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Archives 2017

La grande lezione di Nick Cave, esploratore sofisticato di dolore e sofferenza

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che dolore e sofferenza sono un cosa seria e possono starci, senza pregiudizi, in un gomitolo di canzoni. La musica è specchio della nostra vita, delle notre scelte, di fallimenti e vittorie e i gusti personali ne sono latitanza da ciò che non ci appartiene, o meglio da ciò che ci illudiamo non ci tocchi.

Quando ero ragazzo Nick Cave & i Bad Seeds erano roba da “Dark”, quei ragazzetti vestiti di nero da cui negli oratori di perferia dicevano di stare alla larga.
Lì non ascoltavano il gospel ma il Gen Rosso, la band cattolica nata prima delle turbolenze sessantottine, il cui canzoniere era diametralmente opposto a quei “brutti ceffi vestiti di nero”.

Nick Cave ci ha ricordato, durante l’ultimo meraviglioso concerto di Milano, che dolore e sofferenza non hanno né colore politico né religioso perché appartengono all’esistenza umana. Nick aveva capito che per esplorarli non bastavano più la rabbia del rock o l’idiosincrasia del punk.
Un stupratore, un condannato a morte o un assassino non vanno raccontati più tra bagni di sangue splatter, piuttosto visti dal di dentro con l’occhio dell’anima del poeta.

Osservare Nick Cave per oltre due ore avvolto tra il suo pubblico, nella continua ricerca del contatto che riscrive lo psicodramma collettivo e misura gli stati d’animo sulla falsariga di un ritiro spirituale nella fuga dalla porta del tempo, ci convince che la poesia contemporanea giace nella parola che si fa performance, nella teatralità che scuote la musica.

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che i poeti sono sul cammino di noi mutilati dalla merda spalata dalla globalizzazione.

C’è sempre dolore intorno. Questa è una cosa su cui puoi giurare nella vita: ci sarà sempre un eccesso di dolore. (Nick Cave)

Quelli che cercano già il Natale nelle vetrine senza godersi “il tragitto della vita”

Da viaggiatore in giro per il mondo ho imparato che il tragitto è il punto focale di ogni spostamento, più della destinazione o delle tappe intermedie. Lo stesso vale anche nel viaggio della vita, dove ormai è sempre più frenetica la rincorsa con affanno verso la meta, la tappa intermedia, perdendo di  vista il dono prezioso dell’esistenza: la quotidianità.

Non sanno quanto si perdono coloro che ficcano già il naso nella vetrina alla ricerca del Natale, hanno l’aria di chi al rientro dalle ferie estive declama con aria afflitta: “Non ci resta che aspettare le festività natalizie”.

I calendari hanno denigrato la nostra vita. Ognuno ha il suo. Il mio barbiere storico, alla periferia di Napoli, vive tenendo a portata di mano quello delle partite del Napoli e credo che il figlio conosca le date a memoria. Una volta gli ho chiesto: “Quando è stata l’ultima volta che ti sei steso su un prato insieme a tuo figlio per osservare il passeggio delle nuvole?”. Pensavo mi ridesse in faccia, invece ha risposto sottovoce: “Non l’ho mai fatto”.

Nel “banale” passeggio delle nuvole c’è molto di ciò che ci è sfuggito di mano: il tempo di vivere non è agganciato ai nostri calcoli mediocri. Quando perdiamo una persona cara, ad esempio, ce ne rendiamo conto ma poi torniamo ad affannarci per rincorrere la meta.

La vita è fatta di quotidianità, la quotidianità è fatta di attimi, gli attimi sono fatti di minuscoli istanti. Gli istanti erano fatti dal primo bacio o dal fidanzamento perduto per correre a passo spedito verso il matrimonio; gli istanti erano fatti dal pianto di nostro figlio nella culla o dalle notti insonni e non dalla smania di vederlo crescere in fretta per farlo diventare un campione; gli istanti erano fatti dalla premura di nostra madre nel mettere un piatto caldo a tavola e non dal conto alla rovescia sul calendario della maggior età per andare a vivere da soli.

Tornando a coloro che hanno ficcato già la testa come gli struzzi sotto le luci artificiali del Natale che verrà, mi sembra di ritrovare gli abitudinari che fanno delle chiacchiere alla macchinetta del caffè la scorciatoia per vivere la nullità, saltellando da una tappa intermedia ad un’altra.

L’orizzonte perduto l’ho sempre ritrovato nel tragitto e non nella meta. Speriamo che il prossimo Natale non arrivi mai, ho ancora milioni e milioni di istanti da vivere ed accorciare così le distanze dall’esistenza.

 

Se si potesse dare in elemosina tutto il tempo sciupato, moltissimi mendicanti sarebbero ricchi.
(Carmen Sylva)

Da “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” a “Ya Pihi Irakema”

La generazione dei miei genitori, sposata all’alba degli anni ’70, fu benedetta da questa citazione di Erich Segal: “Amare significa non dover dire mai mi dispiace”. In realtà non era una frasetta accartocciata nei Baci Perugina, ma una battuta cruciale del cult movie Love Story che spopolò al cinema con Ryan ‘O Neal e Ali MacGraw, diventando un bestseller negli scaffali delle librerie.

DIVORZI – Quella generazione fu travolta da un incremento pauroso dei divorzi – secondo l’Istat in Italia si passò dai 12 mila del 1980 ai 28 mila del 1990 – ritrovandosi disillusa con una “frase del cacchio” tra le mani. Forse più che rincorrersi nella New York che faceva da sfondo al popolare melodrammone, le coppie di allora si sarebbero dovute accalcare al confine tra Venezuela e Brasile, dove vive il gruppo indigeno degli Yanomamo.

CONTAMINAZIONI – Per le coppie di oggi sarebbe più facile sguazzare nel Rio delle Amazzoni e sentire tra gli alberi un vocio che declama “Ya Pihi Irakema” e che letteralmente significa “Sono stato contaminato da te”. Per farla breve, questo è il modo degli indigeni per dire il nostro occidentale “Ti amo”, sgualcito e maltrattato dalla nostra superbia progressista.

NOI – In realtà, se ci pensiamo bene, non ci lasciamo mai sedurre dalla “contaminazione dell’altro”, ma finiamo con l’accontentarci della “mescolanza”. Non è la stessa cosa. Quando ci mescoliamo finiamo sempre per vivere l’altro nella prigionia di una corazza blindata. La contaminazione ci fa ritrovare l’infinita bellezza del contagio, della crescita e dell’evoluzione dell’io nell’altro, che poi fa maturare il “noi”.

SAGGEZZA INDIGENA – “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” è stato l’epitaffio di quella generazione che dal “Ti amo” da fidanzati è passata al “Figlio mio, lascia perdere tua mamma che non capisce un cazzo!” da sposati.
“Ya Pihi Irakema”, perla della saggezza indigena, è la speranza ed è un lusso che dovremmo concederci nell’arte di amare.

 

Una parte di te è entrata in me, dove vive e cresce. (David Servan-Schreiber)

Cartolina da Pesaro: Tutto merito di una piadina?

Il giorno del diploma Daniela cominciò ad aiutare la mamma nella storica piadineria in un angolo del mercato delle erbe di Pesaro. L’Antica Piada è stata per 35 lunghi anni un punto di ritrovo per tanti marchigiani, ma anche per chi come noi ci passava soltanto.
Nel 2000 ero nella giuria giovane di CinemAvvenire al Festival del Cinema di Pesaro e in questo posto ci capitavo tutti i giorni con gli amici e colleghi di gioventù. Tra le proiezioni mattutine e quelle pomeridiane avevamo il tempo serrato, ma Daniela e la mamma erano capaci di farci sentire a casa nostra con la semplicità di quei sapori.

Esserci tornato dopo diciassette anni non è stato per me un flashback inzuppato di nostalgia – i sapori trainano sempre ricordi oltre il palato – ma l’occasione per riappropriarmi di una lucida consapevolezza: chi si mette sulle orme della propria memoria non resterà mai solo perché vi troverà qualcuno con cui spartire questa ricerca.
Oggi c’è stato chi come me è tornato testardamente in questa piadineria marchigiana. luogo che fagocitò onesti legami d’amicizia. Appartengo alla generazione in cui le relazioni umane si misuravano con il vissuto, senza engagement o mi piace. Nel lungo periodo di vita a Milano mi sono portato dietro l’abbraccio e gli incoraggiamenti di Enrico alla stazione di Padova, alla vigilia del mio trasloco definitivo.

Oggo ho ritrovato Enrico in questa piadineria non per una fortuita coincidenza. Entrambi ci siamo messi in sordina alla ricerca di un angolo della nostra vita con la consapevolezza che la memoria semina lucidità del vissuto, la riconoscenza verso la vita ci protegge dal tempo tiranno che ci vorrebbe alieni al magma delle nostre origini.
Enrico e io ci siamo ritrovati in questo luogo, perchè abbiamo fatto dei nostri quarant’anni l’osservatorio per raccogliere ciò che ci ha fatto uomini veri: rimanere noi stessi.

A fine mese Daniela e sua madre abbasseranno la saracinesca dell’Antica Piada di Pesaro. Finisce un’epoca per chi ha vissuto questo luogo magico del marchigiano. Nella farina, acqua, olio e sale, gli ingredienti che hanno fatto di questo impasto il nutrimento di tanti di noi, ho ritrovato una notte sulla laguna di Venezia: io e il mio amico Luca, oggi autore televisivo, ad impastare il testo e la scaletta per un collegamento tv fino a tardi.

Luca mi fece notare che quando si facevano sostituzioni nel testo, bisognava sempre lasciare traccia del passaggio precedente, senza cancellare niente, sarebbe potuto tornare utile. Enrico ci raggiunse e ci ritrovammo come al solito a goderci il plenilunio in laguna.
Quella notte io, Enrico e Luca, poco più che ventenni, diventammo improvvisamente grandi: non si cancella nulla per ritrovarsi.

Il futuro ci avrebbe dato ragione e non per merito solo di una piadina.

 

La memoria di ciascun uomo è la sua letteratura privata. (Aldous Huxley)

Lettera a un tibetano

Da bambino avevo messo il Tibet nel mio giro del mondo dopo aver visto con mia madre un vecchio film in bianco e nero che davano in televisione.
Mi ero convinto che Dio – nella mia immaginazione un gigante barbuto – utilizzasse la tua terra come divano per sedersi, fumare un buon sigaro e guardarci tutti.

Sul mappamondo in regalo mi rendevo conto che il Tibet era lontano, troppo, tanto che non sarebbe bastato rompere il salvadanaio né chissà quanti stupendi da operaio di mio padre che lavorava nella società nazionale dell’elettricità.
Non avrei immaginato che un giorno ce l’avrei fatta, ma con una tassazione da versare a cui in confronto il denaro è carta straccia: nascondere con sofferenza la propria identità.

Giornalisti e diplomatici sono bannati. Nascere in un Paese come il mio, che ti lascia fare della libertà di pensiero e d’espressione il ramo congiunto della tua crescita, ti serve quando ti guardi intorno e vedi chenon tutti hanno avuto le stesse tue chance.

Sono europeo, occidentale, di matrice religiosa cristiana e non sono di certo arrivato a Lhasa per fare il turista impiccione quanto per guardare diritto negli occhi ciascuno di voi. C’è chi si sente esploratore con l’immaginazione, chi con un libro, chi come me dentro il viaggio.
Girovagando nel mercato di Lhasa fai due conti e cerchi di far capire a chi ti sta di fronte che “gli europei non sono polli da spennare” perché c’è chi è arrivato sotterrando i propri risparmi per far fiorire un albero.

Vedevo con i miei occhi quell’albero trasformarsi in quercia quando salivo ogni gradino del palazzo del Dalai Lama,  quando fuggiasco nei monasteri ero alla ricerca di monaci con cui barattare lo stress inutile di noi occidentali con spiritualità e saggezza.
Nel rallentamento dei movimenti e sfinimento per l’altitudine ho ritrovato quella forza di non voltarmi indietro più, guardando nella direzione del gigante barbuto che domina il tuo Tibet.

Da bambino pensavo che per vedere Dio bisognava morire, invece ne ho un trovato un poco in ciascuno di voi tibetani. Quando il treno ha ripreso il viaggio e tu sei scomparso dietro il finestrino, mi è sembrato di risvegliarmi.  In realtà mi ero appisolato e ci ho messo un po’ per avere la certezza che una parte di me è rimasta lì.

Grazie, Tenzin.

 

Ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Ora sono saggio e voglio cambiare me stesso. (Dalai Lama)

Diario di viaggio: in treno verso il Tibet

In fila alla stazione di X’ian siamo centinaia e centinaia di persone. Ci aspettano 32 ore di treno fino a Lhasa, ma in compenso saliremo sul “tetto del mondo”, il punto più alto della terra riservato ad una linea ferroviara.

VERSO IL TIBET
Il Tibet è ancora lontano e i controlli sono incalzanti. Per chi non è cinese, ci vuole un permesso speciale per mettervi piede, oltre il Visto naturalmente, che si può ottenere soltanto se si fa parte di un gruppo turistico organizzato in loco.
Passo da una carrozza all’altra, mi guardo intorno, sono l’unico europeo, ho gli occhi puntati addosso. Mi aspetta un viaggio faticoso: lo stomaco non ne vuole più saperne di cibo asiatico; le condizioni dei servizi igienici sono davvero pessime; l’odioso rumore dei cinesi che sorseggiano té dal termos; l’odore irritante di quei contenitori di cibo d’asporto.

COMPAGNI DI VIAGGIO
A condividere con me i 2.800 chilometri c’è una famiglia di Xian. Lui è appassionato di foto e, tra uno scatto e l’altro, mi fa da spalla a far la sentinella al finestrino. Insieme alla moglie parla qualche parola d’inglese; la figlia è una graziosa liceale che sembra scappata da un manga giapponese.
Man mano che saliamo di altitudine la stanchezza si fa sentire tanto che a tratti mi attacco a un respiratore per prendere una boccata d’ossigeno.

LA NONNA TIBETANA
La profonda bellezza dei suoi ottant’anni è avvolta dal fascio di luce proveniente dal finestrino. Sulla pelle rugosa dell’anziana tibetana che mi sta di fronte è mappata la storia di un Paese, che a modo suo ha contrastato il regime e i soprusi di Pechino.
I nostri sguardi si incrociano e lei si rende conto che, imbranato come sono con quelle maledette bacchette, il mio pasto non lo comincerò mai. Mi offre un pugno di mandorle e mi sorride. In lei rivedo le vecchie contadine del mio Sud Italia, immobili nei ricordi dell’infanzia con papà che mi portava nelle  masserie a spiluccare memoria e antichità, spalmate sul pane e zucchero offertomi nelle contrade.

LE SPALLE DI DIO ALL’ALBA
Crollo dal sonno. Al risveglio, stropicciando gli occhi, mi accorgo di essere in Tibet. La Cina è lontana. L’alba scontorna l’altopiano, viaggio sul “tetto del mondo”, chi lo avrebbe mai detto. Le riconosco quelle montagne tibetane, sono le spalle del Padreterno. Non sono né in cielo né in terra, sono sospeso a metà nell’unico punto della Terra in cui si può salire sulle spalle di Dio.
Mi torna in mente il film visto con mia madre negli anni dell’infanzia, Orizzonte perduto di Frank Capra, e la promessa che un giorno sarei venuto da queste parti come un esploratore.

Lhasa non è poi così lontana. Mi sembra un sogno. C’era una volta il Tibet, quello che ho vissuto.

 

Se vogliamo costruire la pace nel mondo, costruiamola in primo luogo dentro ciascuno di noi. (Dalai Lama)

Cartolina da Xian: al di là della Via della Seta

All’alba alla stazione di Xi’an sembra mezzogiorno. C’è un via vai di gente spropositato per quell’ora. Nessuno che sputi una cicca d’inglese. Riesco a trovare il bus del servizio urbano per uscire fuori dal centro dall’ex capitale della Cina.
La bigliettaia va avanti e indietro per fare la questua e darci un tagliandino che corrisponde al titolo di viaggio. Sembra essere tornati nell’Italia del dopoguerra, in un fotogramma di un film del Neorealismo.

TERRACOTTA
Si comunica con i gesti e, per fortuna, c’è una parola italiana comprensibile ai cinesi che mi porta a destinazione: Terracotta. Sul bus  c’è gente che scende nei paesini limitrofi per cominciare un’altra giornata di lavoro. Gli sguardi sono puntati su di me, sono l’unico a non avere gli occhi a mandorla. La bigliettaia va a colpo sicuro, mi fa segno di scendere perché ha capito che sono diretto all’esercito di Terracotta.
La gente fa una lunga fila ed è pronta a sborsare la cifra spropositata di  200 RMB (25 euro) per vedere da vicino quello che per me resta una delle meraviglie del mondo.

GLORIA IMPERIALE E PROFITTI
Il primo imperatore cinese Qin Shi Huang non avrebbe immaginato di certo che l’armata di terracotta, fatta costruire su misura per difendersi nell’adilà, sarebbe diventata più di duemila anni dopo una piccola miniera d’oro del turismo.
Nel 1974 un contadino della zona scovò i primi resti di questa meraviglia archeologica, destinata a dispiegarsi in undici file lungo duecento metri.
Oggi questi arcieri e fanti rappresentano la gloria imperiale cinese, abbagliano il viaggiatore e restano l’orgoglio del governo che li usa come messaggeri della nuova frontiera economica dell’Asia.

LANGUORI DA EX CAPITALE
Mi perdo per le vie di Xian e avverto il languorino da ex capitale nel perimetro delle mura cittadine che fortificano il percorso.

C’è chi fa una passeggiata spensierata, c’è chi come me si incammina per osservare dall’alto la città, scorrendo quelle zone fatiscenti che il turista strabico non nota e allungando l’occhio fino all’imperdibile quartiere musulmano.
Quando il sole si spegne, si accendono, tra le mura cittadine, le luci dello spettacolo all’aperto che riesuma vecchie glorie, evoca melodrammi in costumi sfarzeschi come se la colonna sonora facesse del regime comunista di oggi lo spettro burattinaio dei tempi andati.

CHI SI ACCONTENTA, NON GODE
C’è chi si accontenta di un plenilunio, io no. Tiro fuori dal passaporto il permesso speciale che mi ricorda la prossima tappa di questo viaggio complicato e incredibile: il Tibet. Non sono pronto del tutto, mi sembra irreale. Perché dovrei avere timore?
Mi torna in mente il Flaubert degli anni universitari: “La censura qualunque essa sia, mi sembra una mostruosità, una cosa peggiore dell’omicidio: l’attentato al pensiero è un crimine di lesa-anima”.

Ho occhi per vedere e una penna per raccontare.

 

Non abbiamo bisogno di niente. Possediamo già tutto. (Quianlong, Imperatore cinese dal 1735 al 1796)

Cartolina da Pechino a carico del destinatario

Agli arrivi dell’aeroporto di Pechino il tempo sembra essersi fermato, sigillato nell’involucro del comunismo che fa della Cina l’ultimo baluardo di falce e martello. L’unico partito di governo, che fa resistere la Repubblica Popolare Cinese alle intemperie del tempo, fa sventolare la bandiera rossa su piazza Tienanmen.

 

DISTRATTI
I turisti sono troppo indaffarati a fare selfie per guardarsi intorno, per alzare lo sguardo sulle guardie che con la loro stazza fanno da sentinella alla piazza-macelleria della storia.
I nonni tirano dalla tasca 60 rmb, poco meno di 1 euro, per regalare ai bambini una bandierina rossa in ricordo del patriarca Mao Zedong, il cui mausoleo domina Tienanmen.


CENSURE
Mi viene voglia di tirare dalla tasca lo smartphone, scaraventare da YouTube su tutta la piazza quel video del 4 giugno 1989 in cui i carri armati scrissero la pagina crudele della strage di piazza Tienanmen contro gli studenti ribelli al regime. YouTube e gli altri social network non sono accessibili dalla Cina. La censura spettrale del regime mi costringe ad usare un’app VPN per collegarmi su server stranieri e avere accesso a Facebook, Instagram e Twitter.

Meglio non dare nell’occhio. Noi giornalisti siamo costretti a nascondere le nostre identità, perché Pechino sa bene che, anche sotto le spoglie di instancabili viaggiatori, siamo degli impiccioni, vogliamo capirci qualcosa e non ci accontentiamo degli specchietti per le allodole dati in pasto ai turisti europei.

 

CONTRADDIZIONI
Per gli europei mettere piede nella Città Proibita è calcare le orme dell’omonimo film di Zhang Yimou; per l’italiano medio addentrarsi nel set cinematografico di L’ultimo imperatore di Bertolucci.

Per me non è niente di tutto ciò, è piuttosto un tunnel zeppo di contraddizioni che vomita la storia di una civiltà. In quel perimetro tutto sembra lucido, lindo. Basta uscire da un cancello laterale per ritrovarsi nel lercio, nella zolla pechinese riservata alla gente comune: condizioni igieniche lontane anni luce dagli standard europei.

Non basteranno lo splendore abbagliante del Palazzo d’Estate o il raccoglimento del Tempio del Cielo a distogliere il mio sguardo sulla Cina, distante dai noiosi racconti di viaggio patinati che affollano la Rete come un catalogo da turismo di massa.

 

IL VIAGGIO
Mi incammino in piena notte con la consapevolezza che è appena cominciato il viaggio più lungo e faticoso della mia vita da vagabondo. Niente riuscirà a bendarmi gli occhi, perché affronterò ogni chilometro di questo tragitto con un piede nella pozzanghera della memoria e un altro in quel che resta del domani mai giunto a destinazione.

 

Dopo aver cancellato per decenni la propria cultura storica, oggi la Cina ritrova un legame con il proprio passato, anche rispetto al periodo imperiale. L’idea, però, è di raccontarlo attraverso canoni holliwoodiani, uscendo dalla tradizione. (John Woo, regista)

Diario di viaggio: 130 persone ritrovano “l’Italia bella” nella notte magica sul fiume Chiese

Bisogna spingersi oltre i selfie biodegrabili per ritrovare i sogni e le utopie in una notte di mezza estate. E non sono di certo le cartoline da catalogo che palleggiano da una bacheca all’altra di Facebook; non sono di certo i noiosi splash che illudono tanti di avere la stazza da viaggiatore.

Ci sono luoghi segreti che vanno riscoperti nell’ottica del vagabondaggio che fa dei nostri territori il pozzo dell’anima di ciò che eravamo, come l’Italia in bianco e nero di matrice contadina che impugnava la socialità.
Possiamo fare a meno dei gruppi Facebook si sono detti ad Acquafredda, il paesino sulla striscia di frontiera tra le province di Brescia e di Mantova, affinché una serata in compagnia di pochi amici diventasse nel raggio di un decennio una notte magica di mezza estate sul fiume Chiese con 130 persone: la parola d’ordine è rispetto per l’Ambiente, perché ognuno può fare del suo senza arzigogolare.

Piatti e stoviglie portate da casa, niente plastica; prodotti culinari a chilometro zero; un trattore trasformato in un palco per un chitarrista ed un armonicista; tutto il resto ce lo mette il plenilunio, quello cercato dai barcaioli mantovani nelle notti sul Mincio, e un gruppo di testardi volontari capace di creare un set dal sapore felliniano attraverso il passaparola, che per l’ennesima volta ha smosso tanti a condividere questo banchetto.

Mi sembra di essere tornato in Patagonia, quando osservavo gli argentini sul lago di Neuquén alle prese con la voglia di stare assieme e non di certo assuefatti dalla grande abbuffata di una serata di mezza estate. Possibile che piazzare una tenda accanto ad un fiume, lasciare musica fino a notte fonda, conoscere belle persone, sorseggiare un bicchiere di vino, riesca ancora a materializzare sogni e utopie?
Sì, perché come ci ricorda Giorgio Gaber “senza utopia c’è la morte”.

Ovunque continueranno a riunirsi uomini e donne nel comune segno denominatore del non arrendersi ai ricatti dell’omologazione che vorrebbero stemperare le nostre radici, ci saranno sempre zolle di terra dove qualcosa cambierà in meglio.

Provate ad andare di notte lungo la sponda del fiume Chiese e ascolterete l’evaporazione di questi versi di Giovanni Caproni.

 

L’amore finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

Diario di Viaggio: Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco

Giri e rigiri per ritornare in Umbria, la cui bellezza non è stata screpolata dal furore del terremoto guardingo. Mi giunge voce da Norcia che laggiù si sentono dispersi, dimenticati e questo sgomento è amplificato dal quel che resta della cattedrale di San Benedetto.

Adoro tornare a Perugia prima dei rintocchi della mezzanotte, per strada il brusio degli studenti, nel silenzio di metà settimana, non siamo ancora entrati nel tunnel dei bagordi degli universitari parcheggiati nel capoluogo umbro.
Scappiamo dall’Italia abbagliati dalla frenesia esterofila senza captare l’anima del nostro Paese. L’Umbria è l’anima dell’Italia che si rintana tra arte, cultura, spiritualità per mollare la nostra quotidianità che saccheggia l’essere autentici.

Tutte le strade portano a Francesco, il fraticello d’Assisi che ci ha lasciato in eredità un grande patrimonio che va oltre l’essere stato il giullare di Dio. Questo patrimonio si snocciola nella severità dei francescani, che in un certo senso si sbarazza del cliché che li vorrebbe come quelli disegnati e raccontati sui calendari di Frate Indovino.

Padre Giovanni, sull’ottantina, si affaccia dal suo studiolo all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli. Ti guarda di sbieco dagli occhiali di metallo come per dire che un frate non è l’interlocutore pronto a dirti ciò che vorresti sentirti dire. Un frate è altro, ti guida, ti ascolta, ti legge dentro, ti scuote e non è scontato il lieto fine. Anzi, meglio prepararsi al peggio – al meglio secondo il punto di vista – perché ci vuole coraggio e fatica per ritrovare la strada di Francesco.

Assisi lascia al pellegrino innumerevoli suggestioni, ma non sono quelle che maturano il cambiamento, l’evoluzione, la crescita. Nel silenzio della Porziuncola, la chiesetta all’interno di Santa Maria degli Angeli in cui San Francesco sostava in preghiera, risuona il monito verso cui ciascun uomo non può mostrare sordità: “Fallire nell’amore è fallire nella vita”.

Quando termina il viaggio tanti si accontentano di tornare a casa con un selfie, un tau, un souvenir. I più testardi, coloro che sono caduti e provano a rialzarsi, ripartono con il desiderio di ritornarci per vederci chiaro una volta e per tutte.
La morte non può farti paura quando ammetti con te stesso di essere circondato da zombie, che frullano la routine sottomessi dai ricatti dei legami consumistici.

Il viaggiatore si guarda allo specchio dell’anima e non vuole più rimanere paralizzato. Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco perché “un raggio di sole è sufficiente per spazzare via molte ombre”.