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Addio a Dario Fo, giullare inviato da Dio a teatro

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rosario_pipolo_blog Non nascerà più un altro Dario Fo. Dio ne ha mandato uno in terra e ha scelto di farlo ramificare in Teatro, come una quercia. La vita è fatta di stagionalità, l’esistenza di più vite, di rinascite e mutamenti, evoluzioni e rivoluzioni.

Fo ha sgominato il tempo facendosi maschera; ha scarnificato la letteratura saccheggiando la commedia dell’arte e ricostruendo nel nostro presente le luci e ombre medievali attraverso il “Mistero buffo”, che ci ha fatto guarire dall’alibi disonesto della rassegnazione.

Dario Fo ha celebrato  (San) Francesco come giullare di Dio, noi oggi ne riconosciamo un altro: Fo, giullare di Dio appunto, alla sua maniera di restituire “dignità agli oppressi” o contrastare il Padreterno con delle interrogazioni che hanno reso l’arte del teatro la via paradossale per tentare di capirci qualcosa del mistero della vita.

Da qualche parte sta scritto che “dietro un grande uomo ci sia una grande donna”. Franca Rame  è stata compagna, moglie, confidente, prolungamento del giullare che ha viaggiato nel ‘900 senza subire passivamente gli squilibri degli spostamenti.

Prima di essere Nobel per la Letteratura  è stato legno del palcoscenico da cui germoglia il gramelot e gli stilemi della lingua fatta di mescolanza di dialetti; prima di essere attore e drammaturgo, è stato il sovversivo contro gli atti intimidatori e censori dei poteri forti e occulti della nefasta Prima Repubblica italiana; prima di essere Dario Fo, è stato “Dario e Franca”, quel duo inscindibile che oggi si prenderebbe burla di tutti gli ipocriti che lo piangono.

Mai come stanotte non vorrei essere lontano da Milano, dal corso di Porta Romana in cui ogni sera rincasava e trovava un bocciuolo nelle piantine che gli aveva affidato Franca. Chi ha fatto del teatro una ragione di vita non deve vergognarsi di versare lacrime, perché Dario Fo è stato il faro nel buio che ha smascherato le nostre coscienze, facendoci vedere in quale “merda” mettevamo i piedi.

Negli ultimi ventidue anni della mia vita ho condiviso diversi momenti con lui tra camerini e teatri, chiacchiere che furono schegge di interviste fino all’ultimo brindisi per i 90 anni al Piccolo di Milano, nella penombra del tempietto di Strehler e Grassi.

La prima volta non si scorda mai, in un camerino del teatro Bellini di Napoli, con Franca che si affaccia e bisbiglia: “Dario, Dario, guarda questo giovane napoletano, garbato e preparato, quanto ne sa su di noi”. Dopo l’intervista, si infilano il soprabito, mi prendono sottobraccio e scendiamo insieme le scale del teatro fino all’uscita sul retro.

È un ritaglio della mia vita che ho sempre custodito senza sgualcire  e, nel pieno di questa notte vuota e miseramente silenziosa, ritorna a galla con prepotenza: l’arroganza del memento si porta via con Dario Fo il Teatro che da burattini di legno ci ha trasformato in uomini veri, stessa materia di cui è fatta la coscienza civile.

Viaggio nella New York al femminile

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rosario_pipolo_blogFacendo due conti, l’anno scorso io ritornavo a New York dopo 23 anni ed Elisa Pasino intingeva la penna nel calamaio per cominciare a scrivere la sua guida New York al femminile, edita da Morellini. Che gusto retrò ha questa immagine della penna nel calamaio oggi che abbiamo digitalizzato tutte le dita della mano.

Ci sta bene pensando allo stile di scrittura della Pasino, che sa conservare tatto ed eleganza, in quel suo modo di essere penna e donna di altri tempi. Adocchiando la sua New York al femminile mi vien da scrivere che della noiosa compilazione di una guida turistica non c’è niente.
Anzi c’è quella punta di ricercatezza di chi ti prepara ad un viaggio creando la complicità con il lettore e svelando i piccoli segreti della Grande Mela, che sa come essere donna.

Eppure la femminilità newyorchese non ha niente a che vedere con lucidalabbra, mascara o fondotinta. Ha quel suo modo di manifestarsi in controluce, come conferma il cinema di Woody Allen quando tratteggia la Manhattan delle donne.
Nel mio ritorno autunnale nella Grande Mela avevo rimesso piede da Tiffany con la convinzione che l’essenza femminile di questo posto fosse tutto nella protagonista del romanzo e film che hanno fatto la fortuna del brand.

Il portiere si sentì leggermente imbarazzato quando sbraitai: “Dove è finito il volto gigante di Audrey Hepburn? Quanto siete ingrati nei confronti del sorriso di Holly che ha dato femminilità a questo tempietto sulla Fifth Avenue”.
Speriamo che la Pasino non legga questo ritaglio di viaggio, perché dopotutto lei sa che la femminilità di una città non deve  essere urlata, ma sussurrata con garbo.

Mi annoiano le guide turistiche, mi fanno sbadigliare. Qualche volta accade che un diario di viaggio metta il soprabito di una guida e prenda per mano il lettore. Essere presi per mano di questi tempi? Cosa rara e giusta. Mi è successo tra le pagine di New York al femminile.

Nonni per sempre nella grande festa della vita

festa-nonni-2-ottobreLa mia vita è spaccata a metà. I primi 23 anni sotto la custodia dei miei nonni Pasquale e Lucia, gli ultimi venti senza di loro. Il dolore per la perdita immensa spettinò i miei vent’anni, li scapigliò e mi fece rendere conto che non avrei mai avuto bisogno di una festa dei nonni per ricordarli.

I nonni non si celebrano, si vivono, qualsiasi sia il rendiconto da pagare, anche quello di sovrapporli ai genitori. I parenti sono suppellettili, è legittimo svincolarsi lungo il corso della vita.
I nonni no, soprattutto coloro ai quali abbiamo consegnato la chiave d’accesso alla nostra nascita, infanzia, adolescenza, al nostro divenire uomini. E questo non perché li incoronai nonni  proprio con la mia nascita, all’alba dei loro cinquant’anni.

Non è questione di posizionamento, nonostante le dicerie popolane insistano che il primo nipote sia come “il primo amore”, non si dimentica mai. E’ questione di accoglierli nella propria vita come fari della quotidianità, senza ridurli alla coppia di anziani da andare a trovare qualche domenica a pranzo.

Ho lasciato che i miei nonni ingombrassero la mia vita con amore, saggezza, presenza quotidiana, coinvolgendoli in qualsiasi cosa facessi, senza l’odiosa soggezione che alza muri e barriere. Nonno Pasquale e nonna Lucia mi hanno fatto ricco, lasciandomi una grande eredità: i piccoli e grandi segreti di famiglia, un patrimonio della memoria per affrontare la vita e imparare a distinguere le persone mediocri da quelle altruiste, fatte di sostanza e non di apparenza gonfiabile.

Nonno Pasquale mi donò un’edizione del libro Cuore degli anni ’50, su cui aveva scritto il suo testamento: “Leggo e rileggo questo libro e più mi rendo conto che non tutti gli uomini sono cattivi verso il prossimo. Che Iddio non si dimentichi mai di me”. Dopo la sua scomparsa, nonna Lucia esaudì il mio desiderio di far scolpire queste parole sulla sua lapide.

Non ho bisogno della Festa dei Nonni o dei bagordi di una ricorrenza per fingere di essere stato un nipote premuroso. Loro restano sostanza del mio divenire e il vuoto vissuto per la loro perdita di allora si è trasformato nel dondolio di memorie e futuro. Ci ritroveremo un giorno, come se niente ci avesse mai separato, nella soffitta dell’eternità.

Cartolina dalla Corea del Sud

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Rosario PipoloNel profondo Sud del Giappone la tentazione è forte e legittima. Tre ore meravigliose di navigazione per arrivare a Busan, la seconda città più grande della Corea del Sud. Meno di due giorni non sono niente per scoprire un posto nuovo, ma bastano per capire i coreani di che pasta sono fatti: accoglienti e chiassosi come noi gente del Sud Italia. Persino quando non parlottano l’inglese, sanno come farsi capire per aiutarti.

Ho smantellato il pregiudizio di tanti che reputano Busan una tappa inutile, città troppo grande secondo alcuni. Busan è fatta di piccoli mondi, raccolti nei quartieri che mi hanno fatto ritrovare Napoli. Dopo una manciata d’ore dall’arrivo mi sento già a casa. Uno studente mi aiuta a trovare l’alloggio e di sera vago nella zona del mercato del pesce come se la conoscessi da sempre.
Niente guida, niente cartine. Tra le bancarelle dello street food ritrovo socialità e voglia di stare insieme, quelle che noi abbiamo svenduto ai social. Quanto vale una strizzata di messaggi su Whatsapp rispetto ad una lunga chiacchierata per strada?

Vale meno della voglia di stare con gli altri e condividere pezzetti di vita. Jeewon è una studentessa, conosce l’inglese, mi dà le dovute indicazioni per non perdermi in metropolitana. Percorriamo un tratto di strada insieme, ci raccontiamo e apprezza questa mia aria da vagabondo che vuole respirare l’Oriente senza i filtri del turista.
Poi la lunga scarpinata in montagna, incantato dalla spiritualità del Tempio di Beomosa. Poco lontano da lì fruscio di ruscelli  e famiglie coreane assiepate per una gita fuori porta estiva.

Il mondo è piccolo. Cosa ci fa Procida in Corea del Sud? Il Gamcheon è un villaggio nella parte alta, nucleo della vecchia Busan tra chioschetti, case dipinte, bucato steso, vicoli stretti. Mi sembra di essere tornato nell’isola campana in cui Elsa Morante narrò le vicende letterarie di Arturo. Su e giù per le stradine e poi mi al tramonto mi spingo nella Busan balneare.

L’atmosfera mi riporta alle estati cilentane della mia infanzia,  la musica, i bagnanti, anche se poi il paesaggio evoca Alicante in Spagna, tana di una vacanza dei miei vent’anni. Mangiucchio pesce fritto nel “coppetiello” – sarò mica passato per Napoli? – poi mi siedo sui gradini che fronteggiano la spiaggia. Il sole è sparito, è sbucata la luna, il mare è orientale, davanti a me un paio di musicisti da strada sulla sabbia che dedicano canzoni a tutti noi, come per dire restate qui e raccontateci di voi.

Prima di risalire sulla nave che mi riporterà in Giappone, faccio amicizia con la piccola Jiyu. La mamma ci fa da  interprete. Le improvviso un buffo disegno e lei apprezza. La bimba coreana mi chiede: “Tu in Italia ce l’hai una casa?”. Io senza esitare replico: “No, non ho una casa. Ogni incontro che faccio nei miei viaggi mette un nuovo mattoncino alla mia casa in costruzione. Grazie Jiyu, il tuo mattoncino la renderà amcora più bella e confortevole”.

Jiyu e la mamma scendono a Fukuoka, in Giappone, trascorerranno le vacanze lì. La bimba mi saluta e mi avverte che vuole essere avvisata quando la casa sarà pronta. La Corea del Sud è dall’altra parte del mare, non la vedo più, scompare dentro il sorriso di Jiyu e gli occhiali di Jeewon.
A Busan ho lasciato un pezzo della mia essenza di uomo del Sud, distante dal meridionalismo che ti vuole per sempre nello stesso posto. A Busan ho lasciato la mia voglia di sentirmi uomo del Sud, in qualsiasi angolo del mondo.

Cartolina da Hiroshima: la bomba del 6 fa ancora un gran male

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Rosario PipoloArrivo all’alba, Hiroshima è semideserta. C’è una leggera frescura, atipica vista l’infernale afa giapponese. Mi torna in mente un ritaglio seppiato della memoria su un banco di scuola alla periferia di Napoli.
Avrò avuto otto anni quando la maestra mi mostrò la foto con il fungo gigante dell’atomica. Alcuni mesi dopo, nel giorno dell’Epifania, i miei mi regalarono il primo mappamondo. Puntai il dito sul Giappone, nella direzione della città nipponica rasa al suolo dall’atomica il 6 agosto 1945.

Ho mantenuto la promessa fatta a me stesso, perchè non era un capriccio infantile. Non ho mai cercato foto della nuova Hiroshima, neanche quando Internet me lo permetteva. Nell’angolo del mio immaginario vi avevo lasciato quel paio di scatti di repertorio in bianco e nero che hanno fatto il giro del mondo.

Il silenzio del Parco della Memoria a prima mattina – le lancette del mio orologio segnano le 7 in punto – ti lascia un tremolio interiore. I miei viaggi tra le tombe dell’orrore di Auschwitz e Sarajevo avevano lacerato il cuore dei miei 30 anni, ma Hiroshima è penetrata nell’anima, a piccole dosi e ha trafitto i miei 40.
Nel Ground Zero nipponico si aggirano angeli dalle ali spezzate: non li vedi, ma li senti ovunque, come se fossero confinati qui. Le facce le intravedi all’interno del museo in contrasto con quelle delle rappresentanze americane in visita per sbiancarsi la coscienza. Uno dei falli della presidenza di Barack Obama è stato non aver formalizzato le scuse per questo genocidio.

La stanchezza del viaggio mi assale. Mi stendo sull’erba e provo a socchiudere gli occhi. Sotto le guance sento l’erba bagnata. Altro che rimasugli dell’umidità notturna, sono le mie lacrime che irrigano il Parco di Hiroshima. Nel frattempo sta calando il sole.
Prima di ripartire dal Giappone, mi sono accorto di aver peso il giubotto, compagno d’avventure in migliaia di chilometri di viaggi. Mi hanno detto che lo hanno visto volare sul Parco della Memoria di Hiroshima perchè ora quel giubotto riveste gli spicchi d’anima che ho lasciato lì.

La bomba del 6 fa ancora troppo male.

Cartolina da Kyoto: lettera sussurrata a Mamechika, una vera Geisha

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rosario_pipolo_blogSono le 8 di sera e il sole è calato da un pezzo. Sono in questa viuzza di Kyoto, città custode della memoria del vecchio Giappone. Ti aspettavo, sapevo che saresti passata prima o poi. I turisti ficcanaso sono dall’altra parte e ti cercano solo per rubare uno scatto e fare gli spavaldi al ritorno, come se poi tu fossi un souvenir.

Io, no. Sono qui per condividere con te un pezzo di questo mio viaggio frastagliato, tra memorie orientali e futuro, tra spiritualità e ricerca di me stesso, tra imprevisti e vagabondaggi che elogiano il tempo dell’interiorità.
Rallenta il passo, cara Mamechika, ti resto accanto così posso sussurrartelo in inglese: i pregiudizi di noi occidentali sono maschere di cemento sul muro delle nostre coscienze. La maschera di trucco bianco, che incarta il viso da geisha, è invece il velo che protegge la tua essenza, ricomponendo la tua radice che ti  riconduce alle origini della vita, il teatro e danza nella mescita che strappa l’eternità all’esistenza terrena.

Nessuno può conoscerti meglio di te stessa, neanche gli occidentali illusi dalle parole di carta di Memorie di una geisha, o gli americani che, per sbiancarsi la coscienza dall’orrore dell’atomica, ti misero ai piedi i geta di una prostituta.
Sei troppo giovane per ricordare, i tuoi vent’anni raccolgono le foglie sparse dal vento e allontanano rancori stantii, perché le bombe della storia fanno ancora un gran male, quanto dolore taciuto, quante lacrime sommerse.

Ho raccolto per te questo fiore in cima al tempio di Otowasan Kiyomizudera. Che fai rincasi senza neanche un cenno di saluto? (Mamechika sorride) Te lo lascio qui sull’uscio di casa. Stai tranquilla, non dirò a nessuno dove abiti.
In questi pochi minuti di passeggiata insieme al chiaro di luna abbiamo sfilacciato qualcosa sepolto dentro di noi, in bilico tra la mia sfrontatezza logorroica e la tua compostezza taciturna.

Nel caso non fossi Mamechika, prima che spunti l’alba a Kyoto, il profumo d’Oriente di questi petali scriverà il nome con cui ti battezzoJunko 笋子, che in giapponese vuol dire piccolo germoglio.

Cara Amatrice, mi fa tremendamente orrore…

disegnorosario_pipolo_blogMi fa tremendamente orrore tornare dal Giappone, un Paese che fatto della prevenzione un cardine della sua civiltà, e trovarmi nell’Italia ferita dal terremoto micidiale di Amatrice.

Mi fa tremendamente orrore osservare ai funerali di Stato le stesse facce provenienti dalle fila delle istituzioni che hanno consentito, sottobanco, che si speculasse sulla vita della gente.

Mi fa tremendamente orrore riprendere la vita di tutti i giorni nell’Italia fatta da sciacalli che costruiscono case e scuole di cartone, senza vergogna, in una penisola sismica come la nostra.

Mi fa tremendamente orrore appoggiare gli occhi su queste bare, riascoltando il playback dei medesimi sermoni che le istituzioni hanno tirato fuori dopo i recenti terremoti di L’Aquila e Finale Emilia.

Mi fa tremendamente orrore pensare di appartenere a questa Italia che, senza un minimo di vergogna (dimenticavo che anche quest’ultima stata barattata tra le fila dei corrotti), si è disfatta del ricordo degli angeli di Umbria e Marche del sisma del ’97 o dei bimbi dello sfacelo di San Giuliano di Puglia, in Molise, del 2002.

Mi fa tremendamente orrore vederli sfilare con gli elmetti e quell’aria spavalda da campagna elettorale, perché questo Paese non ha più bisogno del cliché del presidente operaio e dei suoi simili.

Mi fa tremendamente orrore pensare che ci saranno altri sismi di questa portata e noi saremo impreparati, perché abbiamo permesso a miserabili assassini di più generazioni politiche di sperperare il nostro denaro pubblico.

L’estate di nonna Luigina, “mondina” centenaria tra gli angeli sopra Valduggia

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rosario_pipolo_blogMi era piaciuta fin dal primo momento l’idea di farmi adottare da una bisnonna di 101 anni, per giunta invecchiata tra le risaie del vercellese, in quella zolla di Piemonte che tratteggia tanti miei vagabondaggi a corto raggio.
Mi era piaciuta l’idea di poter raccontare una bresciana, adottata dalla piccola comunità di Valduggia, che aveva attraversato il ‘900 ed era stata mondina nelle risaie, proprio come Silvana Mangano nel film di Riso amaro.

Nonna Luigina era entusiasta di questa visita insolita di un ospite che non le era apparso come un curioso ficcanaso, ma come il giornalista pronto a fare quattro chiacchiere per poter tirar fuori un ritratto e raccogliere spunti di riflessione.
Di questi tempi poi, in cui la centrifuga della vita tritura la lentezza necessaria a farci ricchi con la saggezza degli anziani, questi sono spicchi di vita meritevoli di essere raccontati e condivisi.

Nonna Luigina – aveva già prenotato il parrucchiere in vista del mio arrivo – aveva saputo che era una buona forchetta e, non potendo venire al ristorante, si sarebbe presa la briga di invitare a casa sua uno chef tutto per me, che avrebbe cucinato per il lieto evento. La situazione mi commuoveva al solo pensiero, perché avrei ritrovato una “nonna” che si sarebbe preoccupata per me.

In due occasioni, tra fine maggio e giugno scorso, sono stato costretto a rinviare a causa del maltempo, che tra piogge e temporali ha trasformato il nostro territorio di frontiera in una landa tropicale. Sapevo che la bisnonna di Valduggia mi avrebbe aspettato, anche se alla veneranda età della “mondina centenaria” basta un soffio di vento a scompigliare tutto.

Qualche settimana fa non hanno avuto il coraggio di dirmi che non avrei potuto intervistarla più. Alla trisnipotina Ginevra, la piccola che le sorride accanto in questa foto di compleanno, hanno spiegato che ora nonna Luigina è diventata un folletto o forse una fata.

Io sono un po’ all’antica e credo ancora negli angeli. Un giorno se dovessi finire all’Inferno, avrò un buon motivo per farmi spedire in trasferta temporanea in Paradiso e ritrovare così nonna Luigina per intervistarla.
Fino ad allora però non potrò far altro che ringraziare “la mondina centenaria di Valduggia” per avermi fatto sentire di nuovo nipote, nel tempo scandito dalla solitudine cronica che allunga le distanze nei legami.

Benvenuta Eleonora Maria, che mi fai zio alla vigilia del compleanno

zio_nipotinaRosario PipoloQuando 40 anni fa mi svegliarono all’alba di una domenica d’autunno per portarmi alla clinica dov’era nata tua mamma, ero convinto di selezionarla attraverso la vetrata del nido. Chi mi aveva messo in testa che le sorelle si sceglievano come al supermercato?

In questi nove mesi, cara Eleonora Maria, ti ho aspettata in un trepidante silenzio, perché la volgarità e il chiasso di questo tempo mi hanno fatto rivalutare l’eloquenza della riservatezza. Si tratta di preservare fasi importanti della vita dalla dilagante estraneità appartenente ai tanti invasori del nido di intimità, che per fortuna culla, a nostra insaputa, la voglia legittima e continua di cambiamento.

Quarant’anni dopo lo sbarco dalla luna di tua mamma, che cambiò la rotta della mia crescita per scipparmi alla tristezza di restare figlio unico, arrivi tu dalla medesima luna, restituendo alla mia esistenza un ponte tra passato e futuro. Ad una manciata di ore dal mio compleanno, ci legano come un filo di spago teso lo stesso segno zodiacale e i rimandi dei nostri nomi alla ragazza madre di un grande profeta dell’umanità.

C’è chi fa lo zio per passatempo, chi per legame di sangue, chi per un ruolo sociale, chi per dovere morale. Io non riuscirò ad esserlo per nessuno di questi motivi. Da viaggiatore della vita, infilato nei panni del Corto Maltese della matita di Hugo Pratt, sono scappato dalla tribù e dai regimi sociali della famiglia, schivando l’altalena del vivere per apparire, per dare un senso ai legami costruiti strada facendo.
Io e te, Eleonora Maria, saremo fatti dello stesso impasto dei sogni della vita che condivideremo. Non sarò un compagno di viaggio noioso che vuole dare insegnamenti. Le lezioni della vita le ho cercate e ricercate, ho disobbedito alla scolastica dell’eredità, ho difeso a denti stretti la libertà individuale, perchè senza di essa non ci può essere libertà collettiva.

Eleonora Maria, difendila la tua libertà di esistere, a modo tuo, anche se un cantautore non riuscirà a scriverti una canzone, un regista a dedicarti un film, uno scrittore a farti giocare a nascondino in un romanzo, un pittore a farti specchiare su una tela.
Sii te stessa quando ti accorgerai di avere un paio d’ali per attraversare in volo la vita, senza perdere di vista i piccoli dettagli, perché sono proprio quelli a far della felicità il sottile equilibrio tra crescita e mutamento dell’anima. 

La tua bellezza abbaglia di luce questo nuovo giorno e tu sei il regalo di compleanno più bello della mia vita. Grazie per aver aspettato che mi staccassi dal PC  e dalla scrivania per vederti, alle 19.05 in punto, venire alla luce. Che sbadato, non mi sono presentato. Mi chiamo Rosario, sono tuo zio.

Buon viaggio nella vita, Eleonora Maria.

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Musica nigeriana a palla contro il razzismo che ha ucciso Emmanuel Chidi Namdi

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Rosario PipoloOggi dall’archivio posso tirar fuori con orgoglio tutti i vinili del nigeriano William Onyeabor. Mi importerà poco della vicina di casa, che si lamenterà della musica a palla per il bimbo che fa la nanna. Sveglieremo il piccolo con questo funky graffiante che viene dall’Africa, per raccontargli dell’Italia razzista, dopo la morte senza scrupoli del giovane Emmanuel Chidi Namdi.

Un ritaglio di cronaca da film dell’orrore che ha indignato la comunità di Fermo, nelle Marche, dove Emmanuel era arrivato insieme alla sua ragazza per fuggire dal terrorismo di Boko Haram. Il trentenne nigeriano è stato ucciso dopo aver difeso la fidanzata da  atti di razzismo. E adesso cosa si fa? Affonderemo la rabbia nella vendetta e nel linciaggio dell’ultrà marchigiano che si è macchiato di sangue?

La giustizia avrà da fare il suo dovere, ma noi dovremmo cominciare ad interrogarci seriamente su quanto le insidie del razzismo si siano infiltrate nei piccoli centri dell’Italietta di provincia. Sono come esplosivi che possono fare danni da un momento all’altro, rompendo gli equilibri di qualsiasi comunità che difende con gli artigli i propri diritti, senza però rinnegare i propri doveri.
Torniamo ad essere razzisti tutti, senza distinzione, ogni qual volta per strada abbassiamo gli occhi di fronte a gesti che minano la sicurezza di chi è arrivato nel nostro Paese, senza più niente alle spalle, solo dolore, ma con il diritto sacrosanto di stringere forte un sogno futuro.

Sembra di essere tornati negli USA degli anni ’60, culla primogenita della segregazione razziale. Quando sono ripartito da Memphis l’anno scorso, mi sono riportato l’urlo I have a dream di Martin Luther King, che l’episodio delle Marche seppellisce sotto il letame.
Oggi torna a suonare William Onyeabor, graffia con il tuo funky ribelle e nigeriano i solchi del mio vinile. L’indignazione passa, l’indifferenza resta.