La radio ha scandito il tempo della mia infanzia: il buongiorno di nonna Lucia nel lettone ad ascoltare i radiodrammi trasmessi dalla RAI, nella seconda metà degli anni ’70, o le domeniche di nonno Pasquale a rincorrere le radiocronache calcistiche del suo Napoli. Ai tempi Twitter era fantascienza e l’unico uccellino di mia conoscenza era quello con il cinguettio che indicava il passaggio da una stazione all’altra.
La prima radio toccata con le mie mani? Quella che nel ’71 papà aveva regalato a mamma per il fidanzamento, con il sospetto che quella “scatola parlante” fosse oggetto di stregoneria. Le trasmissioni delle prime radio libere napoletane, inclusa SpaccaNapoli, diluivano il tempo dei pomeriggi tra mamma che completava le faccende domestiche e le dediche romantiche fatte a telefono dagli ascoltatori.
Il primo autoradio invece non si scorda mai. Lo infilai nella mia Panda nel 1995 e feci credere alla mia ragazza di allora che stavano dando in diretta una trasmissione tutta per lei. In realtà, feci partire un’audiocassetta su cui avevo registrato con un mixer una vero e proprio programma. Non impiegò tanto a capire che lo speaker fossi io.
La mia prima volta in uno studio radiofonico fu nei primi anni ’90: ero a Radio Kiss Kiss per un’intervista. Fu lì la resa dei conti. Si dissolse la magia “solo voci” e fui costretto ad associarle ad un volto. Perciò non amo i ricatti del digitale terrestre, che ha costretto la radio a rifarsi un alterego dinanzi alle telecamere.
Solo voci, punto e basta. Voci che, dopo 90 anni, continuano ad aprirci un mondo ovunque ci troviamo. Voci che fanno vibrare minuscole storie infilate tra una canzone e l’altra. Voci che, dentro o fuori dal coro, confermano i versi cantati dal saggio Eugenio Finardi: “Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente. Se una radio è libera ma libera veramente, piace anche di più perché libera la mente”.
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