Questa foto antica degli anni ’30 mi riporta con prepotenza nel cuore della mia Napoli, tra le pagine di storie private che, mattone dopo mattone, hanno costruito l’Italia del secolo scorso. Le persone comuni come Peppino sono state la calligrafia di queste pagine dell’Italia povera ma bella, prima sotto le bombe della guerra, poi sotto la luce della rinascita, il boom economico degli anni ’50, le feste fatte in casa degli anni ’60 a ritmo di twist, e poi ancora vita, vita, tanta vita.
Peppino è stato questo e tant’altro ancora. Nel centro storico di Napoli lo scambiavano per un attore hollywoodiano. Pochi sapevano che dentro il diluito del suo sorriso si nascondeva l’amore infinito per la madre Concetta, il dolore per averla persa troppo presto, l’essere diventato da un giorno all’altro l’ometto di casa, la sua protettività per la sorella Giulia e il fratellino Ciro.
C’è una scena che mi torna in mente tutte volte che penso a Peppino. L’ho immaginata tante volte, decenni dopo, sulle gambe di nonna Lucia. Lui con il fratello e la sorella sul’uscio di casa di mia nonna, in silenzio, come in un fotogramma del cinema di Vittorio De Sica. L’Italia della rinascita era fatta anche di questo, di accoglienza, dell’amore di una zia per i nipoti, che da quel giorno si fece amore materno, incommensurabile.
Quando penso a quel gesto d’amore del secolo scorso mi convinco che la classificazione e i gradi di parentela restano un’effimera invenzione degli uomini. E oggi più che mai continuo a calpestare le briciole dei vaporosi legami coltivati nei fiumi delle chat di Whatsapp. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di vivere legami densi, come quello tra me e Peppino, deve reagire alla pochezza dei giorni nostri: la vera ricchezza della vita è fatta di legami d’amore costanti e questo tempo in cui sopravviviamo lo ha dimenticato, se n’è privato per rincorrere l’effimero. Nel vuoto per non averlo salutato l’anno scorso tra lockdown e pandemia, mi sento risollevato dal ricordo come quella volta in cui, dal bancone di una profumeria in via dei Mille, mi prese in braccio e mi presentò con orgoglio al suo titolare.
Di Peppino ne resterà uno solo in questa vita. Peppino, mio zio.
Gli anniversari servono a poco se finiscono seppelliti sotto le onde emotive. A quarant’anni dalla scomparsa prematura – me lo ricordo quel 2 giugno 1981 – Rino Gaetano e le sue canzoni insolenti sono ancora attuali. Nella sua discografia, strizzata in soli 6 album in studio, c’è un fil rouge: l’essenza antilobbista del Rino di allora che oggi torna a scottare. Come le canterebbe le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati?
LA MIA FIDANZATA DELL’INFANZIA: GIANNA CON UN COCCODRILLO
Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano. Mia mamma fu convocata all’asilo perché raccontavo ai miei compagni della mia fidanzata “Gianna che aveva un coccodrillo”. Nel 1978, da un televisore in bianco e nero sul frigo della nostra cucina, rimasi stregato dall’anarchico Rino Gaetano sul palco del Festival di Sanremo. Tutti i pomeriggi, su un balcone alla periferia di Napoli, stonavo Gianna e il manico di scopa fregato a mamma faceva da microfono.
Rino diceva che “Ci sono persone pagate per dare notizie, altre per tenerle nascoste, altre per falsarle“. In Italia erano gli anni bui del terrorismo, alla periferia di Napoli della Nuova Camorra Organizzata cutoliana. Io cantavo Gianna alla ringhiera e, a pochi metri in linea d’aria, lo struscio locale mischiato alla politica losca rendeva omaggio a ‘O boss d’o paese circondato dai fedeli scagnozzi.
MA IL CIELO E’ SEMPRE PIU’ BLU
Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché fu profetica, lungimirante sotto “il cielo sempre più blu”: dalla disfatta della Prima Repubblica alle ingiustizie sociali, dalle morti bianche al razzismo oltre confine.
Quarant’anni dopo, punto. E ora che si fa “Aida, le tue battaglie I compromessi La povertà I salari…” tra i fantasmi del colonialismo? Ora che si fa, sputando in faccia a chi si sottomette alla routine e esaltando “Mio fratello è figlio unico Perché non ha mai trovato il coraggio d’operarsi al fegato E non ha mai pagato per fare l’amore E non ha mai vinto un premio aziendale“? Ora che si fa mentre Berta filava e “partiva l’emigrante e portava le provviste E due o tre pacchi di riviste E partiva l’emigrante ritornava dal paese“?
Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché, persino dando voce ad una cover, ha fatto germogliare la speranza di ricominciare dopo la sepoltura di una storia d’amore sotto la neve, a mano, a mano.
Ci risiamo, quarant’anni dopo. Come canterebbe Rino Gaetano le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati? Come canterebbe Rino Gaetano l’Italia dell’uscita dal carcere d’U verru, il boss pentito, che oltraggia la memoria della strage di Capaci?
L’Italia della “ripartenza” si è macchiata dell’assassinio di 14 persone sulla funivia Stresa-Mottarone. Al momento della tragedia in Piemonte mi trovavo a pochi chilometri in linea d’aria dal Mottarone. Ero accanto al torrente Erno che sfocia nel Lago Maggiore, all’altezza di Lesa. Quella del 23 maggio doveva essere una domenica speciale, la ripartenza del Paese dopo il buio della pandemia. Nei miei vent’anni di vita a Milano, non c’è luogo che mi appartenga come la sponda piemontese del Lago Maggiore: l’apertura lacustre da Meina fino a Baveno mi ricorda il mare della mia Napoli.
LUCIDA FOLLIA ASSASSINA
Sabato sera, sotto una pioggia torrenziale che ha fatto da presagio alle lacrime versate l’indomani, mi sono perso in auto accanto ad un’indicazione per il Mottarone. La promessa di portarci mia moglie quanto prima è stata spazzata via domenica scorsa dal rumore degli elicotteri in perlustrazione della zona della tragedia. In quell’istante ho capito cosa fosse accaduto.
Nello sgomento di queste ore in cui le indagini hanno portato alla luce l’intenzione volontaria di manomettere i freni della funivia che presentava delle anomalie, c’è un misto di rabbia e dolore: Alessandro e Silvia di Varese ci assomigliavano da fidanzati tra i progetti fatti guardando Stresa. Amit, Tal, Barbra e Itskak sarebbero potuti essere i nostri compagni di viaggio sul prossimo volo per Tel Aviv. Serena e Mohammadreza erano come tanti in partenza dal nostro Sud per un futuro lavorativo migliore. Le candeline di Roberta, soffiate dal vento di una morte prematura, erano quelle di noi quarantenni che amiamo la vita senza riserve. Vittorio e Elisabetta, prossimi al matrimonio, insieme al piccolo Mattia erano come noi che ci siamo battuti per una bella storia d’amore superando le barriere anagrafiche.
L’ITALIA SMEMORATA, DAL CERMIS AL MOTTARONE
Chi si assume la responsabilità di questa tragedia enorme? Nei condomini osserviamo regole rigide per manutenzioni e revisioni dell’ascensore, perché non potrebbero esserci tempi più serrati per una funivia? In uscita dal tunnel buio della pandemia con tutti i lockdown a singhiozzo e il fermo degli impianti, dovevano essere monitorati i gestori della funivia abbagliati da una lucida follia. Qui si tratta di una corresponsabilità pubblica e privata e ci sono di mezzo anche soldi pubblici.
In Italia tiriamo a campare e siamo smemorati: i 42 morti della caduta della funivia del Cermis in Trentino del 1976 non bastavano? Facendo un rapido conto degli impianti a fune funzionanti nel nostro Paese, mi chiedo se ora scatterà la sindrome delle revisioni e manutenzioni come è accaduto dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova.
NUOVE REGOLAMENTAZIONI PER LE FUNIVIE IN ITALIA
Consapevole che né una residenza né un domicilio temporaneo possano farci sentire parte di una comunità, lascio al dolore e alla rabbia di queste ore la funzione di integratori, anche per noi senza natali in questa zolla di Piemonte ferito. E’ legittima la richiesta di giustizia attraverso le indagini che farà la Magistratura così comela pretesa di un aggiornamento in tempi rapidi delle regolamentazioni delle funivie in Italia e di impianti simili.
Stresa non sarà più la stessa e non sarà più ricordata soltanto come perla del Lago Maggiore, culla delle isole Borromee o corridoio privilegiato del turismo tedesco. La lacerazione della funivia del Mottarone resterà aperta per non ridurci ad essere beati, per dirla alla Nietzsche, come “gli smemorati perché avranno la meglio anche sui propri errori”.
Nei 32 anni di viaggi che mi hanno fatto toccare 60 Paesi e 5 continenti le canzoni di Franco Battiato hanno ispirato la scelta di alcune destinazioni o ne sono state colonna sonora. In entrambi i casi i versi e la musica del genio siciliano mi hanno accompagnato nelle esplorazioni da vagabondo, contribuendo a lasciarmi addosso le atmosfere e l’identità di ciascun posto. Cominciamo dall’Europa.
BERLINO
A Berlino ci sono arrivato a quasi vent’anni dalla caduta del Muro, ma per fortuna ai tempi Alexander Platz custodiva ancora il fascino di crocevia tra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Alloggiavo a Berlino Est in uno stabile che, fino alla caduta della cortina di ferro, era stato ex prigione. Credo di aver consumato Giubbe Rosse, primo album dal vivo di Battiato del 1989 contenente l’omonima canzone. In realtà Alexander Platz era stata regalata alla grande Milva per l’album prodotto dallo stesso Battiato “Milva e dintorni”.
VARSAVIA
In Polonia in realtà c’ero andato per un reportage e avevo chiesto di intervistare quella generazione di anziani che avevano visto la loro Varsavia rasa al suolo dalle bombe. Mi portarono nel quartiere Praga, l’unica zona della capitale polacca che era stata risparmiata. Durante la chiacchierata mi balenavano in mente i versi di Radio Varsavia, celebre brano antimilitarista di Battiato del 1982. Appartiene ad uno dei vinili che ho consumato di più, L’Arca di Noé. Lo guardavo nelle vetrine dei negozi tra gli addobbi natalizi. Il disco, infatti, era uscito a ridosso del Natale del 1982 e io non arrivavo in altezza alla gonnella di mia madre.
BELFAST
L’Irlanda del Nord è stata per me una destinazione della memoria alla ricerca di testimonianze e luoghi della guerra sanguinaria tra cattolici e protestanti. L’arrivo a Belfast e la lunga camminata tra i murales di Falls Road mi aveva riportato ai rumori delle bombe sentiti in tv, agli anni sanguinari della repressione thatcheriana, alle battaglie dell’attivista e rivoluzionario Bob Sands. Ecco che ad accompagnarmi c’è stata un’immagine dal brano di Battiato Voglio vederti danzare, sempre estratta dal vinile di L’Arca di Noé del 1982.
TIRANA E SOFIA
La stessa canzone l’ho ritrovata in Albania, una delle tappe del mio on the road mozzafiato del 2009 dei Balcani. Un’alba a Durazzo segnò l’arrivo in questa zolla di terra dell’ex Jugoslavia, ma fu passeggiando nella vecchia Tirana che sbucò di nuovo Franco Battiato.
La seconda parte della strofa si conficcò in testa a Sofia, che mi regalò un momento emozionante: il silenzio dei bulgari per commemorare i loro caduti in guerra e questo falò di preghiere che si elevavano verso il cielo della Bulgaria.
ALBANIA
Mentre ero su un autobus sgangherato che mi portava dall’Albania verso il Montenegro, stralunato tra i paesaggi dell’entroterra albanese, ecco che spuntò Strade dell’Est, una gemma del disco del 1979 L’era del cinghiale bianco. Ricordo quando Battiato venne a presentarlo in una puntata del programma di Boncompagni Discoring.
LISBONA
Prima della della traversata in Sudamerica, il mio vagabondaggio in Portogallo vi ha spianato la strada. Lisbona mi è rimasta nel cuore, vi ho ritrovato molto della Napoli dell’infanzia. La colonna sonora dei giorni trascorsi nella capitale portoghese è stata sicuramente il suono del fado di Amália Rodrigues e Mariza, passato e futuro della tradizione musicale locale. Tuttavia, proprio mentre sgranocchiavo un dolcetto nel quartiere di Belem, spuntò la canzone di Battiato Segunda-Feira, tratta dal disco L’imboscata del 1996 e scritta a quattro mani con il filosofo Manlio Sgalambro.
Io sono quello che odia il lunedì così come Mafalda di Quino detesta la minestra, con la stessa intensità se vogliamo dircela tutto. La coppia Battiato-Sgalambro con il suo tocco filosofico ha captato questo stato d’animo che appartiene a ciascuno di noi. La lingua portoghese lo denuncia bene con il termine “lunedì” che letteralmente si traduce come “secondo giorno”, ovvero secondo dopo la domenica, “segunda-feira” appunto.
La mia generazione, nata al’alba degli anni ’70, deve alla musica di Franco Battiato (1945-2021)gli occhi per guardare con privilegio il Medio Oriente. La colonna sonora del mio primo giorno delle elementari fu L’era del cinghiale bianco, che impazzava da una radio libera all’altra. Il maestro siciliano, per quella bizzarra capigliatura, mi faceva sorridere quando la domenica pomeriggio sbucava sul palco di Discoring, la trasmissione musicale di Gianni Boncompagni.
SGUARDI PRIVILEGIATI SUL MEDIO ORIENTE
La mia infanzia, a livello mediatico, è stata segnata dalle bombe che cadevano su Beirut e gli schizzi di sangue della faida tra israeliani e palestinesi. Con il tempo il canzoniere di Franco Battiato ha accorciato le distanze tra me e i miei coetanei di allora, finiti in disgrazia nel Medio Oriente turbolento: bambini, orfani di guerra, cresciuti sotto i lampi dei bombardamenti, a cui era stato sottratto il diritto allo studio per essere allevati con elmetti e fucili, come se non ci fosse via d’uscita dall’odio.
La musica di Battiato si è rivelata un varco provilegiato per quelli come me, i cui studi linguistici di impronta europeista non agevolavano il contatto con l’emisfero arabo. Brani come Da Oriente ad Occidente, Pasqua Etiopie, L’Egitto prima delle sabbie, Arabian Song, E ti vengo a cercare, sono state pure illuminazioni. Meditazioni musicali che mi hanno fatto volare, prima di inserirle nella lista del mio giro del mondo, nella Teheran delle contraddizioni della rivoluzione di Khomeini, nella Gerusalemme crocevia di religioni e culture milleniare, nel Cairo del passaggio controverso del potere da Sadat a Mubarak.
BATTIATO, COLONNA SONORA TRA VIAGGIO E IMMAGINAZIONE
Le canzoni più filo-orientali di Battiato sono state la colonna sonora della mia lettura di Persepolis, graphic novel della fumettista iraniana Marjane Satrapi, o del mio viaggio verso Istanbul, su un autobus che dai Balcani mi catapultò sotto una delle porte che si aprivano sul Medio Oriente. In quel ferragosto del 2009 in Turchia c’erano 1.400 chilometri che mi separavano dall’Iraq. Eppure la cover di Battiato di Fogh in Nakhal, canzone tradizione irachena udita nei pressi del Gran Bazar di Istanbul, cancellò improvvisamente le distanze e profetizzò ciò che avrei vissuto pochi anni dopo a Ground Zero: io e una studentessa irachena in una preghiera laica per le vittime dell’11 settembre. L’opera di Battiato, complessa e multiforme tra filosofia, meditazione, religione, spiritualità e musica, ha il merito di aver abbattuto tanti muri, inclusi quelli dei malefici pregiudizi, senza cui la mia generazione non avrebbe fatto il suo passaggio in Medio Oriente: oggi la sua scomparsa, sotto le bombe del nuovo millennio tra Israele e Palestina, sembra chiudere il cerchio di una pace che tarda ad arrivare, anzi che forse mai arriverà.
NON C’E’ ADDIO PER UN UN ESSERE DEL COSMO
Agli altri l’affanno di etichettare Franco Battiato e la sua opera. Il ricordo della mia intervista a Milano una quindicina d’anni fa mi costringono a fare altro: lasciare galleggiare le sensazioni di quei momenti, come se davanti a me nel camerino ci fosse stato un essere del cosmo passato sulla terra, la cui generosità e spiritualità hanno reso la sua opera uno dei più grandi lasciti artistici in Italia.
Non è una beffa. Immigrato di Checco Zalone ha vinto il David di Donatello come miglior canzone originale, destando scalpore tra tutti i fricchettoni del pop che davano per scontato la vittoria di Laura Pausini. Cosa c’è di scandaloso? E’ la volta buona in cui ironia e riflessione cantate nel film Tolo Tolo soppiantano il solito canzoniere, con tutto il rispetto per una grande artista come la Pausini.
LA TRAVOLGENTE “FIGHT FOR YOU” E LA PAUSINI SENZA OSCAR
L’Oscar mancato della Pausini il 25 aprile scorso mi ha ricordato quello del film Pinocchio di Benigni nel 2002, scartato alla candidatura come miglior film straniero. Non tutte le strade del marketing cine-musicale spianano la strada all’ambita statuetta: Io sì (Seen) era accoppiata al film di Ponti junior con donna Sophia. Niente Oscar per il pop anti-razzista della Pausini, sconfitta a Hollywood dalla rivoluzionaria H.E.R. che aveva mitragliato in puro stile R&B i colpi mortali della travolgente Fight For You.
IL DAVID DI DONATELLO A ZALONE
Il David di Donatello a Immigrato resta una bella sorpresa da parte dell’Accademia del Cinema Italiano presediuta da Piera Detassis. “La solita cricca di sinistra che premia i soliti, no questo era il foglietto se perdevo – ha commentato a caldo il vincitore – Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico.” Il polverone che si è alzato sui social per la seconda sconfitta della nostra regina del pop lascia il tempo che trova. Il podio a Zalone ha portato una ventata di freschezza su uno dei palchi più prestigiosi in Italia. Inoltre, una vetrina ambita come il David di Donatello, attraverso lo sguardo su cinema e dintorni, ha il compito di essere anche lo specchio sociale del Belpaese e dei suoi umori. Seen, scritta in inglese da Diane Warren e poi tradotta in italiano dalla Pausini, è troppo d’oltreoceano e manca di quella “profonda italianità” che invece Immigrato di Zalone sprigiona.
NELL’ITALIA MULTIETNICA DI ZALONE
Non sono forse i primi versi della canzone di Zalone già una polaroid autentica dell’Italia dei nostri tempi? L’umorismo tagliente sega i luoghi comuni, limando gli spigoli surreali di “Poi la sera la sorpresa a casa Al mio ritorno Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno Ma mia moglie non è spaventata” in amarezza, dolore, riflessione:
Checco Zalone ha fatto centro con un testo dissacrante che viene messo in bocca al razzista di media levatura. Tra versi e ritornello “apparentemente” scanzonati emerge invece un’arguta meditazione sull’Italia multietnica del nuovo millennio. Tra le righe si legge la noiosa assuefazione dell’instinto di sopravvivenza del Belpaese tra pregiudizi e polemiche per niente costruttive. Alla fine del gioco resta sempre la scorciatoia del fare a scaricabarili con il rischio e un prezzo alto da pagare: finire in un vicolo cieco.
Cara Mamma, la nonna mi sta aiutando a cucire una stella di stoffa perché domenica è la festa della mamma. Te l’ho mai detto di quanto sono fiero mentre mi aspetti all’asilo perché non sei di turno in fabbrica? Ieri mi dicevano che avevo una mamma giovane e bella, oggi mi ripetono che sei diventata un angelo e non ti vedrò più, perché sei volata in cielo.
In televisione tutti parlano di una giovane operaia morta sul lavoro perché mangiata da una macchina. Nella foto al telegiornale sembri tu e continuano a ripetere che sei un’altra vittima delle morti bianche. Non comprendo le parole scritte dalla signora Natalia su un famoso giornale:
Mamma, lo dici tu alla signora Natalia che devo ancora crescere per capire che il mondo è fatto anche da (ex) femministe da salotto? Grazie per avermi accolto nella tua vita senza seguire il suo arrendevole “destino delle donne non è fare figli, ma vivere”.
Mamma, la settimana scorsa abbiamo visto insieme il concertone del Primo Maggio e tu mi hai spiegato che si dicono tante parole e si fa poco per proteggere le persone sul posto di lavoro. Perché Fedez, il rapper che ascoltavamo insieme in macchina, prima di cantare non ha dedicato il tempo a disposizione ai tanti figli senza mamma e papà in Italia per questo motivo? Per fortuna ci ha pensato tutta la gente in piazza a Prato dedicandoti tanti striscioni e gridando forte basta, basta, basta!
Sì, basta, perché noi figli abbiamo il diritto di crescere con una madre al nostro fianco. Mamma, ora chi mi farà tornare tra le tue braccia? No, mamma, no. Non voglio perderti, ti voglio qui con me. Sono convinto che ritornerai a prendere la stella di stoffa che ti ho preparato per la festa della mamma. Nel frattempo voglio crescere e studiare. Da grande voglio difendere tutti gli uomini e le donne come te e Sabri, troppo presto destinati ad essere angeli bianchi.
Mamma, che silenzio stasera a Pistoia. Sono sul davanzale della finestra e non mi bastano le dita per contare la distanza tra me e quella stella luminosa in cielo, bella come te.
Nella folla degli slogan del Primo Maggio un amico avvocato mi ha ricordato il giudice Rosario Livatino, lavoratore instancabile ucciso dalla Mafia nel settembre 1990. Il prossimo 9 maggio “il giudice ragazzino” sarà proclamato Beato dalla Chiesa Cattolica. C’è l’altra Festa del Lavoro in questa affermazione di Livatino che dopo trent’anni dalla sua prematura scomparsa è ancora così attuale:
IL GIUDICE RAGAZZINO
Ai tempi i miei professori al liceo erano affannati a rincorrere i programmi ministeriali e raramente si affrontava con arguzia e intelligenza l’attualità. L’esemplarità di Livatino mi arrivò diritta al cuore al cinema, nel 1994, durante la proiezione del bel film di Alessandro Di Robilant Il giudice ragazzino. Anni dopo raccolsi in un camerino di teatro la testimonianza di Regina Bianchi, l’attrice eduardiana che nella pellicola interpretò la mamma del Sostituto Procuratore di Agrigento ammazzato da Cosa Nostra: “Un grande esempio per tutti del quale comprenderemo il sacrificio negli anni avvenire”.
L’ALTRA FESTA DEI LAVORATORI
Nella parole della Bianchi si nascondeva una latente profezia. Ci sono voluti trent’anni di storia del nostro Paese, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, tra contraddizioni e ferite mai rimarginate, compreso il sacrificio di martiri come Falcone, Borsellino, Piersanti Mattarella, per riportare alla luce lo spessore di questo instancabile lavoratore: sia faro in questo Primo Maggio di pandemia non solo per chi opera nella giustizia:
Rosario Livatino, lontano dai cliché dei giudici che abbondano nelle fiction televisive, ha costruito il suo lavoro di missionario nella giustizia sulle fondamenta di responsabilità, equilibrio, indipendenza. La sua beatificazione – è il primo giudice beato della Chiesa Cattolica – arriva in un momento storico particolare e rimane un segnale di riflessione anche per chi riduce la santità ad operazione folcloristica:
IL PRIMO MAGGIO DEL GIUDICE BEATO
I suoi compaesani hanno fatto la voce grossa per evitare che le spoglie del magistrato ammazzato sulla statale 640 siano spostate dal cimitero di Canicattì nella cattedrale di Agrigento. Ritengo che la sua città e la sua regione debbano prima di tutto difendere la sobrietà di Livatino, tenendo il suo corpo mortale alla larga da chiunque tenterà di trasformare questa beatificazione in una squallida operazione commerciale e farci un ignobile giro d’affari. La santità di Rosario Livatino era scritta già in una profonda riflessione, che ciascuno di noi dovrebbe trascrivere, non solo chi opera nel campo del diritto:
Ho un legame speciale con Milva, all’anagrafe Maria Ilva Biolcati, per chi l’ha amata semplicemente la Pantera di Goro. A febbraio del 1994, dopo un lungo colloquio al Quotidiano Il Golfo di Ischia, il compianto direttore Domenico Di Meglio mi disse: “Pipolo, mi piaci. Sei dei nostri. Riferiscono che le interviste sono il tuo forte. Chi vorresti incontrare per il primo articolo?”.
MILVA AL TEATRO DIANA DI NAPOLI
La mia scelta cadde sulla grande attrice e cantante, scomparsa oggi all’età di 81 anni. Mi fissarono l’intervista con Milva il 15 febbraio, prima dello spettacolo, ai tempi in cartellone al teatro Diana di Napoli. Arrivai al Vomero con largo anticipo con la 127 bianca di papà, ma in via Luca Giordano nel tardo pomeriggio era quasi un miraggio trovare un buco. La parcheggiai di sbieco e lasciai un postit specificando che ero in teatro per l’intervista, sperando nella clemenza dei vigili. Mi tremavano le gambe, avevo taccuino e penna, il fidato registratore a cassette, regalo dei miei nonni a battesimo della nuova avventura lavorativa. Entrai nel camerino, Milva si stava truccando, mi fece sedere accanto a lei ed escalmò: “Un giovane giornalista! Sono felice di essere tornata a Napoli, una città che sa sempre stupirti. Voi napoletani siete delle persone speciali“.
LEZIONE TRA TEATRO E MUSICA
Milva mi mise subito ad agio e, a distanza di anni, devo dire che non fu frettolosa perché ero “un giornalista alle prime armi”. Si dilungò con piacere e la nostra conversazione fu per me una lezione tra teatro e musica: il rapporto speciale con il suo pigmalione Giorgio Strehler, il teatro di Brecht nelle sfaccettature di lente privilegiata dell’esistenza umana, la svolta musicale con il disco dedicatole da Ennio Morricone, il flirt cantautoriale e sperimentale con Franco Battiato, il successo all’estero in Francia e Germania, il desiderio musicale di un disco tutto dedicato a Napoli (nel 1997 avrebbe pubblicato Mia bella Napoli). Mi innamorai di Milva durante quell’incontro e ancora oggi sono convinto che Maria Ilva sia la donna che ogni uomo desidererebbe al suo fianco: intelligente, elegante, guerriera, appassionata, rispettosa della memoria, emancipata lontana dai cliché, senza peli sulla lingua, in difesa dei diritti e concreta all’occorrenza nelle battaglie civili. Quella notte sotto il ticchettio di una macchina da scrivere Lettera 35 buttai giù l’intervista, che fu pubblicata il 18 febbraio 1994. Ricordo l’emozione di leggerla nelle edicole campane, la prima copia la regalai a mio padre.
IL REGALO DI MILVA A MILANO: PRESENTARMI ALDA MERINI
Dieci anni dopo ho ritrovato Milva a Milano in occasione dello spettacolo emozionante Milva canta Merini. Nel 2004, dietro le quinte del Filodrammatici, Milva mi ha accompagnato in camerino da Alda Merini, presentandomi alla poetessa in questo modo: “Alda, ho conosciuto questo giovane giornalista a Napoli diversi anni fa. Si è trasferito a Milano. Lo sai che ho tenuto a battesimo i suoi esordi?”. Ricorderò Milva, oltre che per il suo temperamento artistico, per l’essenza di donna speciale, che oggi mi fa ritrovare queste sue parole:
Penso con rabbia al Covid che l’anno scorso non ha risparmiato neanche Luis Sepúlveda. Conservo con gelosia il ricordo dell’incontro con lo scrittore cileno alla fine degli anni ’90 al Lido di Venezia. Mi ero perso tra le pagine di Diario di un killer sentimentale, prima di finire diritto al cuore del suo mondo letterario. Ricordo con profonda emozione, in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia, la prima della versione animata di Enzo Dalò della sua La gabbianella e il gatto.
ISPIRAZIONE DEL MIO VIAGGIO IN CILE
Alla fine della nostra chiacchierata gli confidai un progetto: mettere da parte i soldi necessari per andare nel suo Cile a rendere omaggio a tutte le vittime di Pinochet. Luis fu molto caro e, lasciandomi una dedica, mi disse: “Cerca a Santiago tutti i luoghi della memoria.” Ho mantenuto la promessa. Cinque anni fa ho attraversato le Ande con un bus e ho vissuto due giorni intensi a Santiago del Cile in memoria dei Desaparecidos e dei prigionieri, proprio come Luis, che non avevano mai smesso di rinunciare al sogno di un Sudamerico libero dalla schiavitù, anche del mito occidentale della velocità.
LA MUSICA DEI LOS PRISIONEROS
Mi vengono da canticchiare brani di Los Prisioneros, musicisti compaesani che cantarono contro la dittura di Pinochet, scoperti proprio durante il mio viaggio a Santiago. Alcuni album, provenienti da la Tienda Nacional al numero 369 di via Merced della capitale, profumano ancora di Cile proprio come la “Gabbianella” di Sepúlveda che fa della fantasia un aquilone per volare sopra le crudeltà della vita.
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