L’America è di Trump
Franklin D. Roosevelt, nel corso degli anni da inquilino della Casa Bianca, aveva dichiarato: “La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature”. L’America dell’incertezza, della paura e dell’economia altalenante ha scelto forca e populismo. Donald Trump è stato eletto 45° Presidente degli Stati Uniti e mette le mani su Congresso e Corte Suprema.
Gli USA hanno sciaffeggiato l’oligarchia dei Clinton e di riflesso hanno svincolato dalla memoria il quadretto della Happy Family democratica imbarazzata dal Sexygate.
Hillary Clinton, che sembra uscita dalla saga televisiva dei Carrington – ve la ricordate la serie tv Dinasty? – è stata messa in un angolo come la reginetta sculacciata del ballo di fine anno scolastico: ieri dal carismatico Obama, primo presidente afro-americano; oggi dal tycoon Trump, a tratti rivisitazione in stile repubblicano del generale Jack D. Ripper, in bilico tra le sfumature letterarie di Alert e le visioni del Kubrick da dottor Stranamore.
Esattamente un anno fa, mentre i sondaggisti collassati incitavano Lady Clinton all’ascesa al trono, ho intrapreso il mio viaggio on the Road negli USA per il Ringraziamento. Da allora fino all’estate scorsa ho incrociato in viaggio 43 studenti americani in età compresa tra 18 e 25 anni (provenienza Stato di New York, New Jersey, Tennessee, vacanzieri in Giappone e in Italia). Il 25% avrebbe dato il terzo mandato a Barack Obama e il 75% mi ha risposto: “Hillary, il meno peggio? Non lo vogliamo il meno peggio, piuttosto resti vacante la poltrona”.
L’America, vissuta da viaggiatore incallito come la patria dei contrasti, è riuscita a passare con disinvoltura dallo Yes, We Can di Obama, frullato avanguardista dell’American Dream, agli slogan insolenti e volgari di Donald Trump. I veleni di questa campagna elettorale hanno messo in secondo piano lo sfratto di Obama dalla Casa Bianca.
L’America aveva voglia di virare tra le braccia di un Repubblicano? No, forse ha voluto chiudere con il lucchetto in cantina, una volta e per tutte, le canzoni di Dylan insignite dal Nobel, il sacrificio di Martin Luther King per i neri d’America, il bagno di sangue del Vietnam, le ondate di rivendicazioni pacifiste, lo tsunami per i diritti civili.
Trump, vestito con un soprabito sgargiante di estremismi e toppe guerrafondaie, è stato premiato dagli americani che volevano far affondare, come in una battaglia navale, l’establishment. Riconosciamolo, in questo c’è riuscito. Si volta pagina nella storia americana perchè da oggi non esiste più l’America dei bianchi, dei neri, della working o middle class, ma quella che salirà o scenderà dal carro del vincitore. L’unica certezza resta la sconfitta storica di Hillary Clinton.
Siamo alle porte di un gelido inverno, ingabbiato nel bianco e nero cinematografico di Gordon Willis, e chissà quanto tempo impiegheremo prima di tornare a cantare Waitin’ on a Sunny Day di Springsteen, brano con cui nel 2002 danzammo magicamente sotto la pioggia allo stadio San Siro di Milano, sognando un’America che non sarà di certo quella murata di Trump.
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