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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Morti bianche: Rosario a casa non torna più a Pasqua!

Ha il mio stesso nome. Non so perché i genitori lo avessero chiamato Rosario, ma l’unica certezza è che quest’anno non lo vedranno bussare alla porta per trascorrere la Pasqua assieme. Anche se molto più giovane di me, quando incrocio o sento chiamare qualcuno “Rosario”, mi sembra di aver trovato un mio simile. Forse perché non è diffuso, forse perché continuo a ripetermi che sono i nomi a renderci unici ed irripetibili.
A Rosario Rodinò hanno cancellato mostruosamente la giovinezza,perché hanno ritenuto che sul posto di lavoro si potesse tagliare su un sacrosanto diritto del lavoratore: la sicurezza. Questo ragazzotto di 26 anni fa parte delle vittime morte in un incendio nel dicembre scorso alla ThyssenKrupp di Torino. L’ennesima morte bianca che affligge la nostra cara Italia distratta, ma questa volta i responsabili non sono riusciti a farla franca. Finalmente una svolta inaspettata perché il verdetto ha condannato l’amministratore e altri responsabili della nota azienda siderurgica tedesca. Esultano i sindacati, che invece di brindare dovrebbero rimboccarsi le maniche affinché le tante ingiustizie seppellite sotto il fango siano riportate alle luce del sole. “Giustizia, un corno!”, potrebbe rispondere qualcuno con rabbia, perché i parenti delle vittime non riavranno indietro i loro cari.
La disperazione per un dolore così non ha prezzo e forse non bisogna neanche stare a parlare di un rapporto allineato tra “sicurezza” e “investimento”. Gianfranco Carbonato, Presidente dell’Unione Industriali di Torino, si è espresso così in un’intervista in merito alla sentenza: “L’immagine che diamo all’esterno non invita un’impresa a scegliere l’Italia. Se il modo di ragionare della procura e della Corte d’assise dovessero diffondersi nel Paese sarebbe un gigantesco regalo competitivo agli altri”.
Quale prezzo ha questo regalo competitivo? Privare un papà e una mamma di un figlio?

Vick Arrigoni, ecco l’agnello di Dio…

Terra amara, terra piena di contraddizioni quella lì. Lo stesso territorio in cui più di duemila anni fa si vendevano per pochi denari i pacifisti e si crocifiggeva chiunque non fosse allineato con i palazzi del potere. Il movimento pacifista è nato paradossalmente lì e vogliamo legittimarlo a pochi giorni dalla Pasqua Cristiana. La storia torna e fa i suoi giri: c’è sempre qualcuno che se ne lava le mani, c’è sempre chi tradisce, c’è sempre chi finisce in croce.
Vick, il pacifista barbuto e tatuato, è stato fatto fuori senza neanche battere ciglio, senza nemmeno una finta e mostruosa messa in scena processuale che lo condannasse perché era un libero pensatore. E poco importa del surriscaldamento emotivo che infervora la rete, tra blog e social media, perché Vittorio Arrigoni nel suo slogan “Restiamo umani” aveva detto tutto. Aveva capito che le dittature invisibili palleggiavano tra il pugno di ferro di Israele e l’ombra bombarola di Hamas; aveva capito che la striscia di Gaza era più di una borderline: era un piccolo ombelico del mondo in cui travestiti da blogger si potevano raccontare storie quotidiane che a noi sfuggono. Arrigoni aveva preso una posizione netta che, al di là della condivisione o del’appoggio ideologico, lo aveva distanziato da chiunque volesse appropriarsi di lui.
Per rispettare la sua memoria, dobbiamo stare in guardia da chi vuole trasformare questo “agnello di Dio” in un pass-partout iconografico, spacciandosi per messaggero di pace. Sarà pure un imperdonabile sacrilegio, ma della salma di Vittorio Arrigoni poco importa, perché i liberi pensatori non finiranno rinchiusi mai in tombe buie e giammai avranno gelide lapidi. Vick è ancora lì, in quella terra straniera, tra chi vorrà essere un suo apostolo e continuare a portare avanti un pensiero, nell’ottica gaberiana della “libertà come partecipazione”. E noi non possiamo sempre tirarci indietro.

Nonno, il dolore che spezza i vent’anni

La condivisione del dolore unisce, stritola le distanze, riporta a galla la parte bella di noi. Quando quel dolore spezzò i miei vent’anni, lei girovagava ancora nel passeggino. Appena ho saputo che lo stesso dolore aveva spezzato i suoi, l’ho telefonata. Era all’università, è uscita dall’aula. Si trovava ad Ingegneria, a Fuorigrotta, negli stessi luoghi che mi appartenevano. Il dolore ha una propria geografia dei posti, che amplifica il ricordo delle persone che se ne sono andate per sempre. E i nostri sono esattamente gli stessi, lì nei Campi Flegrei, tra l’ospedale San Paolo e via Docleziano, tra Cavalleggeri d’Aosta e Bagnoli. Man mano che condividevamo certe sensazioni amare del distacco, della perdita, ritrovavamo le nostre domeniche speciali lì, che ci strappavano alla periferia per catapultarci nell’anonimato della città, dove ogni istante condiviso con loro aggiungeva un tassello alla nostra esistenza. Avrei voluto accompagnarla da sua nonna, il cui volto mi avrebbe ricordato quello della mia, in una buia notte d’autunno in cui le dissero che l’uomo amato per una vita intera se n’era andato. Avrei voluto accompagnarla per tornare ad essere nipote per un istante e nascondermi tra i capelli imbiancati di quest’anziana signora.
Riguardando lo scatto fotografico fatto assieme ad Annalisa, è come se questo identico dolore la avesse trasformata improvvisamente da ragazzina in una donna, l’unica con cui ho potuto condividere fino in fondo l’intensità di questo dolore. E adesso voglio prendere Annalisa per mano e camminare a lungo, fino a stancarci, lungo la spiaggia di Coroglio, con lo sguardo rivolto verso Nisida. Scomparirà l’odore di catrame del fantasma dell’Italsider di Bagnoli; la sabbia tornerà ad essere viva come quella sotto gli ombrelloni del Lido Pola negli anni ’60; le palme della Domenica Santa torneranno a benedire le famiglie come facevano loro; l’amaro del cioccolato fondente delle uova pasquali si scioglierà nella dolcezza di nonno Antonio e nonno Pasquale, che si sono conosciuti lassù e sono diventati inseparabili come due vecchi amici. Remeranno su una barchetta in mezzo al mare della loro Napoli, verranno verso me e Annalisa per sussurrarci che l’amore intenso procura dolore, ma anche la consapevolezza che i rapporti speciali si tuffano nell’eternità, per farci tornare ad essere autentici. E il mio sorriso e quello di Annalisa in questa foto è lo stesso che oggi hanno Antonio e Pasquale, i nostri nonni, che il mare ci restituirà tutte le volte che lo guarderemo.

Non lo vogliamo il nuovo Commodore 64!

Lo sconcertante effetto nostalgia dovrebbe funzionare soltanto sugli esseri umani e lasciar perdere il mondo artificiale. C’è da dire che a quella macchina-giocattolo, all’alba degli anni ’80 del secolo scorso, un’intera generazione ha dato del “tu” come se fosse un essere umano. Il rapporto uomo-macchina poteva davvero diventare una cantilena poetica come avviene nel film Corto Circuito? L’innominato è il Commodore 64, l’home computer che ha svezzato la mia generazione e tra qualche mese sarà rilanciato come se fosse un PC de giorni nostri. Lo chassis resta identico per i malati dell’Hi-Tech vintage, ma sarà soltanto un effetto ottico: il cuore del vecchio Commodore 64 pulserà a battiti così veloci da farci dimenticare quei ridicoli 64k, con cui abbiamo fatto di tutto, sognando davanti allo schermo di una piccola tv negli anni in cui l’idea di Internet poteva essere soltanto un’eccentrica stregoneria.
Alla notizia sono balzato dalla seggiola, ma poi mi sono detto: che significato può avere un vestito vintage su un corpo che non è il suo? No, non lo vogliamo questo Commodore 64 con i super-poteri, ma se proprio è necessario, restituitecelo come allora. Vogliamo un effetto nostalgia all’incontrario per dare una bella lezione alle nuove generazioni che fanno gli spavaldi con le nuove console: con una manciata di bit e ram ci siamo sentiti pionieri del mondo virtuale; abbiamo fatto “social life” prima dello sbarco di Facebook con i nostri amici che passavano da noi per condividere il joystick; ci siamo ingegnati per mettere da parte più soldi possibili e sperare che papà tirasse fuori il resto; abbiamo messo uno spunto di sentimentalismo pure lì, scrivendo a caratteri cubitali una frase carina, seguita dalla classica sfortuna. L’unica volta che ero riuscito ad invitarla a casa per far merenda col Commodore 64, il televisore non si accendeva più e quelle parole furono risucchiate da un cursore lampeggiante.
Non abbiamo bisogno dell’Hi-Tech vintage per riprodurre i sussulti della memoria, ma di tutto ciò che abbiamo condiviso con quella tastiera, quella di un home computer che ha fatto sognare di diventare informatici anche gli imbranati con la matematica come me.

Diario di Viaggio: Interno Notte/ Esterno Giorno

Ci sono viaggi lampo, improvvisati, lunghi quanto la licenza breve di un soldato. Non sempre il viaggio ti porta alla destinazione con lo stato d’animo giusto. E’ come naufragare  tra le pagine di una sceneggiatura cinematografica, nel contrasto tra l’Interno notte e l’Esterno giorno di un miscuglio di scene.
Eppure, guardando mio padre invecchiato nell’ennesimo viaggio verso casa, mi sono chiesto quando riuscirà mai un figlio ad essere grato ad un genitore. All’improvviso mi ha indicato un albero e mi ha detto: “Quel tronco già c’era quando sono nato. E’ cresciuto con me. Sono passati più di settant’anni e guarda come è alto”. Ho alzato lo sguardo e mi è sembrato che quell’albero altissimo prendesse le stelle con i suoi rami. Da bambino, quando papà mi raccontava del suo lavoro e di come illuminasse case e strade, mi ero convinto che le stelle si potessero acciuffare per davvero. Oggi, salendo sulle sue spalle, potrebbe accadere. Non è la presenza costante di un genitore in ogni angolo della vita di un figlio a renderlo possibile?
Continuando la nostra camminata a passo lento, è come se all’improvviso avessi avuto un abbaglio. Mi ero accorto che poche persone avevano colto il significato del mio viaggio, apparentemente inutile, ma profondamente ricco di quella prospettiva: distinguere ciò che è  “sostanza” dall’“apparenza”. E così mi sono tornati alla mente i fiumi di parole e gli scarabocchi degli ultimi mesi, rivolti a chi non esisteva nella realtà. E’ il pericolo di chi fa il mio lavoro, di chi scrive, di chi immagina. I fantasmi sono esistiti prima di diventarlo, le ombre no perché non vivono mai di luce propria. Sarò pure un giocoliere di parole, ma il Vesuvio osservato qualche tempo fa si era ridotto ad essere una cartolina adombrata. Nell’ultimo tratto della camminata con mio padre, ho ritrovato un Vesuvio folgorante come quello dipinto da Andy Warhol. Ho restituito il giusto peso alle persone che mi circondavano, a coloro che avevo trascurato, a coloro che mi ero semplicemente inventato.
Spero di passeggiare tanto tempo ancora al fianco di mio padre, se questa preziosa compagnia può aiutarmi a distinguere e non a etichettare, a vivere i sentimenti nell’intimità e non nel pettegolezzo virtuale, ad allontanarmi dalle ombre per inciampare nella consistenza, che abita altrove e mi restituirà il cambio di scena dall’interno notte in esterno giorno proprio in questo lunedì speciale: inizierò la settimana svegliandomi nel letto dove sono cresciuto. Noi blogger saremo pure dei giocolieri di parole, perchè ci ostiniamo a dare un senso alle nostre sensazioni.

Facebook e le Over 20: Quello che le donne (non) dicono

Dimmi che bacheca hai e ti dirò chi sei. Sappiamo bene quanto Facebook sia abitata da tanti alter-ego virtuali che non corrispondono alla realtà, ma forse ci sono rare eccezioni. E se fare lo spione da bacheca è un peccato veniale, allo stesso tempo può essere anche un modo originale per attraversare l’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, e guardare la quotidianità con lo sguardo delle over 20.
Marika DM. si presente con l’aforisma “Il cinismo è l’anestetico più economico che sono riuscita a procurarmi”, ma poi in bacheca sprizza la sua solarità non lontana dalle falde dell’Etna. Non è una facebookiana cronica – pochi aggiornamenti e rari cambi di foto profilo – ma questo perché a volte i suoi impegni da studentessa glielo impediscono. Patrizia C. sa raccontare con scatti fotografici e tanti link la sua terra, la Puglia, a cui non rinuncerebbe mai per niente al mondo, nonostante in lei ci sia l’istinto da fotografa giramondo. Alessandra G. è la facebookiana col megafono e assomiglia un po’ ad una di quelle manifestanti, tipo Barbara Streisand nel film “Come Eravamo” di Sidney Pollack, che nei tempi dei social network protesta attraverso una selezione di notizie interessanti, che rischieremmo di perderci. Alla falde del Vesuvio c’è Luisa A.,facebookiana sporadica, quella che nasconde bene in bacheca i suoi stati d’animo. Spesso cambia la foto del profilo e trasmette dal suo l’album la sua solarità. Sbirciando il suo album fotografico, traspare il bisogno di stare assieme alle persone a cui è legata davvero. “L’amore non vive di parole né può essere spiegato a parole.” è il biglietto da visita di Luisa, che spesso condivide in bacheca i video musicali del suo Biagio (Antonacci), di cui è una fan sfegatata.
Giusy L. sa come movimentare la bacheca e la sua spigliatezza da blogger raggomitola molte frasi in argute riflessioni; Katia M., a detta sua “la gioia fatta persona”, condivide il profilo tra il marito, la dolcissima figlia e le persone care, la ciliegina sulla torta della vita di questa varesina emigrata in “terronia”; Amanda S., “scrive, guarda e ascolta” e si lascia andare ad innocenti evasioni che fanno della musica il suo pane quotidiano. Perchè non far evaporare i suoi sogni brianzoli verso gli spazi indefiniti metropolitani?
A pochi passi dal Po c’è Laura C., che sul terreno scivoloso dei social network grida ad alta voce: “Nella vita ci si innamora due volte: la prima pensando che sia l’ultima e la seconda sapendo che è la prima”. La sua bacheca assomiglia ad un diario work in progress sopra le righe e le foto del profilo non sono mai casuali, perché connotano gli interni dell’anima e i passaggi, dall’infanzia alla gioventù. Infine, le immagini prendono con prepotenza il sopravvento sulle parole sulla bacheca di Alice D.F., iphonista doc, in cui il mondo di questa milanese atipica viene circoscritto da scatti deformanti. Le foto sembrano un singhiozzante flusso di coscienza joyciano e lasciano i segni di un mondo interiore in continua evoluzione, come se Alice fosse uscita da un cartone animato – sottolinea attraverso la voce della scrittrice Ann Marie MacDonald “Sono perdutamente innamorata della mia vita” – o dall’omonima canzone di De Gregori.
Cosa hanno in comune tutte loro? Essere nate sotto lo stesso cielo, quello degli anni ’80 e adesso con la solarità dei loro vent’anni sono lì che lottano per realizzare piccoli sogni e dare concretezza al loro mondo interiore. Forse non si incroceranno mai, ma esistono nella realtà. Questa volta sono entrate a far parte di un piccolo racconto, cucito inconsapevolmente sul filo di quello che le donne (non) dicono!

Diario di viaggio: al volante alla ricerca dell’invisibile

I viaggi alla ricerca dell’invisibile iniziano di buon’ora, al volante, senza programmi, svuotando la clessidra del tempo dalla sabbia della velocità per cogliere i piccoli istanti. Al casello dell’autostrada c’è Antonio che mi restituisce il resto del pedaggio ed esclama: “Ho lasciato la periferia di Napoli venti anni fa. Ormai in Lombardia ci sono sempre più pugliesi, calabresi e campani”. La strada è lunga, i chilometri saranno forse quasi 400, per girare in lungo e largo tutta la regione in tanti mini itinerari nelle province di Lodi, Cremona, Mantova, Brescia e Bergamo. Nel lodigiano il paesaggio è così vero e meraviglioso da nascondersi in un dipinto di Mario Mori. Nella sua bottega si vive l’essenza dell’arte, quella che non nasce tra le braccia degli snobismi intellettuali, ma in un laboratorio che fa della vita un’opera d’arte.
Ed è proprio sulle tracce di questa filosofia che mi riscopro in aperta campagna, in una cascina costruita prima dell’Unità d’Italia, in compagnia di Barbara e Alberto. Lì si erge l’albero di Irma, che quella mattina disse: “Così tutte le volte che lo guarderai ti ricorderai di tua nonna”. Barbara ti lascia addosso l’entusiasmo e la passione della vita in ogni gesto, lui le tiene stretta la mano come per dire: “Che fortuna averti incontrata, amore mio”. Alberto ha scoperto le carte e mi ha confessato il suo sogno fuori dal cassetto: cantare. Nel pomeriggio finisco ad assistere alla lezione di canto, mentre Alberto prova “Meraviglioso” per l’orgoglio della sua insegnante. Ed è proprio sulle note della canzone di Mimmo Modugno che prosegue il mio viaggio, tra strade e stradine del cremonese, i contadini che finiscono di zappare al calar del sole, quattro ragazzacci che fanno i monelli sul marciapiede di un paesotto.
Sul ciglio della provinciale, a pochi chilometri da Ghedi nel bresciano, sono sbocciate spontaneamente delle margherite selvagge: mi fermo in silenzio e ripenso al ritaglio di quel giornale, al volto di una donna che in sella ad una motocicletta è fuggita improvvisamente da questa vita. Il sole è andato a nanna e, ai confini con la provincia di Mantova, mi aspetta una buona pizza fatta in casa, un bicchiere di vino e tante chiacchiere che avvolgono una notte che sembra estiva, che si lascia andare nelle divagazioni del “dì di festa”: le campane di una chiesetta, il mormorio di una piazzetta e la passione sfrenata di Matteo per i polizieschi degli anni ’70, Jerry Calà e la mitica Alfetta, tanto che i suoi cani sono stati battezzati “Alfa” e “Romeo”. Lui, il mantovano dal cuore “terrone”, sa di essere di buona compagnia perché non ha perso di vista il segreto che agevola l’invisibile: la semplicità.
La domenica si muove a passi veloci e ci sono ancora strade da fare, quelle alternative alla monotona e trafficata autostrada, mentre il bergamasco trattiene il fiato di fronte alla quiete della sera. Accendo i fari e sopra di me c’è un manto di stelle: provo a contarle, forse sono un milione. Io non ci riesco, ma ne è capace Luisa, che è affacciata al davanzale della finestra a 800 chilometri di distanza da me. Mi sembra di vedere i suoi occhi, nascosti dentro un paio d’occhiali, attraverso lo specchietto retrovisore. Lei le ha contate ad una ad una perché è in quella galassia sterminata che finiscono “gli angeli caduti in volo”. Perciò le sue lacrime si sono sciolte in un sottile sollievo, perciò la nostra condivisione del dolore ci ha restituito “l’invisibile”.
Allora ripenso alle parole di Mario Mori, “Vediamo ciò che siamo dentro”, e prima che arrivi quel “maledetto” lunedì, capisco che a volte non siamo noi a viaggiare, ma sono i viaggi che ci fanno mutare posizione, lasciando da parte la strabica routine per sostare ad un passo dall’invisibile.

Come se fosse un Pesce d’Aprile…

Ero troppo piccino perché non confondessi un Pesce d’Aprile con un imperdonabile sgarbo. Mi fermavo raramente alla mensa dell’asilo. Quando mamma ritardava, c’era una bimba che tirava fuori dal cestino la rosetta del suo pranzo e mi dava puntualmente un rombo di crosta di pane. Lei aveva capito che io alla mollica non ci andavo appresso. Un gesto così affettuoso mi faceva andare al settimo cielo, perché sono convinto che lei sia stata la prima persona, al di fuori del mio nucleo famigliare, a prendersi cura di me. Quel 1 aprile lei non venne e mi dissero che aveva cambiato scuola. Scoppiai in lacrime. Venne a soccorrermi la maestra con un pesciolino di cioccolato per spiegarmi che era stato uno scherzo dei miei compagni ed era lecito farli in questo giorno.
Allora se è davvero così anche oggi, spero che sia un Pesce d’Aprile trovare migliaia e migliaia di volti spauriti, che si sono lasciati alle spalle la loro terra in guerra e sono venuti da noi per sentirsi chiaamre “clandestini”. Facciamo da scaricabarile, ci lamentiamo con i governi e le istituzioni, ma poi siamo noi i primi a non volerli.  Il problema è uno solo: abbiamo perso il coraggio di guardarci negli occhi e questo ci allontana dall’ipotesi che nessuno è clandestino di un bel niente se viene a raccogliere un briciolo di speranza. Chissà se tutti questi uomini, donne e bambini, arrivati su un barcone e scampati alle intemperie del mare, avessero avuto lo stesso trattamento se fossero stati proprietari di piccoli giacimenti petroliferi. Li avremmo potuti adottare uno per uno nell’ottica del “vicino” colonialista che vede questa crisi del Mediterraneo come l’ultima chance per tornare ad essere padroni in Nord Africa. Mentre stanno ripulendo Lampedusa per farci credere che sia stato solo uno scherzo di pessimo gusto, illudiamoci che questa triste vicenda sia un “fottutissimo” Pesce d’Aprile e che il presente tribolante possa essere prima o poi un ponte verso la pace e democrazia per tutti loro.
Allora, sapete cosa vi dico, questa volta non ci casco neanche io: mi fermerò in stazione e aspetterò fino all’ultimo treno. Sono sicuro che prima o poi arriverà, adesso cresciutella, deliziosa come lo era allora, e dalla sua borsa tirerà fuori tutte quelle croste di panino che non mi ha dato in tutto questo tempo, lungo quanto quello di uno scherzo da Pesce d’Aprile.

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.
Torno a ripeterlo: le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Appresa la triste notizia, la morte diventa “social”: trovi un messaggio che ti invita ad andare su una tale bacheca per guardare la foto taggata, accertarti chi fosse il malcapitato e lasciare il tuo messagino di cordoglio o uno degli aforismi mielosi e preconfezionati che circolano nei social network. A questo punto mi permetto di suggerire alle pompe funebri la vendita di un nuovo servizio: una fan page-lapide o la gestione post-mortem del profilo della persona scomparsa secondo i canoni dell’animazione del villaggio turistico “facebookiano”, anzi pacchiano (fa pure rima!).
Il dolore è troppo serio per finire spiaccicato nella piazza rumorosa della rete; il dolore è privato e tale deve restare, e non può essere vissuto come un passaparola, ma con le persone a cui ci sentiamo davvero vicini. E i legami non si costruiscono sul quantitativo di pseudo-amici che abbiamo in rete, ma nella realtà che ci porta a condividere le emozioni e ci mormora l’amaro “fujetevenne” eduardiano da queste visioni grezze e meschine, a cui mi ribello da quando scalpitavo nel pancione di mia mamma.

La Gelmini e la Scuola che discrimina i disabili

Tagliare si può, anzi si deve. Non occorre avere la faccia tosta, ma quella punta di maldestro coraggio che giorno dopo giorno sta facendo sprofondare la nostra Scuola. Diciamo pure la Scuola, perché di “nostro” non è rimasto più niente, visto che le braccia aperte sono per “i pochi”, i privilegiati, quelli che sono confinati nel bunker delle private. Tra i malcapitati ci sono pure i disabili perché anche lì bisogna risparmiare. Il caso triste era accaduto a La Spezia, dove uno studente disabile di una scuola superiore si era visto tagliare le ore di insegnamento del sostegno. Insomma di mezzo c’è il Ministro Gelmini che è stata condannata per “condotta discriminatoria” ed ora ci sono da pagare le spese processuali e per giunta ripristinare le ore.
Questa sembra una barzelletta brutale, invece è un pietoso fatto di cronaca che mi solletica una riflessione. Nel mio percorso scolastico ho avuto in classe compagni disabili i quali, senza il supporto di un insegnante di sostegno, non avrebbero potuto condividere con noi diverse attività. Ricordo all’asilo, in una giornata di primavera come oggi, lui che non poteva tirare due calci ad un pallone perché era su una sedia a rotelle. Mi avvicinai per smorzare la tonalità della diversità e facemmo un patto che ci fece diventare compagni di merenda. Io tiravo il pallone, ma lui mi indicava la direzione precisa. All’epoca portavo il bendaggio all’occhio destro e certe volte mi sentivo “un pirata” rispetto agli altri bambini. La mia era una deficienza oculistica che avrei risolto col tempo, il suo un problema congenito che lo avrebbe segnato per tutta la vita.
I “disabili” non sono loro, ma lo diventiamo noi quando ci passano sotto il naso queste “orrende discriminazioni” e facciamo finta di niente. Gli studenti di quella scuola ligure hanno una grande ricchezza in classe e non devono rinunciarvi. Oggi ringrazio pubblicamente il mio primo compagno di merenda, per avermi fatto sentire  “un campione” al suo fianco, dandomi una grande lezione di vita:  non dare mai nulla per scontato.