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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Sotto l’albero di Natale tra Blake Edwards e Audrey Hepburn

Alle mie spalle c’è l’albero di Natale che fa luce nel buio. Alla mia sinistra campeggia la locandina di Colazione da Tiffany, con Holly (la protagonista del film) che prende forma in un regolare disegno. Escono dallo schermo televisivo a 40 pollici Audrey Hepburn e George Peppard e mi sembra di toccarli con mano. Niente effetti 3D, ma semplicemente un DVD della copia restaurata di Colazione da Tiffany. Ma ci rendiamo conto: questa è roba di mezzo secolo fa, ma l’effetto è stupefacente. Audrey canticchia Moon River e io alzo il volume del Dolby Surround. I vicini protestano ed io faccio finta di niente. Com’è possibile che sia così deliziosa? Certo regale in Vacanze Romane, elegante in Cerenentola a Parigi, canterina in My Fair Lady, di classe in Sabrina, ma in questo film è diversa dal solito. Sarà pure la mano del regista.
Chi, quel burlone bistrattato da Hollywood di Blake Edwards? Sì, proprio lui che il pubblico ricorda per i film della Pantera Rosa. Non c’è niente da fare, la vita è fatta di incontri occasionali. Edwards non l’ho mai conosciuto, ma tanti anni fa in quell’aula universitaria incrociai una professoressa sopra le righe. Silvana Valerio mi disse papale papale: “Se vuoi amare il cinema, metti via i paraocchi e sali sulla giostra”. Tra i titoli di quella giostra c’erano La Pantera Rosa, Hollywood Party, SOB e Operazione Sottoveste. Fu allora che mi convinsi che nello studio come nella vita occorre cambiare i punti di riferimento, altrimenti si finisce nella solita gabbia, perché ognuno ti vorrebbe a sua immagine e somiglianza.
Intanto il film è terminato ed io mi chiedo cosa avessere in comune Blake Edwards e Audrey Hepburn. Essere due americani nati nel posto più sbagliato, perché sono più europei di tutti noi messi assieme. Mannaggia, inciampo nel buio senza accorgermi della notizia che esce dal pc: “Il regista Blake Edwards è morto a quasi novant’anni”. La solita burla! Forse la vera burla è un’altra, essermi trovato sotto l’albero di Natale tra Audrey Hepburn e Blake Edwards.

Guerriglia a Roma: strumentalizzare il diritto di manifestare?

Quel martedì nero di guerriglia urbana a Roma non lo dimenticheremo facilmente. Se avessimo fatto uno switch sul bianco e nero dei nostri LCD, avremmo rivisto qualche sequenza degli Anni di Piombo. Sì proprio gli anni ’70, quelli liquidati con le assoluzioni sibilline dei mostruosi attentati a Piazza Fontana e a Piazza della Loggia. Mentre la rivolta studentesca, che ha preso d’assalto i monumenti italiani, è liquidata da qualcuno come coreografia e folclore, l’ondata violenta nella capitale contro il Governo intimorisce, scandalizza, depista.
Punto uno: intimorisce perché occorre far chiarezza su un punto, e cioè chi fossero gli aggressori infiltrati che hanno procurato violenza, facendo danni per oltre 20 milioni di euro e, soprattutto, messo in pericolo la vita di manifestanti e forze dell’ordine.
Punto due: scandalizza perché, come ipotizza il settimanale l’Espresso, potrebbe esserci la presenza di “agenti provocatori” all’interno dei cortei.
Punto tre: depista perché questa guerriglia cittadina rischia di trasformarsi in una ridicola strumentalizzazione ai danni degli studenti italiani. Nessuno si è chiesto: perché mai c’è tanto malcontento in Italia?
Fanno bene le associazioni studentesche a prendere le distanze dalla violenza e a ribadire un concetto: manifestare è un sacrosanto diritto. Il Belpaese lo sta dimenticando perché gli uomini col megafono diventano una rarità, mentre i poltronai si moltiplicano, alla faccia delle sequenze delle sommosse delle banlieue parigine, che sembrano un ricordo sbiadito. E in tutto questo un po’ di colpa ce l’avranno pure quei genitori salottieri, “i mostri invisibili” che ieri sono stati a guardare con viltà il ’68 tra le mura domestiche e oggi ammazzano le coscienze collettive dei figli con la vergognosa filastrocca: “Lascia perdere il megafono e resta a casa a studiare”.
Ci sono tante modalità di protestare, senza inciampare in atti di vandalismo e aggressività, come quelli che ci propina la tv ad ogni ora del giorno. Scusate, se insisto: non è stato “violento” il trailer onirico di Bruno Vespa su Sarah e Yara, che ha interrotto una settimana fa il film Cenerentola? Ne vogliamo parlare?

Vincenzo e i sogni ad occhi aperti di un imprenditore del Sud Italia in Romania

Sale e scende dall’aereo come se fosse un autobus. Nonostante la recente nomina in Confindustria Romania di Coordinatore nazionale all’Ambiente e all’Energia, Vincenzo snobba la business class e svolazza tra i cieli in stile low cost. Poco conformista per uno che, in qualità di Membro del direttivo di Unimpresa Romania, oggi passeggia con l’ambasciatore italiano e dopo domani è a cena col Presidente Băsescu. Quando atterra all’aeroporto di Capodichino, i tassisti non osano avvicinarsi perché la risposta è la solita: “No, grazie. Ho il grande privilegio di avere i miei figli Elisabetta, Ada e Luigi che mi portano a zonzo”.

Del resto, non può essere altrimenti per un paladino della semplicità come lui, figlio del Sud Italia. Anzi, “figlio del Sud”, come ci tiene a precisare lui stesso, nonostante si sa che non si è mai profeti in patria, vista l’aria che tira nei piccoli centri di periferia. Eppure Gaudino è uno dall’occhio lungo. Una decina d’anni fa ha spostato l’attività imprenditoriale dalla provincia di Napoli a Bucarest non per un capriccio estemporaneo, ma perché aveva intuito che il nuovo asse economico si spostava nei Paesi dell’Est. Oggi Telecomponenti Romania rappresenta un’attività industriale fortemente consolidata all’estero attraverso forniture di energia, telecomunicazione e gas.

Nel luglio del 2009, Vincenzo Gaudino è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine di Malta, ma non ha perso quel suo humor tagliente che lo caratterizza: pranzare con lui è un piacere perché ti fa tuffare nella piscina della memoria locale, in cui pure un siparietto dai colori paesani può diventare un acuto momento di riflessione.

Chissà in quanti hanno pensato che la scelta di Vincenzo Gaudino fosse una “pulcinellata”, ovvero una bricconata di chi abbandonava le certezze del piccolo feudo per lanciarsi in nuove sfide. Nessuno aveva colto in flagrante il sogno di questo meridionale, quello dell’uomo che si è fatto da sé. Il territorio dovrebbe tutelare di più gli imprenditori di razza come Gaudino, perché la “passione” è l’ultima chance per il riscatto del nostro Mezzogiorno. E per una volta lasciamo in soffitta i soliti luoghi comuni!

New York 8/12/2010 h.22.50 – Milano 9/12/2010 h.4.50, In memoria di John Lennon

Mother, Hold On, I Found Out, Working Class Hero, Isolation, Remember, Love, Well Well Well, Look At Me, God, My Mummy’s Dead,Imagine, Crippled Inside, Jealous Guy, It’s So Hard, I Don’t Want to Be a Soldier, Gimme Some Truth, Oh My Love, How Do You Sleep?, How?, Oh Yoko! , Woman is the Nigger of the World, Sisters O Sisters, Attica State, Born in a Prison, New York City, Sunday bloody Sunday, The Luck of the irish, John Sinclair, Angela, We are all Water, Cold Turkey, Don’t Worry Kyoko,Mind Games, Tight A$, Aisumasen (I’m Sorry), One Day (at a Time), Bring on the Lucie, Nutopian International Anthem, Intuition, Out the Blue, Only People, I Know (I Know), You Are Here, Meat Cit, Going Down on Love, Whatever Gets You Thru the Night, Old Dirt Road – (John Lennon/Harry Nilsson), What You Got, Bless You, Scared, #9 Dream,Surprise, Surprise (Sweet Bird of Paradox),Steel and Glass, Beef Jerky, Nobody Loves You (When You’re Down and Out), Ya Ya, Power to the People, Give Peace a Chance, Istant Karma, Happy Xmas (War is over), (Just Like) Starting Over,Cleanup Time,I’m Losing You, Beautiful Boy (Darling Boy), Watching the Wheels, Woman, Dear Yoko.

La tua musica ha solcato la mia adolescenza, i tuoi versi sono diventati la voce della mia coscienza. Allora come adesso ogni tua canzone resta la colonna sonora della mia vita, perchè nelle tue contraddizioni c’è l’affannosa ricerca dell’uomo di un mondo più giusto. Immagino che… Ed io voglio crederci ancora.
A John W. Lennon (1940-1980)

 

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8 dicembre, 30 anni senza John Lennon

Ci sono modi e modi per andare contromano rispetto alla tua generazione. Il pericolo era uno solo e non era da poco, anche alla fine degli anni ‘80: rischiavi di isolarti, perché mentre gli altri ascoltavano Vasco e cazzeggiavano col Sì della Piaggio, le tue frequentazioni musicali si aggiravano dalle parti di John Lennon (1940-1980) e in sella alla tua Vespa rossa sognavi di fuggire a Liverpool, nella sua città natale. Eppure per molti Lennon è stato il capriccio di una stagione, un fuoco di paglia nel passaggio dall’adolescenza alla gioventù. Per me la musica di Lennon è stato il portone che mi ha fatto rompere le barriere e i pregiudizi di chi pensa che una canzone non possa essere contemporaneamente arte, letteratura e visione.
L’8 dicembre il mondo ricorda i 30 anni dalla scomparsa dell’ex Beatles nella lapidaria esclamazione del fan assassino “Bang, bang! Sei morto!”. Io rivivo invece gli ultimi vent’anni della mia vita tra le notti indigeste a riascoltare le sue canzoni; in viaggio tra Londra, Liverpool e New York; le scorpacciate di libri ed articoli per scoprire quale mistero o pozione magica ci fosse nell’anima contraddittoria di questo artista; quella vigilia di Natale di dieci anni fa in cui il postino suonò due volte al campanello di casa mia per recapitarmi una lettera speciale. Il mittente era la signora Yoko Ono Lennon che, colpita da un mio breve messaggio, mi aveva spedito gli auguri di Natale con una breve poesia, a firma anche del marito.
Tutto questo lungo tempo, in cui mi sono divertito a fare il trasformista da studente ribelle ad universitario per passione, da nomade lontano dalla terra natale a scrivano per mestiere, mi ha lasciato una filosofia inconfutabile: “Immagina che…”, testamento sospeso di John Lennon che non pone “l’immaginazione” su un altarino infantile, ma le restituisce la vitalità nella conquista dell’utopia.
“Imagine all the people living life in peace” non è l’ostinata presa di posizione del Lennon sognatore, ma la riflessione di chi aveva capito che lo scivolone tra “immaginazione” e “utopia” ci avrebbe allungato la vita. Perciò tra la mia capigliatura brizzolata è ancora superstite l’ultima ciocca di quei capelli lunghi che portavo a vent’anni, segno della ciclicità delle stagioni dell’esistenza; perciò nella notte dell’8 dicembre del ’90  mi misi fuori al balcone con una radiolina accesa sulle note di Imagine; perciò ancora oggi vado contromano rispetto alla mia generazione, che spesso ritrovo ammutolita nel suo torpore, qualche volta sconfitta, certe volte afflitta. A John Lennon devo qualcosa di quel che sono: il coraggio di essere rimasto sognatore. Il rischio? Camminare da solo, crescendo come una voce fuori dal coro.

Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!

Busta o non busta, questo è il problema. Mica quella dell’immondizia, ma la bustarella con i soldi che non può mancare ad ogni matrimonio napoletano che si rispetti. Tutti lo snobbano, ma poi tutti vogliono il regalo in cash. Con la crisi che c’è in giro, ritrovarsi tra gli invitati di un banchetto nunziale non è confortante per niente.
Una volta le indagini si facevano via telefono, adesso basta aggirarsi sulle bacheche dei social network per sondare gli umori e capire quanto bisogna sborsare per far felice i neo sposini. Tuttavia, il regalo in busta è anche l’ultima spiaggia per pagare il conto salato della cerimonia: chi famiglia napoletana rinuncerebbe mai all’evento sfarzoso? Nel 1971, un cugino di mia madre, organizzò il matrimonio facendo i conti sui regali in denaro degli invitati, senza calcolare il rischio di non raggiungere la somma necessaria. Nonna Lucia fu molto chiara con nonno Pasquale dopo il taglio della torta e gli bisbigliò: “Pasqua’ dobbiamo raddoppiare la somma per Enzuccio, altrimenti restiamo qui a lavare i piatti”.
Quarant’anni fa come oggi la ruota gira sempre allo stesso modo, con una differenza: nel nuovo millennio i matrimoni durano il tempo di una stagione. Insomma, gli sposi dovrebbero impegnarsi con gli invitati a restituire il premio in caso di divorzio o separazione entro i primi 36 mesi di vita coniugale. Per non parlare dei separati e divorziati che circolano in Italia, molti dei quali hanno la faccia tosta: si risposano per la seconda, terza e quarta volta e pretendono pure la bustarella! E poi non ha ragione zia Concettina a starnazzare: “Il mio dovere l’ho fatto al primo matrimonio. Mmo’ basta”.
Scampato il pericolo della lista nozze, le alternative sono due: riciclare un vecchio regalo inutile, trafugato da qualche altra ricorrenza oppure donare i soldi agli sposi in sei comode rate.
Povero papà mio, meno male che non legge i miei articoli, altrimenti creperebbe dalla vergogna. Casomai salirò all’altare, ho già la soluzione: matrimonio “sponsorizzato” da piccole aziende agroalimentari locali,  senza dover chiedere niente a nessuno, con la speranza di poter scrivere con una bomboletta spray: “…E vissero felici e contenti”. O quasi!

Mario Monicelli è andato via, ma i miei ricordi con lui restano qui

Quella mattina avevo in tasca 6.000 delle vecchie lire. Non una lira in più, non una lira in meno. In un’edicola trovai la videocassetta di La Grande Guerra di Mario Monicelli, nell’edizione pubblicata dall’Unità. Riuscii a farmela dare dal giornalaio senza l’aggiunta del quotidiano. Saltai il pranzo e la infilai nel videoregistratore: credo di aver rivisto quel film almeno una quindicina di volte. Quella stessa vhs un paio d’anni dopo mi è stata autografata da Sordi e non mi sarei aspettato di certo di trovarmi a cena con un grande attore (Alberto Sordi), un signor regista (Mario Monicelli) e una sceneggiatrice di classe (Suso Cecco D’Amico). Allora ero uno studente universitario, mezzo saltimbanco tra teatro e cinema, ma dinanzi a me prendeva forma il mio mestiere. Che ne sapevo che bastavano una biro e un taccuino?
Li ho ascoltati tutta la sera conversare con quel rispetto tipico del nipote dinanzi ai nonni, che ti donano la loro memoria preziosa. Sedimentavo in immagini tutti i loro ricordi, recintati nel cuore di tre vecchi amici che davanti o dietro la macchina da presa non avevano mai smesso di divertirsi. E quando Mario Monicelli ha capito che il divertimento era finito, si è gettato dal quinto piano di un ospedale romano prendendosi gioco di noi. Sembra una scena censurata del goliardico Amici miei, ereditato dal compianto Pietro Germi. Una scena tragica in cui coabitano il cinismo, la severità, l’ironia e l’intellettualità dell’ultimo grande maestro del Cinema italiano del ‘900.
L’ho perseguitato per anni, in giro per l’Italia e all’estero, e ogni scusa era buona per strappargli un aneddoto: Monicelli mi raccontò a spizzichi e bocconi di Totò sul set; mi rimproverò perché la mia generazione voleva filmare traumi che non le appartenevano; ammise che il segreto del successo della commedia all’italiana tra gli anni ’50 e ’60 era nell’amicizia e nella complicità tra registi, attori, sceneggiatori. Il segreto era tutto lì, è inutile girarci intorno.
Ho visto tutti i suoi film, ma due pellicole in particolare mi hanno lasciato una bella lezione. La grande guerra mi ha convinto che i veri eroi sono invisibili come il personaggio lavativo e strafottente di Sordi ; Un borghese piccolo piccolo mi ha fatto prendere le distanze dal tipico “borghese cacasotto”, che continuo ad incrociare e ad evitare puntualmente nella mia vita. Il piccolo uomo meschino, che come Sordi si nasconde dentro un paio di baffi, lì seduto nella poltrona del suo salotto, circondato da gingilli, vincente nel suo piccolo ranch e sconfitto ovunque, servo della famiglia imbalsamata con il sedere sporco di cacca. E Mario Monicelli mi ha insegnato che nessuno gliela toglierà dal culo, perciò il borghese resta “piccolo piccolo”.

Diario di viaggio: io autista di autobus per un giorno sulla linea 10 di Brescia

Rosario PipoloDa bambino sognavo di fare il conducente di autobus. Oggi sono una frana alla guida, ma all’epoca mi bastava avere un volante tra le mani per salire al settimo cielo. Così in un sabato mattina uggioso di Novembre mi sono detto: o adesso, o mai più. Dall’armadio tiro fuori giacca e pantalone blu, creandomi la divisa. Per farvela breve, pedino un autista a Brescia per fare assieme a lui tutto il turno lavorativo dalle 4.43 alle 10 del mattino. Sono assonnato e la città è deserta. Dopo una colazione fugace alle macchinette, osservo i miei pseudo-colleghi nel gabbiotto che compilano il foglio di marcia. Mi apposto davanti al deposito di Brescia Trasporti, la società di mobilità della città lombarda, e alla prima fermata salgo sul numero 10, quello che fa la tratta Concesio-Poncarale. L’autista ha una faccia simpatica, è della periferia di Napoli.
Mi siedo dietro di lui e cerco di monitorare tutti i suoi movimenti, quasi come a voler dire: “Ehi, collega. Se sei stanco, passo io alla guida”. Alle 5.16, alla fermata di Triumplina, sale il primo passeggero, una signora sulla quarantina. Non ha il biglietto e le offro l’ultimo che mi rimane, tanto mi dico : “Stamattina gioco a fare il conducente. Mica il controllore mi farà la multa?”. Poco prima delle 6 sale un altro collega. Dall’accento è palese, è un siciliano. Parlottiamo, lui è di Termine Merese e mi racconta del suo trasferimento al Nord, della famiglia che gli manca, della crisi e dei soldi che non bastano mai a fine mese. I miei pensieri divagano in questa Brescia nottambula, che improvvisamente lascia la sua multietnicità per restituirmi alcuni ricordi: la mia prima volta a piazza della Loggia avvolto da quel silenzio tombale “per non dimenticare quel tragico 28 maggio del 1974”; la mia prima volta a Brescia 2 alla ricerca di Lara e del suo mondo; la mia prima volta a fare colloqui con la laurea fresca di giornata. Alle 7 spunta la luce e l’autobus si anima di studentesse. Carine, scherzano, bella gioventù! Mentre la città sbadiglia e si sveglia, arrivo al capolinea a Flero. Ci sono venti minuti di pausa prima di ripartire. Vado al bar a fare colazione: brioche e cappuccino. Pago anche per l’autista alla guida del numero 10, ma lui non si accorge di niente.
Poi si riparte, la stanchezza inizia a farsi sentire, mentre le lancette dell’orologio si rincorrono fino alla fine del turno. Sono stanco, ho i piedi congelati e riesco a malapena ad arrivare nei pressi del deposito di Brescia Trasporti.  L’autista scompare col suo autobus, mentre io alzo gli occhi al cielo. Gli schizzi di pioggia mi pizzicano il viso e io ripenso a tutti gli autisti che ci scarrozzano in giro ogni giorno: ai giovani, ai meno giovani, ai pensionati, a quelli che non ci sono più. A tutti i conducenti che ci trasformano, al costo di un biglietto, in padroni delle nostre città, perché solo un servizio efficiente di trasporto pubblico può farci sentire “turisti inconsapevoli” del nostro territorio. Persino quando certi posti non ci appartengono, perchè le nostre radici sono altrove. Autista per un giorno? Sì, per raccontare tutti coloro che si nascondono dietro quel volante, tutti i giorni, a tutte le ore, col sole e con la neve.

Dov’è finita la Giannitrapani? Una certa Nathalie…

Qualche ora prima aveva bucato lo schermo dal palco di X Factor. Dopo l’incoronazione, è scomparsa. Dov’è finita la Giannitrapani? Chi? Quella ragazza minuta di Roma, deliziosamente timida che, appena si siede al piano e ti canta “In punta di piedi”, ti incanta ovunque si trovi. E adesso pure su iTunes è riuscita a fare il botto. Niente personaggi joker alla maniera di Nevruz, niente melodici – belle voci badiamo bene – alla maniera di Davide, ma solo Giannitrapani.
A pochi metri dagli Est End Studios di via Mecenate a Milano, c’era un capannone trasformato per l’occasione in un locale temporary. Festa modaiola? Per niente. Un via vai di persone, addetti ai lavori e non, per festeggiare in bellezza il successo X Factor. Peccato che la Rai la pensi diversamente: poco share nell’ultima puntata e tagliamo pure l’unico ponte che lega i giovani alla musica in tv.
Sono al bar in compagnia del mio Campari e chi mi trovo a fianco? La Giannitrapani che sorseggia un drink. E’ lì sorridente, come se non le fosse accaduto niente, come se su quel contratto discografico dal valore di 300 mila euro non ci fosse il suo nome. Io come al solito sono sfacciato: “Lo sai che ci hai fatto trepidare? Altro che festa stasera, se il televoto ci avesse giocato un brutto scherzo! Nella vita non si finisce mai di lottare. Adesso ci sono i discografici…”. E’ una riflessione, mica un modo come un altro per attaccare bottone con la Giannitrapani! Poco professionale. E poi è fidanzata, lo sanno tutti. Finiamola con queste stupide insinuazioni. Lei mi sorride e facciamo un brindisi sul mio bisbiglio: “Hai tirato fuori gli artigli per cantare il tuo inedito, adesso fallo per riempire il tuo primo disco”.
Poi si mischia tra gli amici e io torno a girovagare. Mannaggia, che figuraccia! Da quando ho iniziato a scrivere questo stralcio di diario da nottambulo, neanche una volta l’ho chiamata per nome: semplicemente Nathalie.

Alleluja! E’ nato Amazon Italia, ma per la musica meglio UK e Germania!

Mettiamo le cose in chiaro. Non sono il tipo che ama fare shopping, almeno che non siano libri, cd e dvd. La perplessità sugli acquisti on line mi è passata con Amazon, grazie anche all’efficienza del Servizio Clienti dei negozi degli Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania. Adesso che il megastore on line più famoso del web ha aperto una filiale in Italia, perché spingersi oltre confine? Allo scoccare della mezzanotte del 23 novembre Amazon.it ha  spalancato i battenti con numeri da capogiro: 2 milioni di libri, 400 mila e passa cd e più di 100 mila dvd. Insomma c’è pane per i miei denti anche se bisogna tenere l’occhio aperto.
Non è detto che Amazon.it sia più conveniente degli altri cugini, anche perché in Italia su cd e dvd campeggia la solita minaccia: l’Iva. Per non parlare del diktat di case discografiche (il catalogo dei Beatles in UK costa la metà!) e delle major cinematografiche fa lievitare i prezzi. Un box celebrativo di dvd di Audrey Hepburn o Marilyn Monroe su Amazon UK ha il vantaggio di costare tre volte meno, ma con la rinuncia al doppiaggio e ai sottotitoli in italiano. Per gli album stranieri invece non ci sono confini o barriere, a parte il solito problema che si ripete con gli acquisti da Amazon USA: compri a prezzi stracciati, ma alla dogana ti appioppano il 20% di Iva. Il vantaggio di comprare in Italia è la pronta consegna e le spese di spedizione gratuite se superi un acquisto di 19€. Il gioco vale la candela?
E’ opportuno sempre un confronto veloce con Amazon.co.uk e Amazon.de (il più appetibile in questo momento per la musica)!
Tuttavia, Amazon Italia dovrebbe correggere un attimo il tiro per quanto riguarda la dicitura “edizione” e la specifica del Paese. Suppongo che quella specifica si riferisca al negozio di provenienza, perché un cd stampato in Europa dalla prima metà degli ann’ 90 non cambia da nazione a nazione, a meno che non sia stata pubblicata una special edition.
Non ho fatto ancora il primo acquisto, perchè al momento UK e Germania sono più convenienti. E Amazon Italia dovrà tenerne conto!

Aggiornato al 18/12/2010: Ho fatto il primo acquisto su Amazon.it! Consegna standard in 2 giorni, prima del previsto, nonostante la neve. Ho acquistato Miles Davis The complete Columbia Album Collection al prezzo più basso tra tutti gli store Amazon.