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Carmine D’Amora, il capotreno Trenitalia che fa la differenza in Campania

I deficit del trasporto ferroviario regionale passano spesso ai doveri della cronaca, dimenticando il personale che può fare la differenza. Chi percorre come me migliaia e migliaia di chilometri in treno all’anno in Italia sa bene che il viaggiatore dell’Alta Velocità è più tutelato rispetto a quello di “serie B” del trenino regionale. Se poi capita l’inconveniente la forbiciata è ancora più ampia.

La Campania finisce spesso sotto l’occhio del ciclone per i disservizi del trasporto ferroviario locale, ma non si parla mai delle risorse che possono far luccicare Trenitalia in un momento di criticità.
Carmine D’Amora, ingegnere meccanico con lode di 27 anni, è un giovane Capotreno Trenitalia di Pompei, alla periferia di Napoli. Se non ci fosse stato lui sul treno metropolitano 26059 Caserta-Napoli Campi Flegrei, il ritorno nella terra in cui sono cresciuto sarebbe stato associato ad un venerdì nero: quante sono le probabilità di ritrovare un pacco dimenticato con documenti importanti?

La polizia ferroviaria di Napoli Centrale si è messa in contatto con Carmine, spiegando l’accaduto. Nel tratto metropolitano tra piazza Garibaldi e Mergellina, a prima mattina, il treno era zeppo di passeggeri e il giovane capotreno ha attraversato i vagoni, riuscendo a recuperare il pacco e tutto il suo contenuto. Non ho mai conosciuto di persona Carmine, perché in realtà la consegna è avvenuta in altre mani. Attraverso i social network mi sono messo alla ricerca di questo “eroe della ferrovia” per ringraziarlo e lui mi ha risposto con umiltà: “Ho fatto semplicemente il mio dovere, tutto qua”.

Aveva scritto un tempo lo scrittore e rivoluzionario cubano José Julián Martí Pérez “Aiutare chi ha bisogno non è solo parte del dovere, ma anche della felicità.” Carmine D’Amora lo ha messo in pratica con l’umiltà di chi è andato oltre il proprio dovere.
Un paio d’anni fa la mia Freccia da Milano per Napoli ritardò di mezz’ora. Fu avvertito il capotreno del locale corrispondente, per pochi minuti non volle aspettarmi e persi l’ultima coincidenza per Caserta via Cancello. Mi pagarono un taxi per raggiungere la destinazione. Questo per dire che non tutte le risorse di un’azienda sono uguali.

Viaggiando in 48 Paesi del mondo ho imparato che sul tuo cammino incrocerai spesso persone disposte ad aiutarti. Basta saperle intercettare. La routine e la frenesia ce lo fanno spesso omettere.
In Carmine ho ritrovato riflesso ciò che ero alla sua età, un ragazzo del Sud energico e pieno di voglia di realizzare tanti piccoli grandi sogni. Spero che questo gesto aiuti il suo datore di lavoro e tutti coloro accecati dal pregiudizio a confermare che il nostro Meridione può essere orgoglioso della generazione Millennials che il capotreno di Pompei rappresenta egregiamente.

Festa del Papà: La bici senza rotelle

Nel luglio del 1980, in un viale di Paestum, mio padre mi insegnò ad andare in bici senza rotelle. E’ un ricordo nitido che mi balena in mente con prepotenza in occasione della Festa del Papà, la prima senza di lui.

Mi sembra di rivivere in questo 19 marzo quel pomeriggio in cui mi lasciò andare da solo: non potevo girarmi, altrimenti perdevo l’equilibrio. Sentivo comunque che il suo sguardo mi accompagnava, proprio come oggi, mentre sbirciavo i villeggianti ai lati della strada.

Oggi su quella stessa strada ritrovo tutti coloro che ci hanno dato supporto negli ultimi anni della malattia di mio padre. L’articolo, pubblicato stamattina su Linkiesta.it, è dedicato a chi fa della Salute un diritto di tutti.

Noi che fingevamo di snobbare Dylan e Beverly Hills 90210…

Quando trovavo mia sorella piazzata davanti al televisore a colori a 8 canali, c’era Beverly Hills 90210. Nel ’90 mi illudevo di essere fuori dal tunnel dell’adolescenza e allo stesso tempo non disdegnavo le prime stagioni della serie tv che diedero a Luke Perry e al personaggio di Dylan una fama planetaria. Era la prima volta che vedevo riflessi come in uno specchio i teenager e il loro mondo complicato, anche se i personaggi di Beverly Hills erano lontani anni luce da noi ragazzi di periferia.

Quando Dylan McKay e i suoi amici entrarono nella vita della mia generazione, compresi noi che facevamo finta di snobbare Beverly Hills 90210, Bush padre non aveva ancora trafitto l’Iraq di Saddam Hussein con l’operazione Desert Storm.
Quella serie tv fu per me una finestrella sugli USA che sognavo di raggiungere: accadde due anni dopo il mio primo sbarco intercontinentale, a New York, ma  l’America che trovai era tutt’altro rispetto ai filtri del tubo catodico, nonostante le Torri Gemelle fossero ancora in piedi.

Nelle edicole di Manahattan impazzava il volto di Luke Perry sulle copertine delle riviste per teenager così come in Italia il settimanale Cioè dedicava al piccolo clan di adolescenti californiani copertine e servizi.
Se ripenso alle mie compagne di liceo, quante avrebbero fatto follie per uscire a cena con Dylan, senza sapere quale fosse il taglio del confine tra il personaggio della sceneggiatura e la persona della realtà.

Nell’aprile del 2005 ero a Beverly Hills alla ricerca di una delle ultime case di Marilyn Monroe. Si avvicinarono due ragazze sulla trentina e mi chiesero: “Sai dove si trova la casa di Dylan?”. All’inizio pensavo si riferissero a Dylan Thomas o Bob Dylan, ma più tardi su un autobus locale verso la spiaggia di Santa Monica mi resi conto che facevano riferimento al personaggio del telefilm.
Questo ritaglio di viaggio oggi mi torna alla mente, oltre lo steccato dei pregiudizi e delle fasi d’età che vorrebbero mettere noi stessi gli uni contro gli altri, come se l’entusiasmo di un adolescente dovrebbe cedere il passo all’ipocrita compostezza dell’età adulta: è legittimo provare dolore per la perdita di qualcuno mai conosciuto di persona che ha dato vita ad un personaggio a cui abbiamo fatto tante confidenze? 

Sì, lo è oggi più che mai e non per diritto acquisito di una fottutissima nostalgia. E’ maledettamente legittimo pensare a Luke Perry come ad un fratello maggiore che se n’è andato via, sui social lo fanno teneramente pure coloro “anagrifacamente troppo avanti” rispetto ai tempi della messa in onda della serie tv.
Noi che fingevamo di snobbare Dylan di Beverly Hills 90210 perché “ci fotteva” sempre l’attenzione della ragazza a cui non piacevamo, dopo quasi trent’anni ci ritroviamo tutti insieme riconoscenti: Luke ha fatto germogliare in sordina la voglia di tornare ad essere noi stessi, ragazzi di periferia senza i ricatti degli starnazzi virtuali, felici anche senza i soldi, le macchine e le bellezze di plastica che circolavano nella California televisiva.

A San Valentino verso casa di Mimì Bertè

Quando acquistai la prima casa, mi sentii fin dal primo momento “vicino mancato di Mimì Bertè”. Distavo in linea d’aria una manciata di chilometri dall’ultima abitazione della grande interprete. Un anno dopo il trasloco, mi misi in auto e cercai quelle mura a Cardano al Campo, in provincia di Varese, che l’avevano custodita fino all’ultimo giorno.

Mentre mi avvicinavo allo stabile, mi tornarono in mente le parole di Matteo, agente immobiliare e primo amico della zona: “La casa è lo specchio dell’anima delle persone.” In realtà, io e Matteo stringemmo amicizia proprio su questa riflessione e lo sforzo di guardare oltre la corteccia della professione.
Quella stradina a Cardano e quella casa – non avevano niente a che fare con la residenza di una diva – mi fecero ritrovare la persona, la semplicità, la bellezza di donna del Sud, lontana dal personaggio Mia Martini costruito dai discografici di allora.

Le mura della casa a Cardano trasudavano di antidivismo, perché Mimì Bertè aveva battagliato da donna emancipata anche contro i pregiudizi che ammazzano la personalità e il maschilismo avvelato ai vertici dell’industria discografica italiana negli Anni di Piombo.
Chi ha seguito con passione e costanza i suoi passi musicali, sostenendola anche con l’acquisto dei dischi nel corso del tempo, non può accontentarsi di una fiction televisiva o delle dichiarazioni audaci dell’attrice protagonista, a proposito dei “no clamorosi” di chi non è voluto comparire: “Voglio credere sia stato tutto un atto d’amore di Mimì, che abbia scelto lei che facesse parte del suo film solo chi le voleva veramente bene.”

Nessuno dovrebbe avere l’arroganza di farsi portavoce dell’intimità di Mimì. Oggi, nel giorno di San Valentino, Festa degli Innamorati, vado in direzione della sua casa, perché Mimì Bertè è stata innamorata anche dell’amore e dei sogni.
L’immaginazione mi farà vedere danzare, tenendosi per mano su un balcone di Cardano al Campo, l’interprete e l’autore che le scrisse questa canzone:

“E non finisce mica il cielo
Anche se manchi tu,
Sarà dolore o è sempre cielo
Fin dove vedo.”

Mimì Bertè resta un angelo libero e questo lo sanno bene tutti coloro che credono ancora nel potere strabiliante dell’immaginazione.

Prince Jerry, il migrante nigeriano che voleva vivere in Italia

Lunedì scorso ho visto un mucchio di gente che sbraitava per i ritardi dei treni provenienti da Genova. Si voiciferava l’ennesimo suicidio sui binari. Nonostante l’accaduto drammatico, la preoccupazione si era ridotta alla solita cantilena: “Proprio oggi doveva buttarsi sotto il treno?”.

Ieri sera, attraverso una catena di messaggi finita su whatsapp, ho scoperto la vicenda nascosta dietro Prince Jerry, il  venticinquenne nigeriano suicida. A diffondere la notizia è stato il messaggio di don Giacomo Martino, Responsabile del centro accoglienza Migrantes del capoluogo ligure:

Cari tutti, ieri sono stato tutto il giorno a Tortona .
Uno dei nostri ragazzi di Multedo, Prince Jerry, dopo essere stato diniegato prima di Natale e scoprendo che non avrebbe potuto contare neppure sul permesso umanitario che è stato annullato dal recente Decreto, si è tolto la vita buttandosi sotto un treno. Ho dovuto provare a fare il riconoscimento di quanto era rimasto di lui. È stato un momento difficile ma importante perché ho ritenuto di doverlo accompagnare in questa sua ultima desolazione.
Vi scrivo perché abbiamo deciso di portarcelo su a Coronata e seppellirlo nel cimitero lassù.
Venerdì mattina alle 11:30, all’Annunziata, celebrerò il suo funerale.
Quanti vorranno e potranno essere presenti sarete il segno dell’ultimo abbraccio terreno a questa vita così desolata.
Una preghiera per lui e la sua famiglia.

Le parole di don Giacomo non hanno bisogno di commenti, sono chiare, ci restituiscono il peso di sensate riflessioni. A ciascuno la sua secondo coscienza: continuiamo a celebrare la Giornata della Memoria, svuotandola con luoghi comuni, nascondendo sotto il tappeto dell’omertà la nostra insistenza a costruire “lager invisibili”, piccoli o grandi che siano.
Come aveva raccontato Primo Levi a Enzo Biagi in una bellissima intervista “Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio, vuol dire accampamento, vuol dire luogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione”.

Per noi, gente comune e istituzioni, lager cosa significa?
Prince Jerry, eccellente laureato in chimica, è stato sepolto nel cimitero del quartiere genovese di Coronata.  Persino i costruttori di “lager invisibili” lo vedranno, sotto le sembianze di un angelo, tra i cieli di Genova.

Lui sì che ha imparato a volare, da solo, senza le preghiere di noi in balia delle barriere.

Cover ARTWORK: Eric Johnson

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

I viaggi mattutini in metropolitana mi infastidiscono per la frenesia delle persone, prigioniere della routine tra spintoni e rincorse di quel tempo di cui non siamo padroni.
Stamattina, seduta accanto a me sulla linea rossa di Milano, c’era una donna che parlava a telefono. Ho capito dopo qualche battuta che il suo interlocutore era la figlioletta.

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

Queste sono state le ultime parole di una conversazione andata avanti parecchi minuti senza una risoluzione.  Di sbieco mi sono soffermato sul viso sgomento di questa mamma che, dopo aver concluso la telefonata, è scoppiata in lacrime affondando nello sciarpone intorno al collo.
La gente distratta continuava a salire e scendere con indifferenza, mentre io mi sentivo impotente di fronte a questo urlo sibillino di immenso dolore.

Ho ripensato a quelli della mia generazione che avevano soltanto il papà da spartire con il lavoro. Mia mamma di professione ha fatto la casalinga e mi sono risparmiato la paura e l’angoscia infantile del distacco quotidiano, se non nelle ore dei tempi della scuola materna, in cui non si andava mai oltre l’ora di pranzo.

Non bisogna essere un sociologo per cucire i cambiamenti nella nostra società degli ultimi quarant’anni così come non occorre un pediatra o uno psicologo per rendersi conto del dolore e della frustrazione che scatta da entrambi le parte, figli e mamma.

Un lettore ha commentato così il mio tweet del buongiorno:

A proposito del giudizio mi è tornato in mente Platone:

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.”

Il viaggio in metropolitana di questa mattina è dedicato a tutte le mamme che ogni mattina combattono questa battaglia dentro e fuori il cuore.

L’anno che verrà: l’uomo sul Po che nutriva i gabbiani

Il caravanserraglio social ha provato a schiacciare la strada dell’anno che verrà con l’abbuffata di selfie familiari che facevano un baffo alle foto istituzionali di un tempo della Royal Family, di brindisi con sorrisi taroccati per sgomitare quello del piano di sotto della  “bacheca” e urlare “stiamo tutti bene”, di video discorsi casarecci dei vicini di quartiere, che ostentavano frasette surgelate per convincerci di essere diventati i nuovi profeti  dell’era del cinghiale bianco. Quanto marcio buonismo è scivolato già sulla buccia di banana dei buoni proposti per questo 2019?

I miei vagabondaggi mi rendono impermeabile e indifferente a questo tam tam e, in particolare il primo del 2019, mi ha regalato una suggestione nella prima mattinata dell’Epifania, a Torino, sulla sponda del Po.

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L’uomo che condivide le briciole della sua parca colazione con i gabbiani, ascoltando il sussurro intimo del fiume, è uno schiaffo alla miserabile intolleranza che annebbia i giorni nostri: le coperte di un senzatetto gettate nell’immondizia dal vicesindaco di Trieste o il tifo razzista degli ultrà sugli spalti dello stadio San Siro di Milano.
L’uomo che nutre i gabbiani in riva al Po torinese non è un set costruito come le tavole imbandite dall’esercito di chef provetti parcheggiatti nelle nostre case per l’arrivo dell’anno nuovo, ma è uno sciame di altruismo che vigila sull’essenziaità della vita e sulla tolleranza.

Essenzialità e tolleranza restano il valore aggiunto e l’unico lusso che dovremmo concederci in questo 2019, togliendoci le bende della routine che ci fanno perdere la bussola della quotidianità. Un viaggiatore della vita non dovrebbe mai restare affacciato alla finestra, perché rinuncerebbe alla cura dei dettagli. Bisogna tornare in strada, girarsi intorno, guardare gli altri negli occhi.

Non smetterò mai di ringraziare la strada per avermi fatto vagabondo e concesso l’ultima chance di afferrare l’anno che verrà.

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto è fatta dalla carta ingiallita di una vita insieme e dell’inchiostro dei sogni e delle delusioni di una generazione, la tua, che mi contagiano in questi giorni gelidi: le pedalate sotto gli acquazzoni verso scuola, sulla “via vecchia” con i tuoi compagni di classe, alla periferia di Napoli; la gioventù con “gli amici per sempre” tra Antonio, i Tonino, Pasquale, Nino;  gli anni di lavoro in tuta a spargere elettricità, illuminando paesi e città all’ombra del Vesuvio insieme a colleghi che ti hanno voluto bene come Tommaso e Carlo e di capi come Pietro, pronti a ribadire che l’onestà era la tua medaglia al valore; le battaglie sindacali a fianco di Salvatore prima che il socialismo laico fosse imbrattato dai politici corrotti perché, come mi ha ricordato il prete operaio don Peppino Gambardella, “tuo padre è stato un onesto lavoratore e merita stima e affetto, egli riceverà il premio della sua rettitudine e della sua laboriosità dal Signore giudice buono”.

Buon Natale, papà. L’ulltima lettera di un figlio imperfetto è fatta dei 46 anni di matrimonio con Margherita, lei che ti è rimasta accanto fino alla fine nella buona e cattiva sorte e allora, da ventenne emancipata di città, fece tremare la lunga figliata di provincia e battagliò contro le arroganze e arretratezze della famiglia patriarcale di stampo contadino.
Io e Rossella siamo il frutto di questo amore e la tua paternità, fatta di generosità e cura per la nostra crescita, è stata tra i doni più intensi ricevuti sotto l’albero della vita. Il coraggio te l’ho letto negli occhi per l’ennesima volta qualche mese fa, quando ti sei ostinato a voler salutare per l’ultima volta il territorio a cui sei rimasto legato per sempre, mortificando la malattia, raccogliendo con le ultime forze i frutti dagli alberi piantati da tuo padre quando eri piccino piccino.

Buon Natale, papà. Per tutte le volte che ti ho disobeddito e contrastato in questa mia smania di esplorare la vita, dai tempi in cui dissi no all’ammuffito liceo nel feudo di Maddaloni o alla divisa militare fino alla scelta professionale di fare di biro e inchiostro un mestiere, delegando al Teatro, al Cinema, alla Musica e alla Letteratura i punti cardinali della mia ricerca della libertà.  Ha ragione la mia amica d’infanzia Giuliana scrivendomi: “Tuo padre ti ha fatto un uomo libero”. Sì, mi hai lasciato libero di scegliere anche quando i nostri punti di vista erano completamente all’opposto.
Mi hai lasciato libero di fare della valigia l’imbarcazione per girare il mondo, per andare a vivere altrove, assecondando la mia spudorata convinzione che “le radici hanno le gambe lunghe”.

Buon Natale, papà. Ho recitato fino all’ultimo istante il ruolo del figlio distaccato, perché mai avrei voluto trattarti con la compassione per un ammalato. Sono riuscito fino ad oggi a conservare le lacrime. Le userò in futuro per annaffiare la terra sotto i piedi in qualsiasi parte del mondo mi troverò, facendo germogliare i fiori dei tuoi insegnamenti e, al tempo stesso, facendoti irritare come allora tutte le volte che continuerò a denigrare la maggior parte dei parenti come inutili suppellettili; a beffeggiare la provincia con i suoi riti sociali, le mediocrità e l’ostentazione del vivere per apparire; a difendere quel malsano egoismo individualista per smontare i patriarchi e le matriarche che vorrebbero la famiglia una fradicia prigionia per ridurre noi anime libere a propria immagine e somiglianza.

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto non giace sotto il piatto di un tavolo natalizio, ma nel taschino della tua tuta da lavoro, che non smetterò mai di sentirmi addosso sotto la giacca e cravatta. Oggi che vedo l’albero di Natale spento, senza la tua santa pazienza a rimettere apposto quelle lucine, e non ti trovo in stazione, in aeroporto, ovunque ad aspettarmi, mi consola la speranza che un giorno accadrà: ti ritroverò all’ultima fermata della mia vita e non avremo più il peso del bagaglio degli affanni umani.

Buon Natale, papà e perdonami per essere stato un figlio imperfetto. E’ stata la mia strada per volerti bene, a modo mio, salvaguardando la saggia affermazione di un miscredente portoghese che, dopo un prodigio nel piccolo villaggio di Fatima, dichiarò ai miei colleghi cronisti di un secolo fa: “Solo gli sciocchi pensano che Dio non esiste”.

Cartolina dal Brasile: Fuori dal mondo in Amazzonia come Fitzcarraldo

Cosa te ne fai di quattro giorni in Brasile con la spina staccata dal mondo a 140 chilometri da Manaus? Realizzi con un budget ridotto il sogno grande di una vita in viaggio: vivere nel cuore dell’Amazzonia.

Grazie a Debora e alla sua famiglia il mio quotidiano nella pousada sul fiume Juma, uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni, prende la piega di un isolamento in cui la mia anima torna a scorrere nelle vene del quotidiano. Qui arriva soltanto corrente elettrica e in alcune ore del giorno va via.

Cobra, la nostra guida, è nato in una delle tribù del Nord della Foresta e da adolescente sognava di andare via e sposare una ragazza europea.
Da autodidatta ha imparato sei lingue, fa per mestiere la guida perché ha deciso di restare a vivere in questa zolla del pianeta e sposare una donna dell’Amazzonia del posto proprio come è successo ad una famiglia di indigeni con cui ho condiviso una mattinata.

Il figlio si sposerà l’anno prossimo e fervono i preparativi per la casa. Entrambi i genitori, sulla sessantina, si erano conosciuti ad una festa nella foresta. In realtà, lui aveva buttato l’occhio su un’amica, ma lei riuscì a farsi notare.
L’accoglienza a casa è davvero calorosa, lei nel tempo libero si diletta a fare collanine, lui cura l’immenso orto con i cui prodotti sfama tutta la famiglia.

Il tempo di questi giorni si dilaziona tra l’alba più densa dei miei 45 anni, 6 chilometri a piedi nella foresta con la lezione su come le piante producono rimedi curativi per gli indigeni, una notte a dormire su un’amaca nel cuore dell’Amazzonia, pesca, canoa,  avvistamento di delfini e tucani, uccelli meravigliosi rari, ore e ore su una piccola barca.
Il senso di tutto questo? Trasformare emozioni in ricordi di vita vissuta, una vita fatta di semplicità che mi ha restituito a gocce l’essenzialità e la sua immensità.

Questi quattro giorni  mi hanno cambiato in meglio. L’ultima sera, sotto le stelle, mi sono sentito come il Fitzcarraldo di Herzog chiacchierando a lungo con Martin, musicista in un’orchestra del Nord della Germania, tra una caipirinha ghiacciata, i ricordi di Abbado, Karajan, Jarrett e la smania nottambula di portare le partiture giocose mozartiane nel cuore dell’Amazzonia.

Aveva ragione mio padre: “La natura è l’arte di Dio”. Obrigado, Amazzonia.

Cartolina dall’Amazzonia: il soliloquio del Rio delle Amazzoni

Il Rio delle Amazzoni è stato il fiume più distante da me che da bambino desideravo navigare.  Quando la maestra Iole mi accompagnò alle elementari, attraverso un atlante geografico, lungo quel corso fluviale ebbi la percezione infantile di quanto le distanze fossero incolmabili tra i luoghi e gli uomini.
Per me il corso d’acqua più lungo del mondo, che attraversa Perù, Colombia e Brasile, era secondo la mia immaginazione il luogo in cui Dio andava a lavarsi senza la scocciatura di portarsi dietro lo spazzolino da denti.

Navigarlo a “nel mezzo del cammin di nostra vita” non solo ha esaudito uno dei più grandi desideri di viaggiatore, ma mi ha preparato all’entrata nel polmone verde della Terra: la foresta dell’Amazzonia. In nessuna navigazione ho mai provato questo prepotente senso di libertà che ti sgancia dell’ottusità della quotidianità, i cui ricatti vorrebbero fagocitarti in mondi che non ti apparterranno mai.

Poi il lungo e strabiliante abbraccio tra il Rio delle Amazzoni e il Rio Negro, dove le acque azzurre del primo e quelle scure del secondo si incrociano in uno spettacolo della natura che conferma un comandamento del Creato: siamo meticci come queste acque e il colore della pelle così come quello delle culture dei popoli è destinato a fondersi, e neanche lo sbianchetto dell’intolleranza potrà fermare tutto questo.

Non avrei voluto mai staccarmi da quelle onde. Sapevo che una parte dell’anima mia avrebbe continuato a navigare il Rio delle Amazzoni ripetendo a memoria i meravigliosi versi di Wilson Harris, parte preziosa del mio bagaglio letterario:

Lo spirito profondo dell’innocenza
è maturità senza fiato senza sogni:
le mani nere degli alberi si allungano
con pazienza. Le ali d’un uccello
fanno vento all’aria che brucia.
Le forze esterne, le forze interne
sono illusioni distinte che vanno
oltre il buio e le luci con un coltello a tagliare via tempi di dentro e di fuori, gli uni dagli altri,
nel corpo di un animale o di un dio
il cui passo furtivo è un’immateriale successione
di movimenti, così vasti e precisi, che non ha gesti la sua azione.