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Archives Dicembre 2021

Per Lucia

Per Lucia ricomincio. Su quel tram verso Bagnoli, in un pomeriggio di dicembre, io nel mio montgomery color cammello e il suo maglione fatto a uncinetto, stretto a lei, a far visita al fratello Nicola. Il tram frenò e i suoi occhi balzarono nello sgomento. Capii allora che la mia bisnonna se n’era andata prematuramente investita da quel maledetto numero 1.

Per Lucia ricordo. A braccetto con la sorella Adele nella Napoli del Secondo Dopoguerra in attesa che le arrivasse una lettera dal suo Pasquale, prima dei giorni bui della prigionia, sognando il matrimonio che sarebbe arrivato quando dalla polvere da sparo sarebbero germogliate rose rosse: “Mia carissima Lucia, in questo momento ho ricevuto il tuo espresso, il quale ha procurato in me grande gioia, sapendoti in ottima salute. Poi ho trovato due foto, per cui ti assicuro che sei uscita magnificamente bene. Sappi che, essendo la mia divisa un po’ grande, ho dovuto portarla dal sarto per farla accorciare. Appena il sarto si deciderà a ridarmela, mi farò delle foto in formato grande e te ne invierò qualcuna. Del resto, sii sempre tranquilla che io ti amo veramente e non ti farò mai alcun torto.”

Per Lucia come nel teatro di Eduardo. Da commerciante ambulante dell’Addà passà ‘a nuttata della Napoli milionaria a commerciante a domicilio quando il marketing era ancora scienza lontana; da moglie, zia, sorella, figlia a madre attenta, premurosa, avanguardista; da matriarca generosa che trasformò la sua casa nel rifugio di aggregazione per familiari, amici, vicini a nobildonna non per titolo ereditario ma per vita vissuta; da impeccabile cuoca napoletana ai fornelli a saggia anziana occhialuta che amava ripetere: “A vita è n’affacciata ‘e fenesta.”

Per Lucia io scugnizzo napoletano. Una notte, sotto un cielo stellato ai Campi Flegrei, fece l’incantesimo. Gettò via il borotalco, mi cosparse dello zolfo della Solfatara, mi fece immergere nell’acqua misto di sale e catrame di Coroglio, mi lasciò tremare tra i movimenti ondulatori del bradisismo di Pozzuoli, spalmò sulla mia lingua la cadenza stretta napoletana affinché nessun maestro di dizione potesse correggerla.
Mi sottrasse alla provincia, cambiò il mio destino, mi cucì addosso un vestito con le canzoni di Piedigrotta e mi fece ad uncinetto un cappellino con le ceneri del Vesuvio. Nella braccia conficcò la terracotta dei pastori di San Gregorio Armeno e, anni dopo, al capezzale dopo aver capito che i giorni era contati, mi disse: “Fujetenne, vattenne. Tu ta cavarrai sempe”.

Venticinque anni senza Lucia sono stati anche 25 vigilie di Natale con lo spaghetto alle vongole tassativamente in bianco, 25 smisurate preghiere su un filo di vento, 25 fette di pastiera mai mangiate, 25 sogni in cui luminosa mi faceva segno di non voltarmi indietro perché c’era lei a un passo da me, 25 punture dolorose tutte le volte che avrei voluto riabbracciarla, 25 poesie mai scritte perché la penna di Salvatore Di Giacomo non mi avrebbe soccorso, 25 volte in un teatro a Napoli senza che mi accompagnasse e tutti puntualmente a ripetermi “Che bella signora, tua mamma!” (In reatà lei mia nonna…), 25 concerti senza la dedica di Riccardo Fogli per lei su un vecchio 45 giri, 25 volte in aereo pensandola accanto a me come quella volta verso Lourdes, 25 volte in auto al casello della tangenziale senza lei che mi diceva “Pigliete sti spicci…”, 25 Festival di Sanremo senza lei che mi raccontava i suoi, il primo alla radio, 25 volte che ho chiesto ad Alexa di darmi le notizie a prima mattina per ritrovare i risvegli assieme e lei che girava la manopola della radio su Rai GR1 notizie, 25 estati al mare senza il suo “Figlio ‘e ‘ntrocchia, je te voglio bene”.

Oggi 29 dicembre chissà se mi riconoscerà per le vie di Milano dopo così tanto tempo, capelli ingrigiti e barba incolta, occhiali appannati come i vetri dell’auto con i tergicristalli rotti, un ago puntato al centro del mio cuore.

Per Lucia, mia nonna.

Regalo di Natale: Luigi Tozzi, il consigliere comunale di Carinola che sfida la disabilità

Per Natale mi piace raccogliere storie autentiche dai miei viaggi per salvaguardarmi dalla solfa social di questi giorni. Luigi Tozzi, “il ragazzo della frazione Nocelleto” che per una vita ha sfidato la disabilità, festeggia il primo Natale da consigliere comunale di Carinola, nel fazzoletto di terra campano della provincia di Caserta.

LUIGI, REGALO DI NATALE PER LA COMUNITA’

In un gelido inverno di una quindicina d’anni fa, mi ero spinto venendo da Milano in uno dei miei vagabondaggi oltre Sessa Aurunca, nella zolla di frontiera campana in cui si fronteggiano la provincia di Caserta e il basso Lazio. Mi aveva colpito l’entusiasmo di Luigi Tozzi, un ragazzotto di periferia che, tra studi giuridici e impegno nel sociale, si era liberato dalla prigionia della disabilità.
Luigi sapeva bene cosa fossero gli schiaffi della vita, cosa significasse trovarsi in mezzo ad una bufera, tutti avevano imparato a volergli bene per tenacia, coraggio, passione per la vita. Aveva sempre una parola buona per tutti ed era già allora, in tempi non sospetti, un regalo di Natale per la comunità.

A SUD, UNA RAZZA IN ESTINZIONE

Oggi da consigliere comunale con delega alla disabilità Luigi Tozzi è la massima espressione di una comunità che ha avuto l’intelligenza di riconoscergli il merito di appartenere ad una razza in estinzione del Sud Italia.
Nei giorni bui della pandemia, che ci ha catapultati nel recinto della libertà vigilata, il ragazzotto della frazione Nocelleto resta il fante della libertà di essere in primis sé stesso, quella per cui ciascuno di noi dovrebbe battersi nel suo piccolo: dare calci in culo all’arretratezza subculturale che vorrebbe la diversità come sponda di emerginazione e non un fiume in piena di ricchezza.

NATALE TRA RINASCITA E SPERANZA

L’Italia è fatta di tanti Luigi invisibili, di cui invece bisogna tornare a parlare, a raccontare, per lavare i panni sporchi dallo streaming di selfie dei goffi “babbi natali” (pardon, babbei natali) che mendicano un pizzico di notorietà abusiva.
Se Natale è rinascita, senza vergognarci delle nostre millenarie radici cristiane, allora Luigi Tozzi nella sua sfida alla disabilità è un esempio per tutti noi, codardi e piagnucolosi di fronte alle prove delorose della vita. Nel buio della notte c’è sempre un barlume di luce e quelli come Luigi sono una risorsa per una piccola comunità, per il Meridione d’Italia, per il nostro Paese che ha smesso di sognare per fare posto alla paura, all’incertezza, alla precarietà collettiva.

Lina Wertmüller, travolto da un insolito destino alla Reggia di Caserta

Travolto da un insolito destino alla Reggia di Caserta. Una mattinata insieme a Lina Wertmüller durante le riprese di Ferdinando e Carolina. Io, lo sbarbatello non ancora laureato, penna e taccuino alla mano, inviato dal caporedattore di un quotidiano nazionale e papà che mi ripeteva: “Quando mi chiedono quale mestiere hai iniziato a fare, cosa rispondo?”.

QUESTA VOLTA PARLIAMO D’UOMINI

Travolto da un insolito destino nell’azzurro del mare d’agosto che non c’era. Per me bastava ci fosse lei, dietro la macchina da presa, lo scalone della Reggia di Caserta che mi scivolava addosso. La Wertmüller abbassò gli occhialini e, prima del prossimo ciak, mi disse: Benvenuto“. Forse sarei stato scontato, se per attirare la sua attenzione, avessi esordito citando il titolo del suo film Questa volta parliamo d’uomini.
Macché, proprio con lei che era il mio mito di emancipazione femminile, lontana da stizzinosi slogan e assordanti megafoni riposti in soffitta dalla generazione dei miei genitori.

RIDATEMI MIMI’ METALLURGICO

Il culo gigante in Mimì Metallurgico ferito nell’onore era stato a 12 anni una sorta di luna gigante felliniana: nonno Pasquale me lo aveva fatto osservare senza alcuna censura. Prima di quel set mi ero ritrovato rinchiuso in camerino con Mariangela Melato a rovistare testimonianze di Film d’amore e d’anarchia, anni dopo sulla laguna di Venezia con Giancarlo Giannini a sbucciare noccioline cinefile tra Pasqualino Settebellezze e La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, appiccicato ad una cornetta telefonica della SIP con Paolo Villaggio dell’altra parte per un memento colorito da Io speriamo che me la cavo.

STRISCIONE DI PROTESTA CONTRO L’INFAME MASCHILISMO

Prima che le femministe di Sinistra si facessero spennare come galline nei salotti borghesi, Lina Wertmüller aveva mitragliato con la sua macchina da presa l’infame maschilismo accampato nel cinema italiano dal Secondo Dopoguerra in poi.
Quanti tra i fetenti nascosti sotto le sagome cartonate da benpensanti si sono mai accorti che i film della Wertmüller sono stati tra gli striscioni di protesta più roboanti Italia?
Intanto di quello shooting di Ferdinando e Carolina mi torna in mente l’armonia tra tutti gli addetti ai lavori, la postura della Wertmüller nei confronti dei suoi attori: autorevole e garbata, severa e con un sorriso sornione sempre per tutti. Da quel reportage mi portai via l’esperienza del set come un gioco di costruzioni, in cui l’atto creativo era condivisione e l’ultimo tassello fuori posto poteva fare la differenza e stimolare chiunque partecipasse alla realizzazione del film.

Lina Wertmüller ha fatto ridere a crepapelle persino gli ingessati a stelle e strisce dell’Academy. Datele retta, basta con questo “maschilista” Oscar.
Da oggi chiamiamola Anna, come da lei suggerito, la statuetta più ambita del mondo.
Evviva Lina, fantasista e anticonformista, autentica rivoluzionaria e avanguardista, che ci lascia in balia della pochezza del nostro tempo.

Diario di viaggio nella Londra di Get Back dei Beatles

Trent’anni prima della mini serie Get Back di Peter Jackson, che in questi giorni sta riportando in rete l’ondata emotiva della Beatles-mania, mi sono fiondato al numero 3 di Savile Row a Londra. Provai a fare la prima bravata da maggiorenne, salire sul mitico tetto dove John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si erano esibiti per l’ultima volta, l’ex edificio della Apple, con le session tratte dall’album del divorzio Let it Be.

GET BACK E NOI FAN DI UN’ALTRA GENERAZIONE

Di quella mattina dei primi di agosto del 1991 resta questa foto scattata con la mia prima macchina fotografica a rullino. In realtà la strada del quartiere di Westminster, dove c’ero arrivato con una mappa beatlesiana acquistata a Liverpool l’anno prima, era stranamente desolata. Non riuscii a farmi aprire la porta d’ingresso dello stabile e la mia impresa non fu compiuta.
Oggi questa pagina da diario di viaggio mi sollettica una riflessione. Io appartengo alla generazione nata tre anni dopo lo scioglimento dei Beatles e che ha messo piede in Inghilterra la prima volta nel 1988. Fatevi due conti, non era passato soto i nostri piedi un tappeto così lungo dalla pubblicazione dell’atto finale Let it Be. In tanti della mia generazione hanno ottenuto il patentino di fan non per l’iscrizione a questo o all’altro club, ma perché hanno cercato e dato fisicità ad una band musicale e alla sua storia.

FISICITA’ IN QUEL LEGAME CON I BEATLES

Barcamenarsi a fare la cresta sulla spesa alla mamma per acquistare i dischi, correre ad un concerto di Paul McCartney, rincorrere Yoko Ono alla prima mostra in Italia dedicata a John Lennon, centellinare da minorenne ogni luogo natale in un viaggio da Bath a Liverpool in un treno inglese, bere una birra al Cavern in compagnia del primo manager che li portò ad Amburgo, fare un sit in nell’angolo di Central Park più vicino alla casa newyorkese di John e Yoko, entrare abusivamente negli studi di registrazione di Abbey Road, non sono stati atti di feticismo o follie di un ragazzotto di periferia. Sono stati piuttosto il tentativo sincero di dare fisicità a questo legame, approfondendolo, facendone un tassello di una vita, marinando noiose lezioni di greco e latino per tradurre e ritagliare le canzoni dei Beatles come facevo con i sonetti di Shakespeare: li lasciavo in anonimato sotto i banchi delle ragazze che mi piacevano per non apparire uno sfrontato romantico.

LET IT BE DI LINDSAY-HOGG SEME DI GET BACK DI JACKSON

Mi fa pena spulciare nei corridoi social commenti da bar triti e ritriti – da Yoko Ono ancora vista come la stregaccia cattiva alle idiote stroncature della discografia solista di un Beatles da parte dei mendicanti della bacheche facebookiane senza né arte né parte.
Surfando sull’onda emotiva dello straming disneyano di Get Back di Jackson, mi tornano in mente le sequenze rubate del documentario Let it Be di Lindsay-Hogg.
Nel 1990 mi rassegnai a vederlo pubblicato in VHS (le vecchie videocassette per i nativi digitali) dopo gli altri film dei Beatles o reperirlo nelle teche RAI che all’epoca lo aveva trasmesso. Nel ’94 mi fece un gran regalo un vicino di casa della famiglia londinese presso cui alloggiavo a Ealing Broadway. Tirò fuori dalla soffitta una videocassetta del fratello maggiore dove era registrato il documentario del 1969 con l’apparizione dei Beatles sul tetto di Savile Row.


IL MIO GET BACK

Un quarto d’ora prima della fine di Let it Be il nastro si attorcigliò nel videoregistratore e noi restammo a bocca asciutta. Nonostante la visione incompleta, il mio Get Back resta rannicchiato in quel pomeriggio londinese tra gli abbai del cane, la moquette puzzolente e l’afternoon tea servito dalla signora con dei biscotti fatti a mano in una casetta della working class.
Da allora “Whisper words of wisdom, let it be” da slogan McCartyano diventò per me stile di vita.