Pulitzer all’Huffington Post: La resa dei conti del giornalismo digitale
Uno smacco? Il premio Pulitzer se lo sono pappati quelli di Huffington Post, il sito all-news che è l’ultima frontiera del giornalismo digitale. Una sorpresa che gira bene sui social e che legittima ancora i percorsi intrapresi da alcuni di noi. Mentre la carta stampata diventa più vintage – anche i free press stanno andando a farsi benedire – l’informazione tritata nei bit ha ormai il suo device di consultazione: è proprio il tablet che qualche tempo fa lo stregone Steve Jobs consegnò a noi smanettoni e che ora, con i prezzi a ribasso, è sempre più alla portata di tutti.
Stanno scemando i tempi delle caste e dei privilegi di chi aveva in mano la penna e l’inchiostro. Questo non basta più, così come illudersi che sia sufficiente saper scrivere per fare di un sogno di molti la professione di pochi. Mentre Facebook e Google cercano di rinchiuderci tra mura blindate – un ex Google man potrebbe essere al timone dell’avventura Huffington made in Italy – si tentano nuove strade perché qui il nocciolo della questione è quello: chi li tira fuori i soldi per pagare l’informazione del giornalismo digitale, visto che la pubblicità on line non fa fare tanti quattrini?
Mi riferisco a quella di coloro che lo fanno per mestiere. I social network sono diventati la piattaforma più efficace per distribuire contenuti. Tuttavia, chi produce contenti social è sotto l’occhio del ciclone: non è poi così banale buttar giù un update di Facebook o una Tweettata, così come per uno storyteller non vale sempre la regola che la leggerezza la faccia franca sulla coerenza del trattamento riservato a qualsiasi notizia.
I prossimi mesi saranno cruciali ed è inutile stare a piangersi addosso, tanto l’editoria continuerà a depennare tanti posti di lavoro. Tutti a casa? Assolutamente no. Non è l’inizio, ma paradossalmente la fine del tunnel. Affacciandosi in Europa e al di là dell’oceano, stiamo capendo che direzione prendere, affinché ognuno di noi dia un contributo attivo alla definizione del nuovo identikit del giornalista, tenendo conto del lettore 3.0. Quest’ultimo avrà una voce più partecipativa, adocchierà l’informazione se si sentirà parte di una community e sarà pure disposto a pagare la notizia, se troverà professionisti veloci e puntuali. Le penne lumache finiranno in soffitta, perché in questa fase di interegno il destino è segnato: la carta sarà la landa isolata dell’opinionista, il digitale la spugna delle news in tempo reale. Sarà la volta buona per sbattercene di ordini di settore, cattedre o tribù?
Ales
“se troverà professionisti veloci e puntuali”. Ecco, hai appena inquadrato uno dei problemi della stragrande maggioranza del giornalismo tradizionale, almeno italiano. Inoltre, trovo intollerabili quegli articoli raffazzonati, dalle fonti non controllate, con un’ortografia da prima elementare e una grammatica da seconda.
I giornalisti (italiani) dovrebbero imparare ad amare tanto la forma quanto la sostanza, perché una cattiva forma veicola male una buona sostanza, la indebolisce, e dà l’idea che non ci sia alcuna sostanza. Molto spesso una cattiva forma è indice di nessuna sostanza, è vero, ma spesso mi trovo a leggere pezzi potenzialmente interessanti che ti fanno passare la voglia di condividerli per il semplice fatto che sono scritti con i piedi. E non mi si venga a dire che la causa sta nel fatto che il giornalista è sottopagato o è un ghostwriter a 2,50€ al pezzo, 4 se va bene. Non è una scusa. I giornali si fanno finanziare due volte dai lettori: una volta con il prezzo del giornale, una volta con i finanziamenti all’editoria. Offrire contenuti perfetti sia nella forma che nel contenuto dovrebbe essere il loro obiettivo quotidiano, dovrebbero avere persone che per la redazione fanno semplicemente questo: correggere le bozze e verificare le fonti.
Leggevo un paio di giorni fa come nelle redazioni di giornali come il NYT ci siano dalle otto alle dieci persone che notte e giorno fanno una sola cosa: verificare le fonti degli articoli in via di pubblicazione. Questi “soggetti oscuri” svegliano gli autori dei pezzi in piena notte se una fonte non li convince (è il motivo per cui, ad esempio, Nick Hornby ha rifiutato l’offerta di divenire critico musicale del NYT). Ecco, questo è un buon modello di giornalismo. Anche questo in crisi, per carità, ma più per una nostalgia del cda verso il vecchio lettore e il vecchio rassicurante supporto di carta, che per una vera decadenza dell’arte e del mestiere.
La differenza tra molti (tutti?) giornali nostrani e il NYT è che oltreoceano sono furbi, hanno capito che per sopravvivere (e continuare a guadagnare) domani devono assumere i giornalisti di domani che sappiano parlare attraverso i supporti di domani ai lettori di domani, facendosi capire anche dai lettori di oggi. Queste sono scelte di lungo periodo. Che messe insieme all’arte (fatta di precisione, cura, puntualità, attenzione, profondità, velocità, innovatività) vogliono dire saper fare un mestiere. Queste sono quelle cose che fanno dire al lettore (di oggi e di domani): “tu meriti i miei soldi”.