Stamattina, seduta accanto a me sulla linea rossa di Milano, c’era una donna che parlava a telefono. Ho capito dopo qualche battuta che il suo interlocutore era la figlioletta.
“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”
Queste sono state le ultime parole di una conversazione andata avanti parecchi minuti senza una risoluzione. Di sbieco mi sono soffermato sul viso sgomento di questa mamma che, dopo aver concluso la telefonata, è scoppiata in lacrime affondando nello sciarpone intorno al collo.
La gente distratta continuava a salire e scendere con indifferenza, mentre io mi sentivo impotente di fronte a questo urlo sibillino di immenso dolore.
Ho ripensato a quelli della mia generazione che avevano soltanto il papà da spartire con il lavoro. Mia mamma di professione ha fatto la casalinga e mi sono risparmiato la paura e l’angoscia infantile del distacco quotidiano, se non nelle ore dei tempi della scuola materna, in cui non si andava mai oltre l’ora di pranzo.
Non bisogna essere un sociologo per cucire i cambiamenti nella nostra società degli ultimi quarant’anni così come non occorre un pediatra o uno psicologo per rendersi conto del dolore e della frustrazione che scatta da entrambi le parte, figli e mamma.
Un lettore ha commentato così il mio tweet del buongiorno:
A proposito del giudizio mi è tornato in mente Platone:
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.”
Il viaggio in metropolitana di questa mattina è dedicato a tutte le mamme che ogni mattina combattono questa battaglia dentro e fuori il cuore.
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Quasi touché. Caro Pipolo, accetto la sua critica al mio commento forse frettoloso. Ognuno sicuramente vive ogni giorno la sua battaglia, e la mamma della metropolitana ha la sua, che merita comprensione e compassione. Io volevo solo osservare l’italica abitudine di chiamare “amore” il bambino sempre e comunque. Ma tant’é, grazie per avere considerato il mio commento pur non condoviso nel significato.
MM