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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Stai con me, Sakineh!

Il passaparola su i social network, Facebook in testa, è stato un uragano: tutti solidali con Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e aver ucciso il marito. La rete si muove alla velocità della luce e, intanto, da Teheran arriva una buona notizia. La condanna è stata sospesa e sarà sottoposta a revisione. Non dobbiamo abbassare la guardia, ma possiamo tirare un sospiro di sollievo. Sakineh è il personaggio-simbolo di una pratica mostruosa come la lapidazione, che in questo momento mette in pericolo la vita di tante altre donne. Sakineh è diventata un’icona e il taglio del suo viso senza velo, rimbalzato da una parte all’altra del pianeta, restituisce sobrietà e dignità all’universo femminile.
Noi, drogati da paillettes da rotocalco, ci stavamo convincendo che tutto si riducesse a letterine, subrettine, culi e tette rifatte. Abbiamo riscoperto la bellezza della donna, con Sakineh, lì nella penombra della sofferenza, sotto il velo del dolore. Come se poi spettasse a noi condannare – la pena di morte è la più grande offesa rivolta all’umanità – qualunque cosa ci sia in ballo, anche l’adulterio, punibile tra l’altro in Italia fino al 1968. Il peccato di aver amato un altro uomo, in una cultura che organizza le unioni matrimoniali come se fossero contratti, si imbriglia in una visione romantica e poetica di questa triste vicenda? Perlomeno mettiamo nero su bianco l’unica parola per cui vale la pena lottare: l’amore.
E allora come accenna quella dolce canzone che ti è stata dedicata, ti dico “Stai con me, Sakineh”. Lo so, è paradossale. Dovrei essere io a fare il contrario, ma non ne sono capace. Stai con me, Sakineh e rivelami il segreto che tutti hanno tentato di nascondermi da quando sono al mondo. Il tuo Dio è uguale al mio perché dove c’è amore non può esserci condanna, ma solo la certezza che la disperazione resiste tra gli scheletri dell’armadio, quelli occultati dalle nostre coscienze.

Diario di viaggio: i sussurri di Teresa tra le montagne della Valle Vigezzo

John Ruskin aveva ragione ad affermare che “le montagne sono il principio e la fine di ogni scenario naturale”. Chi viene da una città di mare, scivola sempre sulla stessa buccia di banalità e così tra un tuffo in acqua salata e un passeggiata in alta quota preferisce la prima ipotesi. Il mio mini viaggio on the road tra le montagne della Valle Vigezzo in Piemonte mi ha proposto un’altra alternativa per un intelligente uso del tempo libero: ritrovare il dialogo con la natura, lasciando che la pelle si raffreddi con un’immersione nell’acqua dolce di un lago alpino. Poi lo stomaco ci mette il suo con un piatto di gnocchi ossolani a Druogno; gli occhi si soffermano sulle facciate delle case pittoresche di Santa Maria Maggiore; la fantasia sosta a Malesco dove gli spazzacamini non sono né roba da fiabe per bambini né frullano soltanto sul filo della voce di Mary Poppins. Qui, infatti, nel primo fine settimana di settembre, si svolge da quasi trent’anni un raduno magico che li celebra!
La montagna, quando vuole ed ha voglia, sa lasciarti incontri casuali ed emozionanti. Teresa, l’anziana signora milanese, che da qualche anno trascorre le vacanze qui nella Valle Vigezzo. Ho condiviso con lei un piatto di pasta e melanzane mentre mi raccontava della sua Milano del dopoguerra, di quando il marito le portò a casa la prima lavatrice, delle figliole Laura e Rosanna che scorazzavano per casa, valorizzando la gioia di essere mamma. Ad un certo punto mi ha indicato una montagna e la ha associata al capo di una donna addormentata. A tavola mi hanno fatto cenno di non preoccuparmi perchè era l’avanzare dell’età a guidarla in uno slalom tra realtà e immaginazione. La sera a cena Teresa ha risposto a tono ad una mia battuta con la massima: “Quando il diavolo ti accarezza, vuole l’anima”. E’ la stessa frase che mia nonna Lucia mi ripeteva puntualmente nelle sere d’estate delle nostre vacanze. In quell’istante ho capito che Teresa era la più lucida tra tutti noi, che non aveva né bisogno di medicinali né di compassione, ma solo di amore perché la sua mente si faceva trasportare dai sussurri delle montagne. Chissà se la “donna addormentata” non fosse proprio nonna Lucia, con la sua chioma imbiancata. Chissà se le nuvole che osservava Teresa, a cui dava una forma e un nome, non sono le stesse che guardo io quando vago tra i miei pensieri. Dovremmo tornare a guardare al di là della superfice che ci circonda per non sottometterci alla “resistenza della quotidianità”, ma per mutare il nostro stato d’essere.
Prima di ripartire, non ho detto a Teresa che a me succede la stessa cosa. E se mi reputate un matto, per favore non rinchiudetemi im una casa di cura, ma riportatemi tre quelle montagne piemontesi da Teresa, mia nonna per un giorno, per condividere un altro piatto di pasta e melanzane e divagare con lei, ricordandoci che tutto è superfluo, a parte la nostra anima.

Diario di viaggio: ritorno sui Quartieri Spagnoli

Tornare da viaggiatore nella propria città a fine agosto non so se sia un privilegio o uno svantaggio. Da una parte paghi lo scotto di sentirti un girovago nella tua terra natia, ma dall’altra il tuo sguardo si posa su particolari che prima ti sfuggivano. Napoli è Napoli, ma recarsi su i quartieri Spagnoli è un modo come un altro per tracciare le origini. Certo che questa zona – nel XVI secolo diede non pochi grattacapi al vicerè Don Pedro di Toledo alla prese con malavita e prostituzione – resta una delle aree più seducenti del capoluogo campano. I buoni consigli di mia madre erano “non ti avventurare nei quartieri”, ma io nei primi anni ’90 percorrevo anche al buio via Montecalvario per arrivare a Galleria Toledo, dove mi aspettavano gli spettacoli di Annibale Ruccello, Enzo Moscato e Francesco Silvestri. Una volta ci sono finito per sbaglio pure con la mia prima auto, una 127 bianca, ed è stata un’impresa uscirne.
Ritornarci adesso ha avuto un valore diverso, ripercorrendo quelle strade che non ti capitavano mai sottomano, da via Speranzella fino all’arrampicata di via de Deo, che con disinvoltura volge lo sguardo verso il corso Vittorio Emanuele. Il terrore di tutti: attenzione che adesso arriva lo scippatore di turno! A me nessuno ha messo mai un dito addosso, sarà perché camuffo la mia parlata, sarà perché gioco a fare il pazzariello ambulante che stona vecchie canzoni napoletane. Anche qui le cose sono cambiate: diverse attività commerciali sono gestite da extra-comunitari, in giro ci sono pochi “femmenielli” e dai bassi spuntano gli sguardi spioni di donne di colore. Vincenzo è seduto sulla sua seggiola e fuma l’ultima sigaretta prima del pranzo: mi racconta dei sette figli e dei nipotini; degli sforzi fatti per tenerli lontani dalla malavita (il suo motto è “amico ‘e tutti, ma ‘a distanza ‘o mumento juste”); dei nuovi scugnizzi che rinunciano alle vacanze, fanno i fancazzisti e se ne vanno a giocare al Bingo nei pressi di piazza Carità; dei cinesi che hanno preso in pugno il controllo delle attività clandestine; degli affitti che sono arrivati alle stelle: “Dottò, e mmo mettene ‘a dieci nire dinto e fanne ‘e sorde”. E poi dopo, con aria sospettosa, mi chiede se sono un investigatore privato.
Io sorrido e la butto sull’ironia: “Don Vincé, se fossi un investigatore non sarei uno squattrinato”.  Mi guardo intorno, alzo la testa e mi soffermo sulle lenzuola stese, su i balconi, sulle finestre semichiuse, chiedendomi il perché lì sotto non ci sono mai capitato. Forse venti anni fa sarebbe stato diverso, avrei incontrato altra gente. Prendo una bottiglia d’acqua fredda da un fruttivendolo e da una radiolina una voce canta: “La paura di dividerci per niente, anche fermi volavamo con la mente”. Chiedo alla signora se si tratta di Gigi Finizio, cantante partenopeo molto seguito da quelle parti. E lei mi chiama l’esperta della famiglia, una ragazza prosperosa di una ventina d’anni, che mi rimprovera: “Vuje ‘e musica nun capite niente. Chiste è Natale Galletta, l’idolo mio. Jate ‘ncopp ‘a Youtub…”.  Così scivolando via, mi sono portato come souvenir il motivetto neomelodico di “Vivi”. E pensare che c’ero andato per prendermi qualcosa che credevo fosse mio, invece sono arrivato troppo tardi. Tutto cambia, ma per restare come prima.

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Diario di viaggio: la Corsica in “un dito”

Quando vai su un’isola, la traversata ha il suo perchè. In nave, per isolarti dal caos dei vacanzieri, basta incontrare la persona giusta: Lino, il genovese che sognò la Corsica. Lui, dopo tanti anni di lavoro passati al porto di Genova, ha comprato una casetta sull’isola francese e spesso se ne fugge lì con la deliziosa famigliola. Il tempo vola parlando della Genova di Faber e Tenco, delle delusioni della sua generazione, di pesto e farinata, di futuro incerto tra figli e nipoti. A Bastia Lino scompare in auto e per me inizia il viaggio avventuroso alla scoperta del Capo Corso, zaino in spalla e tenda.
Bastia è un misto tra Genova e Nizza, ma la città vecchia è così intrigante da farti perdere tra vicoli e vicoletti. Sentire un papà chiamare il figlio “Gennaro” ti incuriosisce: hai incrociato un Corso con amici a Napoli e quale miglior modo per siglare un patto d’alleanza, se non quello di mettere in mezzo il santo patrono partenopeo? Gli autobus in Corsica sono una rarità, ma il conducente è un tizio alla mano: viene dal “Continent” – così i Corsi chiamano i francesi – e fa l’autista da una vita. Seduta al tuo fianco c’è un’anziana signora che ti racconta la ua “jeunesse” andata in una casetta in riva al mare. Potrebbe essere il soggetto di una canzone da suggerire ai Muvrini, il gruppo musicale che trasfigura in note folk, tradizione e futuro.
Lontano dal chiasso del Belpaese, si resta rapiti della natura selvaggia del paesaggio, da queste spiagge isolate lungo la strada dove non ci sono bagnini, ombrelloni e lidi. Ci sei tu e l’immensità del mare; e non ci vuole tanto per capire che puoi fare a meno di internet, del telefono, dell’iPod, ma non puoi privarti dell’ebbrezza di assaggiatore vagabondo: formaggio locale, pane con le noci e una buona birra Pietra, tanto poi ci pensa il palato a fare il resto, ad indicarti la strada per vivere questo “dito” della Corsica. E vale la pena soffermarsi sui dettagli che la frenesia quotidiana ci sta scippando giorno dopo giorno: il grido del vento, i sussurri delle piogge estive, i cieli stellati che agguantano l’oscurità delle notti d’agosto, le strade deserte che ti fanno sentire un naufrago, metà Robinson Crousoe, metà Corto Maltese.
A Pietranera il mare si stropiccia sugli scogli; a Erbalonga le case diroccate ti spiano; a Porticciolo le discese sembrano gli scivoli che cercavamo da bambini; a Santa Severa le quattro anime che ci abitano entrano a far parte del tuo universo e ti dimostrano che i Corsi non sono così orsi come dicono; a Macinaggio le barche sono alla ricerca di acqua cristallina, quella innamorata della sabbia della spiaggia di Tamarone. L’aria da campeggio, quella al Santa Marina di Santa Severa, fa davvero bene perché ti riporta al minimalismo della vita, in tenda come un nomade, figlio delle intemperie, sottraendoti alle stupide preoccupazioni della vita metropolitana. C’è Freddy, che canta le canzoni di Carosone e Massimo Ranieri, e la sera ti prepara da mangiare: quando diventi grande hai la sensazione che nessuno si preoccupi più di te, mentre il viaggio ti restituisce la certezza che dovunque tu vada ci sarà sempre qualcuno a prendersi cura.
Poi ti improvvisi autostoppista e, da solo che eri, condividi questi giorni d’agosto con tante persone: dal livornese anarchico agli spagnoli che sognano l’indipendenza della Catalugna; dal grande costruttore di auto militari all’anonima coppia anziana; dal parigino, che in auto ti fa vedere i sorci verdi tra una curva e un’altra, al panettiere che ti sforna il pain au chocolat per le tue colazioni. E, quando stai per tornartene a casa e ti scivolano un paio di gocce salate sul viso, capisci che non si tratta né di sudore né di residui marini. Sono due lacrime invisibili che ti fanno tornare ai tempi in cui lasciavi i posti speciali delle vacanze della tua infanzia. “Speciali” perché erano le persone ad aver disegnato i contorni del tuo soggiorno. Gli altri torneranno abbronzati ad immergersi nella loro routine perché hanno fatto vacanza; tu invece non sarai più lo stesso perché hai fatto un viaggio. Un’isola come la Corsica può cambiarti, può fare da ponte nel sinuoso passaggio da vita ad esistenza. Ed io sono tornato ad esistere.

 

Il diario del blogger e giornalista Rosario Pipolo sul quotidiano francese Le Corse-Matin

Dopo 16 anni di attività giornalistica, condivido questo traguardo con tutti i miei lettori. Il quotidiano francese Le Corse-Matin pubblica il mio diario di viaggio in Corsica, il mio primo articolo scritto in francese. E il mio pensiero va ad un pezzo della mia famiglia che vive a Tolone nel Sud della Francia e alla memoria delle mie zie Santina e Lilina. Spero che anche gli angeli possano leggere il giornale…

L’ultima estate di Leopold, nona puntata

La fine di settembre si portò via l’estate, ma restituì tranquillità all’isola di Fehmarn. La casetta della famiglia di Beatrice era in centro, con vista mare, a pochi passi dall’hotel Ulysse. Beatrice non fece in tempo a mettere le chiavi nella porta quando sentì una mano appoggiarsi sulla spalla. “Mamma, cosa ci fai qui?”, sussultò voltandosi di scatto. “Sono venuta a portarti questa lettera. Te l’ha spedita Leopold Muller. Perchè non me ne hai parlato?”, rispose l’anziana signora.
“Mi avresti giudicata una sgualdrina – continuò Beatrice – perchè agli occhi nostri sei sempre stata la madre che si è sacrificata per la famiglia. E pensi che io non ti abbia vista piangere quando papà rincasava tardi e tu mandavi giù brutti rospi per amor nostro?”.
La signora von Bernstein abbassò la testa e si voltò verso la finestra. “Mi sono sempre chiesta perchè papà non abbia mai acquistato questa casa – aggiunse Beatrice – In trent’anni d’affitto c’è costata un occhio della testa. Forse perchè voleva sentirsi inquilino a vita e non avere vincoli”.
“E questo cosa c’entra con il tuo amore per Leopold?”,
replicò la madre. “C’entra, mamma. Tu e qualcun’altro mi avete sempre fatta sentire affittuaria della mia vita. Ho 34 anni e non sono più una bambina. Voglio essere padrona delle mie scelte. Mamma, non voglio più vivere, adesso voglio volere, voglio esistere”, concluse Beatrice.
Uscì fuori sul terrazzino e, mentre Klaudia giocava, aprì la lettera di Leopold. Ogni parola galleggiò sulle sue lacrime perchè mai nessun’altro le aveva scritto parole così dense. Leopold le confessò della sua malattia rara che lo portò a dimenticare tutto in brevissimo tempo, ma anche della sua permanenza all’hotel Ulysse a Fehmarn . Era lì che aveva vissuto l’ultimo mese e mezzo di vita, osservando i quadri di Beatrice e il terrazzino della sua casa. La brezza marina le accarezzò i capelli e Beatrice lasciò che gli occhi inzuppati di lacrime si alzassero verso il mare. All’orizzonte trovò depositata la quiete. Questa volta niente sarebbe stato più come prima. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, ottava puntata

Al centro del palcoscenico c’erano uno a fianco all’altro i dieci quadri che Beatrice aveva dipinto per lui. Le luci colorate si incrociavano e li illuminavano come se fossero gli attori protagonisti della scena. Una voce dalle quinte lesse queste parole: “Non volevo dimenticare le cose belle della mia vita. E una sola donna lo è stata. Desideravo invecchiare con lei. Questi acquerelli mi hanno aiutato anche quando si spenta la luce e c’è stato il buio. E spero che da quel buio, in cui adesso galleggio, esca ancora il suo sorriso”.
Fu in quel momento che Beatrice si ricordò delle parole inquietanti farfugliate da Leopold al parco alla fine di luglio. Scoppiò in lacrime tra le braccia del signor Muller. Il trucco si sciolse e le colò sul viso, facendo scivolare via quella maschera che la rendeva donna e moglie felice agli occhi di tutti.
Andò via di scatto e nel foyer si imbattè nel marito, che aveva in braccio la piccola Klaudia. Federick le gridò contro: “Dove vai adesso?”. Beatrice gli rispose: “Federick, faccio quello che avrei dovuto fare tempo fa. Me ne vado. Non mi fai più paura. Non ti amo più”. E lui afferrandola per un braccio urlò: “Cosa farai? Vivrai con il ricordo di un fantasma? Beatrice, lui è morto”. “No, ti sbagli – replicò Beatrice –  Il morto vivente se tu, Federick. Il mio amore per Leopold vivrà per sempre in quei quadri”. E poi decisa come non lo era mai stata aggiunse: “Ti dirò di più. La notte di San Lorenzo, in cui mi obbligasti a fare l’amore con te, pur di restare fedele a lui, ho prelevato dalla tua carta di credito. Ho distribuito duemila euro tra le prostitute di Schöneberg e Tiergarten. Ho preferito sentirmi una di loro, piuttosto che donarti me stessa. Federick, quella notte hai comperato il mio corpo, ma non la mia anima”.
Beatrice gli strappò di mano Klaudia e corse via. Il marito rimase imbambolato. Per la prima volta vedeva quella donna, da sempre sottomessa e impaurita, così decisa e ribelle. Beatrice si precipitò in un taxi e si fece portare alla stazione. Prese il primo treno per raggiungere in fretta il litorale orientale di Schleswig-Holstein e rifugiarsi nella casa di vacanza di famiglia sull’isola di Fehmarn. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, settima puntata

A casa non la riconosceva più nessuno, persino il marito che era sempre distratto. Beatrice era diventata irascibile, irrequieta, non faceva altro che andare su e giù. Anche sua madre notò che la figlia fosse turbata e mandava la nipotina Klaudia a sorprenderla mentre singhiozzava in ogni angolo della casa. Erano più di due settimane che Leopold non si faceva più vivo.
Sì è vero, Beatrice si sentiva di averlo ferito con il rifiuto di intraprendere una vita assieme alla luce del sole, ma questo non era un buon motivo per scomparire così. Alla fine di agosto iniziò a cercarlo, ma nessuno sapeva dirle niente. I vicini di casa di Leopold le dissero che l’appartamento era disabitato da un pezzo, ma avevano intravisto qualche settimana prima un furgoncino che caricava alcuni quadri. Erano quelli che Beatrice aveva dipinto per lui. Una sera si prese la briga di assistere ad uno spettacolo al Volksbühne con la speranza di trovarlo all’uscita. Sul manifesto c’era scritto che il tecnico delle luci fosse Leopold, ma a teatro le assicurarono che era stato sostituito all’ultimo momento. Fu in quel periodo che Beatrice capì quanto Leopold fosse importante per lei e visse uno stato di depressione emotiva che le rallentò la vita.
Nella seconda metà di settembre era al parco con la piccola Klaudia, sulla stessa panchina e fu avvicinata da un signore di mezza età che le chiese “E’ lei la signora von Bernstein? Io sono Marc Müller, il papà di Leopold”. Beatrice si alzò di scatto e chiese con impazienza: “Cosa gli è successo? E’ più di un mese che non ho più sue notizie”. “Venga con me”, le chiese il signor Müller. La portò al Volksbühne. Lì, nella sala del teatro, c’erano solo pochi addetti ai lavori e il papà di Leopold disse a Beatrice: “Mio figlio ha voluto che gli ultimi fasci di luce fossero per lei”. Si alzò il sipario, mentre si sentiva in sottofondo un’armonica che suonava il motivetto che Leopold le aveva dedicato all’inizio della loro storia. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, sesta puntata

Beatrice era al settimo cielo perché quei biglietti erano il regalo più bello che avesse mai ricevuto: non aveva visto mai un concerto di Eros Ramazzotti. Le venne in mente di quando ancora studentessa, prima del crollo della cortina di ferro, ricevette in dono da un’amica il primo disco del cantante italiano. Leopold la convinse ad arrivare all’arena O2 World con largo anticipo perché voleva farle respirare l’atmosfera. Lì a Mildred-Harnack-Straße, nell’area del nuovo palazzetto dello sport, mangiarono un invitante panino al wustel bianco, prima che le canzoni diventassero il miglior pretesto per coccolarsi con le tipiche tenerezze da innamorati.
“Leopold, mi hai regalato la serata più bella della mia vita. Non la dimenticherò mai!”, esclamò Beatrice, guardandolo diritto negli occhi e sforzandosi di superare la sua incalzante timidezza. Poi Leopold la portò a Friedrichshain, a passeggiare lungo gli ultimi chilometri di Muro che sopravvivevano in città. Era la notte di San Lorenzo. Mano nella mano trovarono la loro stella cadente ed espressero un desiderio. Poco dopo la mezzanotte, Leopold guardò Beatrice e un fitta di rabbia attraversò il suo sguardo. Le sussurrò con determinazione: “Tesoro, non ne posso più di questa sopensione. Fuggiamo, andiamo via. Portami a vedere il mare dal terrazzino della casa delle tue vacanze. Vivremo felici lì e poi il resto verrà da sé”. E Beatrice rispose con un tono velato di rassegnazione: “Leopold, una fuga così precoce porterebbe alla distruzione di tutto ciò che c’è intorno a me. Ah, se ci fossimo conosciuti prima del mio matrimonio o magari ai tempi del liceo…”. E lui replicò adirato: “Saremmo nella stessa condizione perchè questo maledetto muro su cui sei appoggiata ci avrebbe separati comunque, tu da una parte ed io dall’altra”.
Beatrice singhiozzò e lui la strinse forte a sè. Si sentirono avvolti da un silenzio profondo attraverso cui Leopold le disse tutta la verità, quello che sarebbe successo. Quel silenzio parlò più di quanto non avrebbero mai fatto le parole. Beatrice prese un taxi e corse a casa. Si voltò indietro e Leopold era diventato già un minuscolo puntino nero, risucchiato dal buio luminoso della notte del 10 agosto . (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, quinta puntata

Quando si chiuse quella porta Leopold sentì come se qualcuno gli avesse dato un ceffone che lascia un livido. Lui che era un catalogatore di ricordi, lui che trasformava ogni briciola del suo presente in un granello di sabbia della memoria, doveva rinunciarvi. E tutto questo perché? Per un gioco beffardo del destino a cui ogni uomo tenta invano di ribellarsi.
Beatrice capì che c’era qualcosa che non andava, ma lui fu bravo a sdrammatizzare. “Non voglio dimenticarti. Facciamo un gioco. Immagina che il mio cervello si svuoti ed io diventi muto e sordo. Cosa potrebbe aiutarmi a ricordarmi di te?”, chiese improvvisamente Leopold. Lei stette al gioco e replicò: “Vediamo un po’, fammi pensare… Che ipotesi bizzarra, amore mio! Potrei dipingere una serie di acquerelli per te che riscrivono a colori il diario di noi due”.
Leopold fu entusiasta e non se lo fece ripetere, mentre lei sbigottita pensava che fosse uno scherzo. Il giorno dopo fu lui a presentarsi al Volkspark Friedrichshain con tutto l’occorrente, dai colori al cavalletto. Era da prima del suo matrimonio che Beatrice non prendeva in mano un pennello. Dopo tutto questa richiesta insolita non era forse il miglior modo per riportare in vita una delle sue passioni? Lui raccontava, ricordava ogni particolare, dal loro primo incontro su quella panchina, e lei traeva ispirazioni per le composizioni.
Giorno dopo giorno, fino alla fine di luglio, Beatrice realizzò una mini galleria e il risultato fu così sorprendente che qualche passante osò chiedere: “Sono in vendita?”. Dopo tutte quelle pennellate Beatrice era tornata ad essere raggiante più che mai. E lui per ringraziarla di quell’opera d’arte a puntate, una mattina si presentò con due biglietti. (CONTINUA)