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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Diario d’Estate: 4000 chilometri in treno su e giù per la Lombardia

Dopo aver percorso migliaia di chilometri in giro per l’Europa, mi sono detto perché non farlo in Lombardia? Sì, proprio nella regione in cui vivo da quasi 10 anni. L’opportunità me l’ha offerta Trenord, in occasione del battesimo della nuova società del trasporto pubblico locale su ferro. Due mesi fa sono stati distribuiti biglietti promo per viaggiare gratis in treno il sabato e la domenica in tutta la regione. Me ne sono procurati abbastanza per costruirmi nei fine settimana, dal 29 maggio al 31 luglio, tanti mini itinerari, che mi guidassero a scoprire i mille volti di questo territorio. A fare da colonna sonora, durante gli spostamenti, c’erano le canzoni di Davide Van de Sfrooss, che in quel poetico dialetto comasco hanno incorniciato emozioni sparse qui e lì.
Questi 4000 chilometri e passa sono stati affrontati con lo spirito del vagabondo che utilizza il treno per riappropriarsi della vera identità del viaggio: quella che si sbottona, lasciando perdere “la sindrome dei chilometri”. Mi spiegate il senso di affacciarsi a Sharm o a New York, senza aver spalancato la finestra nei luoghi che ci circondano? Magari quelli che viviamo distrattamente, di passaggio, rinunciando “al tempo del viaggio”, che non è quello del turista “con la panza al sole”. E’ quello “slow”, il vagabondaggio spensierato alla scoperta dell’invisibile. Nel mio immaginario il treno è da sempre il mezzo di trasporto per acciuffare i dettagli dei luoghi. Penso alle linee secondarie della Lombardia, a quei trenini locali che si fermavano in ogni stazione, dilatando persino gli spazi delle piccole distanze e diluendo la frenesia di viaggiare ad alta velocità. Il sussulto per la scoperta non era soltanto nella meta scelta – dalle vette della Valcamonica e della Valtellina alle coste degli splendidi laghi; da città d’arte come Mantova a paesotti pittoreschi come Chiavenna – ma nel viaggio in treno, negli incontri casuali: Antonio, capostazione in pensione, che mi ha raccontato di quando è finito su un set di un film con Claudia Cardinale, negli anni dell’Italietta in bianco e nero del boom economico; il signore che mi ha regalato una lezione culinaria sui pizzoccheri valtellinesi; Lilia, Paolo e i loro genitori, raccolti nello spirito di un bellissimo focolare familiare; Marco, il ragazzino sulla sedia a rotelle, che sognava di fare il pilota; il giovane algerino che aveva lasciato nella sua terra natia il sogno di potersi realizzare in patria; Tamara, la chiavennasca riccioluta, nel cui sguardo si intravedeva la semplicità delle sue valli; il capotreno veneto, sposata con un casertano, che con tono appassionato mi ha trasmesso l’entusiasmo per un lavoro che negli ultimi anni coinvolge sempre più donne. Con loro e con tanti altri ho condiviso questi spostamenti perchè dopotutto sono stati luoghi e persone, vissute da un treno, a suggerirmi nuove storie, quelle di “casa mia”. Storie che forse non si incroceranno mai, proprio come i binari del treno, che da bambino mi fecero sognare di guardare oltre i luoghi dove stavo crescendo.

Periodo: 29/05 – 31/07/2011
Chilometri in treno: 4.300
Giorni effettivi in viaggio: 15
Linee ferroviare percorse: Milano-Verona; Milano-Mantova; Milano-Piacenza; Milano-Varese; Milano-Luino; Milano-Chiasso; Milano-Tirano; Milano-Bergamo; Bergamo-Brescia; Brescia-Edolo; Cremona-Brescia; Milano-Pavia; Milano-Mortara.
Destinazioni: Rovato, Ospitaletto, Brescia, Desenzano del Garda, Peschiera del Garda, Iseo, Marone, Pisogne, Boario Terme, Edolo, Sondrio, Tirano, Chiavenna, Morbegno, Colico, Varenna-Esino, Lecco, Lodi, Codogno, Mantova, Cremona, Pavia, Vigevano, Luino, Laveno, Varese.
Con la  bicicletta (biglietto extra 24h €3): Mantova (bis), Cremona (bis), Piacenza, Chiasso (CH), Como, Bergamo, Brescia (bis), Desenzano del Garda (bis).

Addio Amy Jade: prendi la valigia e portati via…

Amy Jade, prendi la valigia e scappa senza il Winehouse. Adesso è di troppo, non ti servirà più. Portati via l’odore del catrame che respiravi passeggiando sulle sponde del Tamigi, le cover dei chitarristi ambulanti sotto le metropolitane londinesi, le lacrime amare dei tuoi, tappate in una bottiglietta come quella che facevi galleggiare nelle estati sul mare di Brighton.
Amy Jade prendi la valigia e scappa spedita, come quando correvi incontro a tuo padre, che ti faceva salire sul suo taxi e ti incoronava reginetta delle vie del tuo quartiere. Portati via lo humor yiddish, le filastrocche cantate in coro a scuola, le foto ingiallite degli ebrei emigrati in Gran Bretagna, quelle smisurate preghiere sussurrate al vento, che non ti hanno mai convinta da quale parte stesse Dio.
Amy Jade prendi la valigia e scappa con l’ultimo gorgheggio che hai innalzato al cielo. Portati via i pomeriggi a “rappare” assieme ai tuoi compagni di merenda, il piercing che scandalizzò i bacchettoni della Sylvia Young Theater School, le canzoni soul che ascoltavi per i fatti tuoi, anche quando il mondo girava da tutt’altra parte.
Amy Jade prendi la valigia e scappa dal patetico piagnisteo riservato alle “anime fragili”. Portati via le 27 candeline che ogni volta riaccenderemo con le tue canzoni, perché d’ora in poi “non occorrerà più fingere”. Svestendoti, ti sentirai leggera come una piuma. Potrai finalmente vagare tra le nuvole. Sono le stesse che contavi da bambina a Southgate.
Amy Jade prendi la valigia, scappa senza quel maledetto ritaglio di giornale del Guardian che recita così: Amy Winehouse, who has been found dead at the age of 27, the cause not immediately clear”. Fanculo, a quel maledetto sabato.

Don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che si fece “operaio”

Abbiamo perso di vista i sacerdoti di frontiera, coloro che sanno togliersi la tonaca al momento giusto e dar voce a chi l’ha persa. In uno dei miei recenti viaggi, ne ho ritrovato uno. Il volto di don Peppino Gambardella era a me noto e non perché fosse finito alla ribalta per aver digiunato a favore degli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco. In un certo senso aveva sfiorato per pochi istanti la mia adolescenza, quando a quel tempo incantava gli allievi con le sue lezioni di filosofia.
Gambardella non è il noioso predicatore che si compiace dei sermoni, è uno pratico, è uno che nelle omelie domenicali ci infila Dostoevskij perché  “la bellezza salverà il mondo”. Mentre i fatti di cronaca degli ultimi anni hanno raccontato il sacerdozio come prigione della perdizione, la bellezza di uomini come don Peppino Gambardella ne rispolvera la missione sociale. Questo prete del Sud, profondamente radicato nel suo territorio, ha restituito alla città di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli, l’identità rinnegata di culla degli operai.
Il canzoniere folk degli Zezi ci raccontava che erano stati loro a tenerla in piedi. In tanti lo avevano dimenticato, mentre “il paesotto” che ospitava Fiat e Alitalia viveva tra la fine degli anni ’70 e una parte degli anni ‘90 il suo rampantismo: come dimenicare i condomini radical-chic di piazza Primavera; i tuffi in piscina al Parco Fanfani; i raduni musicali estivi abitati dagli pseudo-intellettuali che la volevano roccaforte del jazz; la middle-class che si addolciva con i pasticcini di Antignani;  le passeggiate della gioventù alla ricerca di capi firmati tra le vetrine pacchiane del centro; lo struscio “goffo” nella nuova villa cittadina, che si vantava di essere l’Hyde Park della zona vesuviana.  E prima che finisse il regno del Bassolinismo a Napoli, si era già spento il “Pomigliano dream”. Erano stati messi nel sacco da un bel pezzo i trasformisti che la volevano alla pari di un quartiere blasonato di Napoli, senza tener conto che la provincia è condannata a rimanere provincia, con le sue contraddizioni, il falso moralismo, l’ipocrita apparenza.
Don Peppino Gambardella ha riscattato la sua comunità da questa visione distorta, restituendo nel gesto di quel “digiuno” l’ultima speranza, nonostante il quesito resti lo stesso: “La classe operaia andrà in Paradiso?”.
E la speranza è anche nei ragazzi che animano la parrocchia di San Felice in Picis, figli della semplicità di don Peppino, che già nei primi passi del suo sacerdozio indicava inconsapevolmente la strada per diventare angeli, prima che Lucio Dalla lo mettesse nero su bianco in una vecchia canzone:  “Se io fossi un angelo, non starei nelle processioni, nelle scatole dei presepi”.

Diario di viaggio: Nel sale, nel sole, nel Sud


Rosario PipoloVentiquattro anni fa, in una mattina autunnale, arrivai in un liceo di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli.  Provenivo da un’altra scuola e non conoscevo nessuno. Entrai a lezione iniziata. Trovai un posto libero in un banco in terzultima fila, accanto alla finestra. Era un’esercitazione di latino. Il mio compagno di banco provvisorio era occhialuto come me, questo mi consolava. Gli dissi sottovoce: “Dall’altra parte non me l’hanno spiegata questa regola”. Non se lo fece ripetere due volte, sotto voce me la illustrò in un batter baleno. Poi tornò alla sua esercitazione. Gli chiesi: “Come ti chiami? Io sono Rosario”. Lui, per non disturbar gli altri, prese un pezzo di carta e scrisse il suo nome: “Tiziano”.

Quel gesto non lo dimenticai e quel nome, segnato su un pezzetto di carta, me lo sono portato dietro in tutti questi anni, nei miei viaggi, nei miei spostamenti, che mi hanno dato una lezione: i legami con le persone si alimentano nei gesti della condivisione. E quell’atto di solidarietà mi apparve come un bel ritaglio del libro “Cuore”.
Come ha ribadito don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che ha digiunato a fianco degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, “il matrimonio unisce”. Ed io aggiungerei che i viaggi nel Sud hanno il pregio di farci ritrovare.
Al matrimonio di Tiziano e Lorena ho ritrovato la lealtá lasciata su un vecchio banco di scuola, ma anche il ricordo di una giovane professoressa di greco, che a suo tempo aveva nel pancione una bimba, i cui anni hanno scandito una parte importante della mia vita.

Al ritorno dalla cerimonia, in auto, al mio fianco, non c’era più quella bambina con gli occhi da monella che andavo a trovare puntualmente ogni anno, ma una persona adulta, dolce, semplice e sofisticata al tempo stesso. Quel giorno speciale, il matrimonio di Tiziano e Lorena, lo abbiamo condiviso con intensità, con l’entusiasmo che abbatte ogni frontiera per fare nostro l’unico desiderio: circondarsi di persone vere.

I matrimoni uniscono e i viaggi nel Sud ci restituiscono tutto, anche le indicazioni di un nonno che assomigliava al mio, sull’uscio di una porta. E quando mi sono perso nel buio della notte, tra quelle stradine che spalleggiavano il monte Somma, ho trovato in tasca tutto stropicciato il pezzetto di carta che Tiziano mi aveva dato ventiquattro anni prima.  Non c’era più soltanto il suo nome, ma anche quello delle poche persone di cui non potrei mai fare a meno, perchè mi fanno tornare ad essere ciò che sono: nel sale, nel sole, nel Sud.

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Trenord e l’inferno sui binari: passeggeri “in ostaggio” sul treno Milano-Luino per quasi tre ore!

L’inferno sui binari: quello che è accaduto ieri in Lombardia poteva trasformarsi davvero in una tragedia. Un lunedì nero che noi viaggiatori non dimenticheremo e racconteremo ai nostri figli sotto forma di favoletta per dirla tutta: ecco uno dei motivi per cui vergognarsi di vivere in questo Paese, l’Italia, che si è scordata a casa il senso della civiltà. Sono ancora in frigo le bottiglie di spumante per il recente battesimo di Trenord, la società nata dalla fusione di Trenitalia e Ferrovie Nord, che già si brinda al flop più colossale degli ultimi dieci anni su una delle linee ferroviarie più trafficate della Lombardia: passeggeri in ostaggio sul treno Milano-Luino per quasi tre ore.
Ieri alle ore 17.45 il treno Milano – Luino è partito con qualche minuto di ritardo. A pochi chilometri dalla stazione di Rho, ci sono stati i primi rallentamenti e poi uno stop interminabile. Le vetture erano senza aria condizionata, le lancette dell’orologio avanzavano, ma il personale di Trenord non forniva alcuna informazione ai passeggeri sulla lunga e inspiegabile sosta. Intorno alle 18.35 si è saputo che il treno aveva subito un guasto ed erano in arrivo i soccorsi. Intanto, tutti i treni in direzione Varese e Domodossola subivano ritardi imprecisati.
Alle 19.10 tutto taceva e così tra i passeggeri c’è stato qualcuno che ha cominciato ad alzare il tono della voce, mentre una donna si è sentita male. Come gestire una situazione d’emergenza come questa? Affidandosi all’improvvisazione, perché era la soluzione più spicciola per essere degni di questa Italia folcloristica e chiassosa: il locomotore di soccorso non riusciva ad agganciare il treno guasto e, dopo due ore di prigionia nei vagoni puzzolenti di Trenord, era legittimo gridare: “Siamo in ostaggio. Ci avete sequestrati”.
Il treno è ripartito a passo d’uomo. A pochi metri dalla stazione di Vanzago, il personale di Trenord ha perso di mano il controllo della situazione e così sono state aperte le porte del treno. Un centinaio di persone si sono riversate sui binari, percorrendo a piedi gli ultimi metri per raggiungere la stazione, rischiando di finire stirati da un treno. Sono intervenute le forze dell’ordine, ma ormai erano superate le 20 e i passeggeri inviperiti hanno costretto il treno per Domodossola a fermarsi. Peggio ancora: l’altro treno, che viaggiava anch’esso con 140 minuti di ritardo, aveva l’aria condizionata così al minimo che alcuni passeggeri si sono sentiti male all’altezza della stazione di Busto Arsizio, mentre una bimba piccola piangeva disperatamente per il disagio. Se non fosse stato per la solidarietà di tutti i passeggeri, chissà quale brutta sorpresa ci sarebbe stata.
E adesso cosa ne sarà di questo vergognoso accadimento? Passerà inosservato come gli altri o sarà la buona volta che le associazioni a tutela dei consumatori e dei pendolari intervengano con serietà e determinazione?  Questa volta fosse pure un passeggero solo ad esporre denuncia, Trenord non deve far finta di niente.

Quelle 36 ore assieme a Olga Mautone Blakeley, specchio del mio privato

Nel 2005 la mia avventurosa traversata negli USA mi portò da lei fino a Houston. Quelle 36 ore trascorse assieme a Olga Mautone Blakeley, scomparsa lo scorso 7 giugno all’età di 91 anni, mi convinsero che l’amore può spegnere la solitudine di un’anziana signora. Di fronte a me non c’era più la napoletana che nel ’46 aveva lasciato l’Italia per amore di Karl, un ufficiale dell’aviazione americana; non c’era più la stilista che tra gli anni ’50 e ’60 aveva vestito le famiglie altolocate del Texas, conquistando persino i gusti della First Lady “Bird” Johnson; non c’era più l’italo-americana che aveva vissuto la favola del sogno americano tra vita mondana e festicciole dell’upper-class, nello stesso Texas dagli occhi di ghiaccio che aveva crocifisso in sordina il predicatore John Kennedy.
Ascoltavo una signora ottantenne che vagava nella memoria dell’infanzia, afflitta dall’Alzheimer e con lucidità sorprendente. Era come se improvvisamente a quel ritratto se ne fosse sovrapposto un altro, sotto l’ombrello della senilità: sul viale del tramonto Olga aveva ritrovato Napoli e la sua famiglia attraverso il riscatto dei ricordi, l’unico valore della sua esistenza. Lei raccontava ed io ero lì bivaccato sul suo divano a prendere appunti, come un vecchio cronista ficcanaso che voleva a tutti i costi salvare una pagina volata via dal ‘900: Olga assieme al papà Francesco per via Toledo; Olga che accarezzava la sorella Emilia; Olga che pianse sulle spalle del fratello Pasqualino la morte prematura di donna Margherita, la mamma fragile che disse basta alla vita.
Man mano che stavamo assieme, quel “film muto” acquisiva le tracce delle sonorità e i suoni di quelle voci mi chiarirono tutto. Olga Mautone Blakely era lo specchio del mio privato, era il personaggio che il mio caro amico Pasquale Mautone – in arte mio nonno – aveva ridisegnato sul foglio della mia infanzia tra pony, ranch e cowboy. Laggiù ci saremmo dovuti arrivare assieme e in un certo senso è stato così. Olga mi guardò diritto negli occhi e mi disse: “Sei tutto Pasqualino nello sguardo, nei movimenti, nel sorriso, in quei baffetti sottili. Sulla porta ti avevo scambiato per lui”.
Quando andai via sapevo che non l’avrei rivista più, ma mi resi conto che era iniziata per me una nuova stagione: quella che ha fatto della mia vita un viaggio continuo, dove i legami non si misurano all’ufficio anagrafe, ma nel tempo di condivisione dell’esistenza. Io e Olga Mautone Blakely avevamo condiviso ciò che siamo stati davvero.
Tempo dopo mi è arrivata una lettera da Houston in cui c’era scritto che Olga tutti i pomeriggi all’ora del té guardava la nostra fotografia e sorrideva. Forse si sentiva meno sola, proprio come oggi. Da qualche parte dell’universo avrà rincontrato il fratello maggiore e gli avrà detto: “Pasqualino, portami subito da mamma e papà. Finalmente siamo tornati a stare tutti assieme. Abbiamo troppe cose da raccontarci”.

Con o senza Charlène, impariamo a riconoscere la nostra Principessa!

Continuo a credere che le principesse non siano rarità vintage, ma coloro che spuntano all’improvviso nella quotidianità del caso e dell’altrove: magari su un treno, in una domenica pomeriggio, oscurate dalla timidezza, in balia di un bel mondo interiore che prima o poi scoppierà. Questo può succedere a noi comuni mortali.
Poi ci sono quelle che scelgono di abbassare il capo dinanzi al protocollo di palazzo e preferiscono l’investitura. Charlène Wittstock, da sabato consorte di Alberto di Monaco, ci ha conquistati. Forse perché, nonostante l’abito bianco e il corteo regale, ha mantenuto lo stesso sguardo timido e denso della campionessa di nuoto, il cui destino sembrava scritto nel firmamento dello sport. Non è stato così, anche se poi finire tra reali non è detto che sia un terno a lotto. C’è lo ricorda la fiaba amara di Lady Diana Spencer o quella spezzata di Grace Kelly, sepolta da dubbi e misteri.
Il principe monegasco non è di certo uno stinco di santo e l’ipotesi “gossippara” di un terzo figlio, nato durante la relazione con Charlène, amareggia i giorni di luna di miele. Il candore della neo principessa del Principato di Monaco riesce a rendere pacchiana persino la Kate di Buckingham Palace e potrebbe spodestarla col tempo in termini di popolarità. Come si misura l’affermazione regale? In termini di “share” su i social network o di capacità di ribellarsi ai ricatti dello spietato way of life delle monarchie superstiti?
Ritornando a noi comuni mortali, dovremmo allenarci a riconoscere subito le vere principesse, quelle scalze e fuori dai castelli incantati, in questo tempo che vorrebbe farci passare per fuggiaschi precari. Consoliamoci perché, per tenerle stette a noi, non abbiamo bisogno né di troni né di corone, ma di quest’atteggiamento che ci suggerisce uno stralcio di Il Piccolo Principe, ritrovato nell’angolo di una bacheca di Facebook: “Gli uomini coltivano 5000 rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano… e tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua. Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore!”.

Ringo Starr a Milano e Roma: Io scassinavo salvadanai per i tuoi dischi!

Sono una minoranza gli adolescenti che si fanno travolgere dalla musica fuori dal proprio tempo. Mi sentivo parte di questo branco ristretto quando alla fine degli anni ’80 me ne andavo nei paesotti di provincia a cercare i tuoi dischi, caro Richard. Una volta girando a Liverpool – ero ancora minorenne e lasciai i miei in preda alle palpitazioni – nei posti in cui sei cresciuto, mi sono detto: cosa avevamo in comune? Anche tu eriun ragazzotto di periferia e non penso che, picchiando forte sulla tua batteria, avresti mai immaginato di attraversare il mondo.
La casualità, la mia compagna di viaggio prediletta, mi portò allora ad incontrare alcune persone a te particolamente legate, quelle che bussando alla porta di casa tua trovavano il cognome Starkey. Beh, rovistando in un negozietto di anelli poco distante da Penny Lane, mi sono chiesto come facessi ad andarne matto. Quella non era robetta da femminucce? Perlomeno ti sei trovato un buffo nome d’arte, Ringo, che ti confonde con un pistolero del Western.
L’epopea del vecchio West era passata da un pezzo, ma non quella delle navi che trasportavano sogni verso l’oltreoceano. E’ lo stesso tragitto che fanno i sogni incollati alle parole e alle note delle canzoni, formando i piccoli segreti della vita: “Every soul has a secret, give it away or keep it”.
Io l’ho tenuto il mio segreto: quello di aver fatto lo scassinatore di salvadanai per acquistare i tuoi dischi e sentire dal profumo del vinile l’ebbrezza del tempo che non passa mai. Avevo fatto la maturità quando sei venuto in Italia l’ultima volta. Mi dicevano che ero un matto ad assistere ad un concerto alla vigilia della prima partenza per gli Stati Uniti. Che rabbia, quando gli organizzatori fecero saltare la data di Roma!
Sono passati quasi vent’anni, ma resto la “capa tosta” di allora. E con lo spirito di chi si batte affinché la musica sia una gioiosa “festa sociale”, sono sicuro che in questa domenica e lunedì di luglio restituirai a Milano e Roma una carica di energia, mancante in questo momento. Gioco a fare il finto tonto: più invecchi, più assomigli un sacco a Ringo Starr, il batterista del Beatles!

Facebook per Alberto Bonanni, il musicista pestato a Roma

A Milano i maxi concerti sono nelle mani di ridicolo comitato anti-rumore, a Roma invece si finisce ammazzati se si suona. Insomma, spero di non rischiare anche io di brutto, quando la sera faccio sobbalzare (scherzosamente ed educatamente) il mio vicinato con la musica di Pearl Jam, Ac/Dc e Led Zeppelin.
Ad Alberto Bonanni, un giovane musicista di 29 ani, è andata davvero male. Era in un locale di Monti, nel cuore della capitale, quando è stato picchiato brutalmente da un branco di giovani. Perché? Un uomo era sobbalzato dal balcone, lamentando lo schiamazzo e inseguendo Bonanni con un bastone. La serata musicale a The Saylor’s si è trasformata in un incubo e questo pestaggio brutale è un altro segno dell’incoerenza e della prepotenza che si aggira nelle sere d’estate nelle nostre città
Alberto è in fin di vita ed si parla addirittura di “morte celebrale”. E questa volta a supportare gli agenti nella ricerca di quei maledetti assassini è stato proprio Facebook. Infatti, grazie al social network abitato da 20 milioni di italiani sono riusciti a risalire ad uno dei colpevoli, che ha ridotto in questo stato il chitarrista romano di una delle Tribute band degli Iron Maiden.
Intanto, su Facebook è stata presa d’assalto la pagina “Suonare per Alberto Bonanni pestato a morte a Roma” dove si segnalano diverse iniziative per dire basta a questi atti di violenza. Alberto non aveva fatto lo scassinatore di timpani, ma aveva appena smesso di suonare. Sulle corde di quella chitarra appesa ad un chiodo, chi strimpellerà i sogni di una vittima? Dove c’è musica, c’è socialità. Dove c’è socialità, c’è vita.

No, Vasco, no! Il rocker di Zocca vuole ritirarsi ed è rivolta su i social network

Un vero fan dovrebbe mettere da parte l’emotività e dire le cose come stanno. Mentre su Twitter lo slogan di questo lunedì è “Vasco, come faremo senza di te?”, fa discutere la notizia a sorpresa: Vasco si ritira e non farà più concerti dal vivo. Uno scherzetto dei primi giorni d’estate o il rocker italiano fa sul serio?
Dicevo che un vero fan dovrebbe mettere da parte la sfera emotiva: nell’ultimo tour abbiamo visto Vasco sottotono. Certo non è più quello di una volta da un bel pezzo, ma Morgan c’è andato giù troppo pesante a farlo morire artisticamente a 27 anni. Se l’ex Bluevertigo voleva fare il maestrino in cattedra, avrebbe dovuto allungargli la vita almeno fino ai 38, quando in classifica impazzava Liberi Liberi, l’ultimo album prima di un altro cambio di stagione. Il popolo di Facebook vascolizzato è troppo giovane per ricordare il battito del rock grezzo dei primi tempi.
Tuttavia, mi piace ribadire che un rocker è il vero “poeta maledetto” della musica e, pure senza l’auspicio degli dei, dovrebbe continuare a salire sul palco fino allo sfinimento. Un musicista ha il diritto di andare in pensione e allo stesso tempo il dovere di stare zitto se non ha più niente da dire.
Vasco è poco credibile quando si mette a fare il predicatore – il sermone a San Siro sugli ubriachi del sabato sera è stato fischiato – ma continua a far furore quando impugna il microfono, perché il fan è disposto a perdonargli la nota stonata di turno, il corpo affaticato, la voce sempre più roca.
“E già” sarà pure eletto motivetto della stagione calda, ma tra le sillabe di “sono ancora qua” nasconde un sibillino campanello d’allarme: la consapevolezza di chi non vuole tirare a campare. E il fan vascolizzato, scalciando l’emotività, lo avrebbe dovuto già capire da un pezzo che questo è lo stato d’animo di una rockstar di mezza età.