle che ti cucinava nonna Lucia. La napoletanità non scema se sei andato via da Napoli per esplorare nuovi mondi, anzi aumenta quando sei a Tirana, in Albania, e trovi nella generosità della gente locale quella dei partenopei.
La napoletanità non si sbiadisce se non canti più nella lingua che ti partorì, ma riappare tutte le volte che alla tua donna ti scappa, prima e dopo aver fatto l’amore, Te voglio bene assaje invece di I love you.

La generosità di Giorgio Verdelli e del suo programma Unici ha restituito a Pino Daniele e a tutti noi quella napoletanità che nessuno mai potrà scipparci perché, come ha ribadito Lina Sastri, “la vera bellezza di Napoli è la sospensione come la poesia musicale di Pino Daniele”. 

Il matrimonio di mio marito e il Sud nell’arte di Salvo Bonfiglio

Rosario Pipolo“Il matrimonio di mio marito” potrebbe essere il titolo provocatorio di Pietro Germi, in quel cinema dalla caratura di Divorzio all’Italiana o Sedotta e abbandonata che scattò un’instanea grottesca del Sud Italia a cavallo del Boom. Invece no, è il titolo di un gioiellino d’arte contemporanea di Salvo Bonfiglio che mi ha particolarmente suggestionato.

Il tratto di Bonfiglio ha qualcosa delle pellicole del Neorealismo, che furono all’altezza di raccontare il nostro Meridione con quel misto di poesia e cruda verità tanto da infastidire il regime politico di allora che le liquidò: “I panni sporchi si lavano in famiglia”.

In questo olio su tela grezza, nella finta immobilità dei protagonisti, c’è il movimento di Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza, dove sono i personaggi a venire incontro a noi che li osserviamo. Questa coppia di sposi, accompagnati da un seguito che connota le radici di Bonfiglio, mi hanno riportato ai racconti di mio padre.
All’alba degli anni ’50 del secolo scorso, quel furfante di papà insieme ai compagni di giochi si intrufolava ai matrimoni delle contrade contadine del mio Sud per mangiare qualche dolcetto e respirare aria di festa.

Salvo Bonfiglio abbozza soltanto i volti dei personaggi perché al resto pensiamo noi. Il Sud non ha solo un connotato geografico, imprigionato da tanti nell’odioso campanilismo di questo o quel luogo. Il Sud di Bonfiglio è lo stesso Sud che mi sforzo di vivere io, ovvero prospettiva interiore attraverso cui trasformare la noiosa routine in esistenza.

Perciò godermi quest’opera a pochi passi dal Po non è stata una beffa dell’ennesimo mio vagabondaggio. La tela di Bonfiglio è uno specchio attraverso cui guardarsi senza timore. A ciascuno la sua radice e la presa di coscienza che tutti esistiamo a Sud di qualcosa. Ciò accade quando in silenzio ci perdiamo a condividere l’interiorità degli altri, per fare della storia donata da qualcuno la nostra prossima storia.

Quirinale 2015, quel giorno che Sergio Mattarella salirà al Colle

Rosario PipoloLa sfida del Quirinale di queste ore sembra una delle più agguerrite della storia repubblicana. L’Italia in questo momento ha bisogno di essere rappresentata da un nome autorevole, senza finire nei tranelli dei patti politici in stile Belpaese. Soprattutto di un nome che non sia legato a “nessuno inciucio ” perchè il dilagare della corruzione affligge la nostra immagine ovunque.

La clowneria dei social network consegnerebbe lo scettro di Presidente della Repubblica a Giancarlo Magalli, icona della tv degli anni ’80, in linea con quel rigurgito nostalgico nazional-popolare in vista del Festival di Sanremo di Carlo Conti, tra il karaoke degli anni del riflusso e la triste reunion di Albano e Romina che canteranno Felicità.

Spunta il nome di Sergio Mattarella, spina dorsale a favore della legalità, nome che ci riporta all’Italia che le mafie le ha combattute e non ci è uscito a cena. Dietro quel suo passo deciso e istituzionale, dentro il soprabito di questo fiero palermitano si nasconde una cicatrice: l’uccisione del fratello Piersanti per mano della mafia.

Nonostante tutto, mi torna in mente quel celebre titolo di Luigi Pintor apparso sul quotidiano il Manifesto 33 anni fa: “Non moriremo democristiani”. Tuttavia, dovremmo trovare il tempo di slegare gli uomini dai partiti e da quelle correnti politiche che allevarono i mostri della Prima Repubblica.

Sergio Mattarella va ripensato come figura istituzionale. Per quanto riguarda la sua opposizione agguerrita alla famigerata legge Mammì – tutti ricordano l’agevolazione all’imperialismo delle reti Fininvest – vorrei ritagliarmi una puntualizzazione. Quella virata sul sistema radio-televisivo italiano nacque dall’esigenza del Partito Socialista di allora.
Craxi e i socialisti avevano capito che non bastava più il perimetro della lottizzazione RAI nella convivenza con il “primo canale” della DC e “il terzo canale” del PCI. La tv privata fu il nuovo territorio da esplorare e così il nascente TG5 diventò il cugino gemello del TG2, culla dell’informazione craxiana fino al terremoto di Tangentopoli. Le dimissioni di Mattarella di allora dovrebbero essere rilette come una spallata politica della DC al PSI più che al nascente berlusconismo.

Ritornando alle elezioni per il successore di Napolitano, cosa succede mentre i D’Alema, i Prodi, i Veltroni, i Casini di turno “rosicano” per il Quirinale senza darlo a vedere? Loro stanno a guardare e Sergio Mattarella salirà presto al colle per diventare il nuovo Presidente della Repubblica italiana.

50 candeline per te: buon compleanno, cara Claudia Endrigo!

Rosario PipoloOltre le canzoni del tuo papà, cara Claudia, c’è una ricordo che mi lega a te: la maestra Iole che, all’alba degli anni ’80, ci insegnò in terza elementare i versi di Ci vuole un fiore.  E quando alcuni anni fa te ne parlai, annunciandoti che le stavamo organizzando una festa a sorpresa per la pensione, non te lo facesti ripetere due volte.
Mi inviasti una lettera dolcissima che le lessi in classe. Alunni e genitori esclamarono: “Hai letto con passione questa lettera di Claudio Endrigo. Si vede che siete amici di vecchia data!”.

Beh, io confermai. Dici che ho esagerato? In fondo, non ci siamo mai conosciuti di persona. Perché “amici di vecchia data”? Perché quando ti hanno scattato questa bella foto con il tuo adorato papà, il mio corteggiava mamma, regalandole le canzoni d’amore di Sergio Endrigo.
E poi vuoi mettere:  tu, graziosa signorinella, andavi a scuola con lo zaino nel viale delll’adolescenza ed io, bambino monello, che puntualmente fregava a mamma la paletta delle pulizie. Diventava l’asta immaginaria di un microfono per cantare Ci vuole un fiore su un balcone alla periferia di Napoli. Il Vesuvio “scostumato” mi mostrava le spalle, il monte Somma.

E poi c’era mamma che, tra una faccenda domestica e l’altra, mi faceva ascoltare le canzoni del tuo papà e mi parlava di lui come uno di famiglia. Una persona perbene, ripeteva. Guardandoti in questa foto di ieri e in quelle di oggi, posso dirti una cosa con franchezza?
Claudia, sei tutta tuo padre. In quella tua autenticità, in quel tuo modo di essere sincera, in quell’entusiasmo appassionato che ti fa affrontare la vita, lontana dallo star-system volgare di questi tempi. Anche allora però volavano i falchi. Sergio Endrigo invece era una meravigliosa colomba, che posava lo sguardo sull’interiorità dell’umanità.

Detesto gli auguri “in saldi”che raccattano consensi sui social network. Per questo biglietto di auguri, condiviso con i miei lettori, ho scelto le pagine del mio blog. Stasera, soffiando le candeline, sentirai in lontananza la voce di quel bimbo stonato che, impugnando l’asta del microfono immaginario, ti dedica: “Ma oggi devo dire che ti voglio bene. Per questo canto e canto te. È stato tanto grande ormai, non sa morire.”

Sono le parole che scrisse il tuo papà. Se torni nel giardino in cui fu scattata questa foto, troverai, incolume dal gelo di gennaio, una rosa che lui piantò per te nel giorno della tua nascita. L’amore di un papà non passa mai di moda perché non appassisce.

Buon compleanno, Claudia.

Greta e Vanessa, oggi ostaggi dell’Italia cinica divisa a metà

Rosario PipoloChe i social network siano la piscina in cui galleggiano le frustrazioni di più della metà degli italiani non è il tender del 2015. E’ qualcosa che ci trasciniamo dietro da diversi anni ed ora, dopo il polverone sulla liberazione di Greta e Vanessa, ne abbiamo la prova.

Per una ristretta minoranza le due giovani lombarde sono cooperanti partite per la Siria insanguinata dalla guerra civile.
Per la maggior parte Greta e Vanessa sono “le due puttanelle padane” che gliel’hanno fatta vedere pure “ai guerriglieri”; che hanno strizzato l’occhio al Jihadismo terroristico; che potevano farlo a casa loro questo “maledetto volontariato”, perché potrebbe esser costato un riscatto di 12 milioni di euro.

E chi tira le pietre a Greta e Vanessa è per lo più il popolo dei social network, che si arroga il diritto di commentare qualsiasi notizia come fosse il più autorevole cronista.
Chi è senza peccato, scagli la prima pietra, anche se vittima di fancazzismo e odioso qualunquismo. Sarebbe da dire che, con tutta la disoccupazione straripante in Italia, ritrovarci più “volontari” risulterebbe più dignitoso anziché proteggere una ciurma di parassiti, che tira le cuoia all’assistenzialismo statale o pratica assenteismo dal posto di lavoro, senza sapere neanche dove sia localizzata Damasco.

E chi tira le pietre a Greta e Vanessa è anche il politico che strumentalizza la “misteriosa faccenda” per la prossima campagna elettorale. E qualche volta – quasi fosse una beffa alla cialtroneria del Belpaese – capita pure che il J’accuse parta dalla stessa classe politica, che tempi addietro, fu trovata con le mani nella marmellata ad inserire tra i rimborsi di lavoro vacanze esotiche, carta igienica e fumetti.

Dopo aver stretto la cinghia per pagare Tarsi e Tasi, vuoi vedere che ogni abitante della Lombardia non sia così generoso da aggiungere 1,20 euro in un anno, il costo di un cappuccino, e contribuire così a saldare l’eventuale riscatto pagato per liberare Greta Ramelli e Vanessa Marzullo?

Prendi l’arte e mettila da parte? No, se c’è Miriam Prato

Rosario PipoloPapà mi ripeteva continuamente: “Prendi l’arte e mettila da parte”. Era il tipico consiglio che si tramandava da genitore in figlio, soprattutto dove vigeva il luogo comune che l’arte non ha mai dato da campare a nessuno. Mentre la maggior parte delle gallerie d’arte piccole ha scelto di trasformarsi in supermercato, pur di sopravvivere ai tempi della feroce crisi, c’è ancora chi si dà all’ascolto di voci artistiche interessanti.

Avevo avuto modo di conoscere ed apprezzare l’arte di Miriam Prato nella galleria piacentina Jelmoni e poi me la sono ritrovata a diverse mostre tra Londra, Milano e Pavia. In un momento in cui i social network deprezzano il valore del nostro tempo libero con un surplus di futilità, mi ha incuriosito dedicarne un po’ del mio a questa estrosa signora di Stradella, sul confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna.

Miriam, vissuta in quella zolla di frontiera tra il pavese e il piacentino, ha un passato da restauratrice di libri antichi. Chi ha fatto di questo mesterie un’arte non può che avere una grande dote, rarissima di questi tempi: l’occhio vigile sul dettaglio della memoria.
In questa traiettoria la Prato sequestra un dettaglio di vecchio libro, finito per sua sfortuna in una soffitta impolverata, e lo riporta alla luce nel perimetro di una bella opera d’arte.

Osservare i suoi lavori è come annusare un libro antico che possiede, nelle vecchie incisioni, i germogli di un campo aratro tra passato e futuro. Se vi mettete a caccia di una vecchia stampa di Durer del XVI secolo – mi riferisco al famigerato Rinoceronte – vi accorgerete che Miriam Prato ha la capacità di riproportelo senza farci perdere l’olfatto autentico.

E’ irresistibile quell’impronta di colori equilibrati, capace di condensare le radici di una biblioteca sulle pareti, in una cornice in cui l’olfatto della visione è direttamente proporzionale all’interpretazione personale e originale della memoria.

Prendere l’arte e metterla da parte? Non ci penso proprio.

Je suis Charlie Hebdo: la libertà di una matita vale quanto quella di una penna

Rosario PipoloC’è un senso di sdegno e sgomento che ci fa sentire improvvisamente tutti francesi. L’attentato alla redazione del giornale satirico d’oltralpe Charlie Hebdo è stato disegnato significativamente in questa splendida vignetta di Philippe Geluck.

Partiamo da una digressione storica. La satira è stata sempre una spina nel fianco in un regime dittatoriale così come in una democrazia. Quando negli anni passati la matita del nostro Forattini fu improvvisamente messa alla gogna dall’editoria italiana per uno sgarro al politicante di turno, il disegnatore romano sottolineò: “La sinistra non accetta la satira quando le è rivolta contro”.

Questo per dire che la satira è pungolo per chiunque, per qualsiasi organizzazione, politica e non. Figuriamoci poi per terroristi ed estremisti.
Nel centro commerciale dei social network, tra gli scaffali delle banalità, ho letto pure di chi insinuava che Charb, il direttore di Charlie Hebdo, aveva calcato la mano e se l’era cercata.

Mettiamo in chiaro che la libertà della matita di un disegnatore vale quanto quella della penna di un giornalista. Se d’altro canto volessimo andare ad intercettare tutti i fiumi di inchiostro omofobi, razzisti e guerrafondai, dovremmo aspettarci “bombaroli” in azione in ogni angolo del mondo.

La libertà di pensiero, messa nera su bianco, non si riduce banalmente ad essere solo un capisaldo di civiltà e democrazia ma è la molla che fa anche della “satira più spietata” il territorio fertile di denucia, attribuendo al perimetro di un foglio bianco lo spazio di una una rivolta senza sciabola ma a matita.

La violenza e l’integralismo si sconfiggono con intelligenza. Meglio stare alla larga dall’imprudenza estremista di Madame Le Pen che vorrebbe, attraverso la pena di morte, riportare la Francia al terrore della ghigliottina, o dalla flemma di Monsieur Hollande che dovrebbe fornire ai francesi spiegazioni su come, in termini di sicurezza, si poteva evitare questa strage.

Le due matite al posto delle torri gemelle di Geluck lasciano spigoli di riflessione a chi come me ha scelto di inserire nel proprio picprofile l’urlo solidale Je suis Charlie, doloroso hashtag su Twitter che ci porteremo appresso nel corso di questo 2015 e orribile sequenza di un film mai girato da Claude Chabrol sul massacro di un gruppo di intellettuali che, con le loro matite e le loro vite, hanno difeso dal bavaglio la storia della satira francese. La strage di Parigi è una cicatrice che la Quinta Repubblica francese non rimarginerà così come sarà per la politica di Hollande, il più flaccido inquilino all’Eliseo. 

Napoli senza Pino Daniele è come il golfo senza il suo Vesuvio

Rosario PipoloOggi non posso che attraversare Spaccanapoli, perché quando nell’81 persino la casa dei miei nonni ai Campi Flegrei tremò per il concerto di Pino Daniele in piazza del Plebiscito, una voce urlò alla finestra: “Quando il cuore di Pino smetterà di battere, tu dovrai essere a Napoli, ccà”.
E così è stato. La profezia si è avverata. Sono qui, nella Napoli “nera a metà”, che nonno Pasquale mi portò a scoprire alla fine degli anni ’70 mentre dai balconi della Bagnoli di allora si udiva la voce del primo Pino Daniele.

A ciascuno una “terra mia”. A me toccò quella alle falde del Vesuvio, dove il blues di Pino Daniele fu tappeto per srotolare dense storie di denuncia attraverso la Napoli appena uscita dal tunnel dello zarismo populista di Achille Lauro.

La mia generazione fu “nera a metà” quando il blues napoletano e il contrappunto melodico del “mascalzone latino” fecero della world music l’apogeo del Mediterraneo; quando le strofe di Pino Daniele trasfigurarono in musica la poesia di Salvatore Di Giacomo e la teatralità del vico di Raffaele Viviani; quando il suo canzoniere ci diede le chiavi dell’inquietudine per raccontare il mondo attraverso gli occhi di Napoli; quando uscimmo sconfitti dalla grande illusione e delusione bassoliniana perché capimmo che i “mille culure” di Napule è… vendemmiavano l’amaro destino della nostra città, abbandonata dagli dei: “Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta.”

E forse ‘a ciorta è toccata a noi napoletani, popolo condannato a vivere tra speranza, dolore e malinconia, perché altrimenti Dio non avrebbe mandato quaggiù lo scugnizzo Pino Daniele, le cui canzoni resteranno l’unico specchio in cui è riflessa l’intimità della nostra storia contemporanea.

E se si avverasse la profezia apocalittica dell’anziana mendicante conosciuta da studente a piazzale Tecchio – “Guagliò, ‘nu juorne Napule schiatterà sotte ‘a lava d’o Vesuvio” – rinasceremo da sotto la lava del vulcano buono grazie a questi versi che faranno da mantra per riacquistare la memoria: “Chi tene ‘o mare ‘o ssaje porta ‘na croce, chi tene ‘o mare ‘o ssaje nun tene niente.”

Oggi contano solo le lacrime di Napoli, perché noi napoletani abbiamo il pregio di essere carnali e fatalisti strafottenti.

Il mio Capodanno 2015 con E.T., l’extraterrestre del futuro

Rosario PipoloNel 1982, qualche mese dopo il trionfo della Nazionale ai Mondiali di Spagna, incontrai E.T., l’extraterrestre che non mi impressionò per la navicella da cui scese, ma per l’aspetto buffo e poetico che lo rese famoso qui sulla terra, al di là della magia del film di Steven Spielberg.
Dopo oltre trent’anni è ritornato per festeggiare il Capodanno insieme a me e a tutti coloro che appartengono alla generazione in cui la fantasia può condizionare in parte le scelte della vita.

Ai tempi E.T. mi propose di aggregarmi alla slitta nostalgica di “Telefono casa” e trasferirmi sul suo pianeta. Ero troppo piccolo allora per fare una scelta così coraggiosa. Oggi sono abbastanza “grande” per rifarmi dell’occasione perduta.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì non esiste la smania di apparire, che ha fatto della cornice dei social network un grande circo con pagliacci volgari che svendono ogni valore, inclusa l’immagine innocente dei propri figli, per cercare di essere ciò che in realtà non sono.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì non c’è alcun codice, alimentato dall’ipocrita subcultura, che regolamenta i legami sulla base delle imposizioni della comunità che vorrebbe schiavizzare scelte e i tempi di tutto, dal passo nuziale a quello di un corteo funebre.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì la bellezza di Dio non è filtrata con tutti quei fronzoli che ci fanno privare dello stupore di chi dovrebbe accostarsi con gli occhi di un bambino.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì il qualunquismo non ha contagiato la politica, quella che da noi è invasa da predicatori di ogni genere, così ciechi da calpestare i presupposti per essere protagonisti in un paese civile.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì non ci sono coni d’ombra a seppellire i tanti genocidi che ogni giorno si alimentano miseramente sotto i nostri occhi; la giustizia è uguale per tutti e i clandestini non vengono imbarcati per poi bruciare come topi.

Il mio Capodanno 2015 con E.T., il buffo extraterrestre che mi fa affacciare alla finestra di questo 2015 con la chiave per aprire la memoria del futuro.