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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Identità golose: Mio papà è un vero chef!

Se lo scombinato Ratatouille, protagonista dell’omonimo film a cartoon, ci ricorda che il mondo della gastronomia è più complicato di quello che pensiamo, Identità Golose ci rinfresca la memoria ogni anno, trasforma Milano nella cittadella del food e chiama all’appello grandi chef da tutte le parti. Tutti assieme appassionatamente, cuochi – così li chiamerebbe il maestro Gualtiero Marchesi – e quei critici burberi che, armati di “penna” & “forchetta” tutti i santi giorni, mettono alla prova il loro palato. Per fortuna, questi ultimi non hanno tutti la faccia antipatica e superba di Anton Ego, il critico gastronomico del film d’animazione di Brad Bird.
Se mi chiedessero di ritoccare il film, ci metterei i volti gaudenti di Alex Guzzi e Cristina Viggè, due bravi giornalisti di settore appartenenti a due fazioni editoriali contrapposte, che seduti allo stesso tavolo diventano il primo “il palato nel cuore” e la seconda “il palato nell’anima”.
Ritornando ad Identità Golose e a questa blasonata reunion degli chef e della loro guerra per entrare nella tribolante galassia degli stellati, mi chiedo spesso cosa significhi avere un papà maestro dei fornelli. L’anno scorso due bambini mi hanno messo tra le mani un libro dal titolo “Mio papà è un vero chef”. Carmine e Ciro – dai nomi sono evidenti le radici napoletane – mi hanno portato con orgoglio tra le pagine che li ritraevano assieme al papà con mestolo in mano, mentre armeggiava una delle sue nuove ricette. E mentre io gli raccontavo che il mio era stato “uomo della luce” e aveva illuminato tantissime strade, loro se la ridevano a pensare che il loro “eroe” avesse qualcosa a che fare con il mondo del cartoon Ratatouille.
Di certo i due fratellini avevano l’occhio lungo e non ci avevano messo tanto a capire che non sono le famigerate “stelline” a cucire la divisa dello chef perfetto, ma lo sforzo continuo di concentrare in un piatto l’arte che fa del gusto l’indomabile leggerezza dell’essere.

Non chiamerò mai mia figlia Ruby!

Non ne posso più: navigo nel web e vedo Ruby, spilucco un boccone di telegiornale e c’è di nuovo lei, in giro per strada si parla di lei. E spero che nel mio prossimo viaggio all’estero non mi fermino per strada chiedendomi: “E’ italiano? Cosa ci dice di Ruby?”.
Non parlo di Ruby Tuesday, simbolo femminile che ha perforato l’immaginario collettivo degli anni sessanta attraverso l’omonimo brano dei Rolling Stones. Qui si tratta della Lolita che ha alzato un polverone mediatico e sta facendo tremare la politica e le istituzioni italiane. A confronto Monica Lewinsky sembra una liceale infuocata e l’impeachment di Bill Clinton una bravata da ingenuo scolaretto delle scuole superiori. Il pianeta web e i social media criticano la stampa per il supporto ad un  circo mediatico, che purtroppo sta togliendo spazio a problematiche più importanti. Eppure ieri anche il popolo social più osservante è inciampato nella trappola: diffondere dati sensibili e delicati come il dossier pubblicato dal sito Dagospia.
I tempi della giustizia non sono quelli della rete, ma senza essere troppo canonici mi chiedo se ci sia una minoranza che sia arrivata a questa conclusione: lasciamo che certi atti siano divulgati quando saranno individuati i colpevoli di questa triste vicenda. E se l’agorà social del Belpaese ha bisogno di sconfinare nel gossip imprudente delle intercettazioni per tornare a parlare della prostituzione minorile in Italia, allora siamo messi male. L’amarezza è un’altra: chi svende corpo e bellezza può intascare in una serata quello che un operaio guadagna con un anno di fatica e dignitoso lavoro.
Una cosa è certa. Non chiamerò mai mia figlia Ruby per eliminare qualsiasi ipotesi di darla in pasto, col sorriso di padre sbruffone, ad un mostro pervertito, anche se sarò ridotto sul lastrico.

Karol Wojtyla, “beato” quel polacco…

Questa foto in bianco e nero del secolo scorso ritrae un giovane polacco, aggiungerei un giovane polacco sognatore. Il sorriso sornione di Karol è tipico della gente della terra da cui veniva: la Polonia. E l’ho constatato quando ci sono stato. Una mattina gironzolavo per le stradine di Cracovia e un venditore ambulante mi raccontò: “Correva proprio come lei in questo momento, ma impiegava ore e ore per attraversare la città. Chiunque lo fermasse, lui era lì pronto ad ascoltarlo”. Era forse l’unico uomo con la tonaca capace di far sentire amico chiunque gli stesse accanto, senza distinzione di razza, religione, cultura? Torno a ripetere: i polacchi sono esattamente come lui, gente semplice e lo hanno trattato sempre allo stesso modo, anche quando Roma lo ha chiamato.
Sulla tomba dei genitori di Karol, seppelliti nel cimitero di Cracovia, non ho trovato alcun segno che rimandasse in qualche modo al passaggio di quel “figlio” a personaggio chiave della storia della seconda metà del ‘900. Ovunque mi girassi in Polonia c’era soltanto sobrietà perché i polacchi sono tutti d’un pezzo, come le donne venute a lavorare da noi trent’anni fa, in coda nei nostri uffici postali per spedire soldi ai figli lasciati laggiù.
Durante un mio lungo viaggio negli USA nell’aprile del 2005, protestanti, ebrei, musulmani, ortodossi e di qualsiasi altra religione non esitavano a fermarmi, appena capivano che fossi italiano, e a ripetermi la stessa cosa: “Non mi sembra vero che se ne sia andato. Nel suo volto si ritrovava chiunque. Beato sia”.
Il 1 maggio, per chi è credente, la Chiesa proclamerà Beato il pontefice Giovanni Paolo II. E’ il primo passo per la santificazione. Tuttavia, il giovane polacco sognatore è stato già beatificato da un pezzo dalle comunità più disparate. Prima ancora di indossare la tonaca, Karol Wojtyla è stato profugo di memoria clandestina per mano del destino che lo ha voluto artefice della storia, in cui per una volta gli ignoti e i repressi, sfigurati dagli orrori e dalla crudeltà dei regimi totalitari, sono tornati ad avere un volto, il suo. Beato sia, assieme a lui, chiunque abbia avuto, nella sofferenza delle oppressioni, quella “faccia in prestito”.

Referendum: Le lacrime dell’operaio Fiat di Mirafiori

A quest’ora le lacrime dell’operaio Fiat di Mirafiori avranno fatto il giro del mondo. Nella grande abbuffata degli anni Ottanta, sull’onda del rampantismo aggressivo dell’Italia gaudente, ce n’era per tutti: per gli operai come per i sindacalisti. Nell’ingrandimento vintage di quella grande abbuffata pseudo-proletaria, c’è pure da dire che “la casata” automobilistica italiana i sostegni dallo Stato italiano se li prendeva. E adesso sull’orlo del precipizio, impreziositi da qualche starnuto di ascendenza sabauda, ci diciamo tutti: “Arrivederci e grazie”.
Tutto con una miserevole tranquillità, come se non fosse accaduto niente, come se tutte quelle automobiline che circolavano nel Belpaese del Boom economico del secolo scorso non le avessero fabbricate gli operai. La storia delle quattro ruote in Italia l’ha scritta la Fiat, ma siamo stati tutti noi ad aver contribuito a darle credibilità.
E’ inutile piangere sul latte versato, gli errori li abbiamo commessi tutti quanti, incluse le famiglie dall’inclinazione assistenzialista: “Compriamo la macchinina Fiat, così diamo una mano all’economia italiana”. A chi abbiamo dato una mano ai servi o ai padroni? Forse a tutti e due, perché negli ultimi decenni gli errori diventati orrori sono quelli che hanno trasformato a lungo raggio i servi in padroni e i padroni in servi. Tutti ci siamo alternati da entrambe le parti della barricata, a ricattare o ad essere ricattati.
Adesso c’è un referendum e la faccenda è molto più seria di quello che pensiamo: se chiude lo stabilimento di Mirafiori, un lungo e controverso capitolo della storia del lavoro in Italia andrà a farsi benedire. Se il pianto dell’operaio Fiat fosse una manciata di lacrime di coccodrillo, allora potremmo otturarci il naso e far finta di niente. Se quelle lacrime fossero invece una presa di coscienza o una dolorosa riflessione, un Paese civile e democratico ha il sacrosanto dovere di prenderne atto.

Benvenuti al Sud, quello “mio”!

Benvenuti al Sud, non nell’omonimo film che ha sbancato al botteghino, ma tra gente vera, sapori e profumi sopravvissuti alla memoria, luoghi che nascondono storie dimenticate. Benvenuti al Sud tra Giovanna, che riempie il palmo della mia mano con una minuscola natività, e Annalisa – un dì scorazzava sul pianerottolo della mia infanzia – oggi un  vero parà dagli occhi di ghiaccio che gira il cucchiaino nella sua tazza d’orzo grande.
Benvenuti al Sud con Michele che fa il contorsionista tra reminiscenze filosofiche, idilli jazzati e un caffè a S. Agata dei Goti; con le lacrime invisibili di un’amica di vecchia data mentre suo figlio Joseph ha trovato nascosto nel gioco delle carte l’altro significato della vita; con l’immancabile combriccola dell’oratorio che rinasce dentro una reunion post-festiva tra il sorriso di Brigida e l’entusiasmo di Angela.
Benvenuti al Sud, ai confini tra Campania e Lazio, con Marcello che fa lo speaker radiofonico e fa sognare più province sulle onde di una radio locale; nei sapori delle golose Castagnole che per mano di pasticciere veneto arrivarono nel banco del Caffè Ducale di Sessa Aurunca; nella passerella goffa che fa della provincia il territorio ridicolo di ogni mondo che si rispetti.
Benvenuti al Sud nell’aperitivo con il prof. Tiziano, vecchio compagno di classe dai sogni messi a repentaglio dalla nuova scuola precaria e decadente; con Paolo che soffia 3 candeline, cammina a carponi tra i video di YouTube, fa le fusa alla caricatura sul mio blog; con nonna Antonietta che sbrina un’immagine sbiadita delle nostre comuni radici contadine: “Mariti e figlie comme e truove accusì te’ piglie” era la risposta delle mamme alle figlie che nel secolo scorso tentavano di fuggire dai mariti violenti e arroganti.
Benvenuti al Sud nell’anello che porta al dito la “Lei” con cui hai condiviso nove anni della tua vita: sta per sposarsi e così la neonata Giulia si ritroverà come zio acquisito quel bel damerino!
Benvenuti al Sud, cara Giulia, e visto che tu crescerai qui sai che ti dico: sarò stato pure un mascalzone e uno sbruffone squattrinato, ma mi prendo il diritto di restarti zio per sempre. Il mio viso da vagabondo saprebbe raccontarti che tornare indietro è un errore imperdonabile, ma guardare avanti riconoscendo i propri sbagli è l’unica scorciatoia per distaccarsi dal deplorevole mondo degli adulti.
Benvenuti al Sud, nel mio Sud, dove ogni volta che ci torno ritrovo un pezzo di me stesso che non mi ero accorto di aver perso. E questa volta l’ho perso per sempre.

Inter-Napoli, a San Siro con Napoli Fans Club London

Pensavo che la Befana mi avesse lasciato a mani vuote, senza neanche una briciola di carbone. Invece mi sbagliavo. Quella vecchia signora mi ha riportato allo stadio dopo vent’anni in una serata surreale: a San Siro ospite dell’Inter, ma con il cuore pulsante per il Napoli in corsa alle vette della classifica. Con me c’era Marco La Nave, un trentenne tifoso napoletano che è cresciuto sugli spalti dello Stadio S. Paolo di Napoli. Da diversi anni Marco vive a Londra ed ha fondato il Napoli Fans Club London, che raccoglie centinaia e centinaia di tifosi partenopei in Gran Bretagna e sulla Facebook Fan Page conta già più di un migliaio di sostenitori: “Ci raduniamo nei bar londinesi e ci godiamo le partite della nostra squadra del cuore. Di tanto in tanto organizziamo anche trasferte in autobus perché il tifo è una passione e non ha niente a che vedere con la violenza circolante negli stadi”.
Ieri sera a Milano per l’atteso incontro Inter-Napoli era tutto sotto controllo, anche se un ragazzo ha subìto una coltellata. Cose che capitano? No, non devono accadere, anche se ci premuniamo della “tessera del tifoso”. Io ero assieme agli interisti in tribuna a commentare la partita. Questa è vera sportività perché un pallone non può essere motivo di una guerriglia fratricida. Ho visto un ragazzo con una sciarpa del Napoli accerchiato da un gruppo di teppistelli, già pronti all’attacco. E’ intervenuta la polizia, tutto è finito lì. Quei quattro mocciosi si sono allontanati, ma ritorneranno in veste di aggressori perché non hanno capito la spiritualità che anima il calcio.
Forse l’ha capita Aniello, un meridionale adottato cinquanta anni fa da Milano, che di professione realizza merchindising per l’Inter. “C’è crisi – mi racconta alla fine della partita – ma i miei gadget li faccio con passione perchè in una sciarpa o nella riproduzione di una coppa trasmetto la voglia di stare assieme. E in giro non vedo più”.
La Befana se n’è andata e, come ogni anno, si è portata via tutte le festività natalizie. Ci lascia per fortuna la convinzione che una partita di pallone sia un bel modo di ritrovarsi, come fanno Marco e tutti i sostenitori del Napoli Fans Club London, anche quando lontano dalla tua terra natia gli altri cercano di convincerti che resterai per sempre “un miserabile emigrante”.

Ecco il 2011: il mio Capodanno con il bimbo lottatore per la vita

Botti, spumante, euforia, brindisi, abbracci e baci per dare il benvenuto all’anno nuovo. Come sarà il 2011? E chi lo sa, mica noi blogger abbiamo la sfera magica.
Io voglio muovere i primi passi in questo nuovo anno assieme ai “lottatori per la vita”. Sono essere minuscoli che, dentro o fuori il grembo materno, combattono a denti stretti per restare qui con noi. Il miracolo della vita è qualcosa di incredibile e me lo sta ricordando un essere piccino piccino che in questo momento è in un’incubatrice. Lui sta lottando perché quel micro spazio diventi una culla. Voglio condividere con lui questo passaggio. Il mio sguardo si appanna sullo scivolo del Capodanno. I suoi occhietti semichiusi sono rivolti al soffitto di chissà quale ospedale, di chissà quale nido, mentre un filo di latte lo alimenta goccia dopo goccia. Lui non sa chi sono io e nemmeno io conosco il suo nome.
Attraverserò in silenzio tutte le corsie degli ospedali italiani per scovare quei bimbi come lui che non mollano la presa. Voglio festeggiare il Capodanno con tutti loro, perché appena nati sono stati capaci di darmi una gran bella lezione: resistere. Non ci sono avari sorpassi sociali, lavorativi, economici che tengano a confronto del miracolo della vita. Correndo correndo non ne abbiamo più tenuto conto.
Voglio resistere al tuo fianco, piccolo bimbo, affinché il miracolo della vita trasformi quell’incubatrice in una splendida culla. Buon Anno e tieni stretto il tuo orsacchiotto!

Diario di un blogger attraverso il 2010

Quando un altro anno se ne va via, un blogger ha un vantaggio dalla sua parte: un diario bello e fatto da poter sfogliare per ripercorrere a modo suo questo 2010. La scrittura è sempre farcita di emotività e di vita quotidiana, ma mi pare l’occasione per rivivere gli ultimi 12 mesi dell’anno.
Ricorderemo il 2010 per quella diavoleria tecnologica dell’iPad , ma anche per l’euforia di Facebook che a volte è diventata isterismo da “sindrome del mi piace”, onirico desiderio di calunniare, tenera strategia per corteggiare una donzella  o per festeggiare San Valentino . Le pagine del diario privato hanno preso il sopravvento nel calore della sciarpa di Antonia, nel disegno del dolcissimo Carmine, nei micro viaggi nei miei luoghi natali, in un racconto d’estate a puntate  o su un block-notes dopo la mia estate in Corsica. L’attualità mi ha ricordato la turbolenza della Fiat di Pomigliano , l’uccisione del Sindaco-pescatore, la guerra della monnezza a Terzigno  o la protesta degli studenti a Roma. Le buone o le cattive abitudini (dipende dai punti di vista!) mi hanno riportato nei matrimoni del Sud tra le bustarelle e le reunion familiari.
E poi ancora la delusione per l’uscita degli azzurri dai Mondiali, l’urlo dei ricordi per la Spagna campione del mondo, il sapore dello gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta, Calabria on my mind, ed io autista per un giorno a Brescia.
Mi mancheranno tre volti noti che se ne sono andati nel 2010: Sandra Mondaini, Mario Monicelli e Enzo Bearzot.
Devo eleggere una persona dell’anno, rovistando tra i miei post? E’  Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Con lei e con te, caro lettore, ho attraversato il 2010 e sono pronto per condividere  anche “l’anno che verrà”. Cin cin…

Caro Babbo Natale, ecco perchè non ti ho scritto più!

Caro Babbo Natale,
in giro sento dire che non servi più, che anche per te è arrivata l’ora della pensione: la previdenza sociale di quest’Europa traballante potrà sostenerti? Secondo me ti rinchiudono in una triste casa di cura per anziani e ti liquideranno così: “Era troppo stanco, si sentiva inutile”. Macché, questa è la solita frase fatta per tenere a bada i rimorsi delle nostre coscienze quando sbattiamo gli anziani negli ospizi.
Ho visitato la prima casa per anziani, nei primi anni ’80, durante le scuole elementari. La maestra ci disse che avremmo adottato un nonno per Natale. Io allora ne avevo già uno e credevo che tutti i vecchi avessero una bella nidiata di nipotini. Mi sbagliavo così come sugli spot che mi facevano vedere le case di cura come degli alberghi.  Il mio “nonno per un giorno” si chiamava Vincenzo e ti assomigliava tanto. Per un periodo mi convinsi che fossi davvero tu, quell’anziano signore sulla sedia a rotelle, prigioniero in quell’ospizio alla periferia di Napoli. Tentai invano di persuadere i compagni di classe a liberarlo e a portarlo a casa con noi. Nessuno mi diede ascolto.
La maestra mi suggerì di scriverti una letterina per chiederti di prenderti cura di Vincenzo. Ed io che pensavo tu portassi solo i doni ai bambini! Qualche mese dopo tornai dal mio nonno adottivo, ma lui non c’era più. Mi fecero credere che la mia calligrafia era così pessima che tu non avessi letto la mia richiesta. Per tanti anni ce l’ho avuta con te ed ecco perché non ti ho più scritto.
Caro Babbo Natale, torno a scriverti dopo trent’anni: puoi caricare sulla tua slitta più bambini possibili e fare in modo che trascorrano il giorno di Natale con i tanti nonni e nonne dimenticati?
Chissà che non sia il Natale giusto che io ritrovi pure Vincenzo, quel vecchietto sulla sedia a rotelle che ti assomigliava tanto.

Ci mancherà Enzo Bearzot e l’Italia che faceva squadra

Prima ancora che il calcio fosse annebbiato dalla tangentopoli dei pallonari, c’era la compostezza di Enzo Bearzot. Prima ancora che gli stadi fossero affollati da grezzi sbruffoni, c’era lo stile di Enzo Bearzot. Prima ancora che le rincorse emotive dietro un pallone si riducessero ad una ingordigia di violenza, c’era la sportività di Enzo Bearzot.
Come calciatore se lo ricordano in pochi, quei quattro gatti legati alle cronache sportive in bianco e nero del Belpaese del secolo scorso. Come Commissario Tecnico se lo ricordano in tanti, perché nel 1982 ci fece sognare ai Mondiali di Spagna con la Nazionale Italiana Campione del Mondo. In quell’occasione ci sentimmo eroi invincibili per più di una stagione, perché è vero quando si dice che tra gli spalti di uno stadio si assiepa lo specchio sociale. Quest’Italia di oggi, furbetta e cinica, è figlia di un’Italia che tentava di rifarsi la faccia attraverso il sorriso sornione del partigiano romantico, il Presidente tifoso Sandro Pertini. Questione di stile, in politica come nel calcio?
Allora Bearzot c’entra con Pertini. C’entra perché fu testardo a credere nei nuovi campioni – i Tardelli, i Rossi, gli Zoff, i Cabrini – non attraverso l’edonismo degli allenatori globalizzati, bensì nel vero gioco di squadra che si fa bilanciando il tatticismo della testa con la passione del cuore. Quello di Vecio era un altro calcio, quello dello stare assieme. Enzo Bearzot ci mancherà perché oggi ognuno vuole vincere da solo, ad ogni costo. Lui ci ha dimostrato che, nel gioco come la vita, lo scintillio di una vittoria condivisa vale più di qualsiasi altra gloria subordinata al becero individualismo.