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Battiato, canzoni

I miei viaggi in Europa tra le canzoni di Franco Battiato

Nei 32 anni di viaggi che mi hanno fatto toccare 60 Paesi e 5 continenti le canzoni di Franco Battiato hanno ispirato la scelta di alcune destinazioni o ne sono state colonna sonora. In entrambi i casi i versi e la musica del genio siciliano mi hanno accompagnato nelle esplorazioni da vagabondo, contribuendo a lasciarmi addosso le atmosfere e l’identità di ciascun posto. Cominciamo dall’Europa.

BERLINO

A Berlino ci sono arrivato a quasi vent’anni dalla caduta del Muro, ma per fortuna ai tempi Alexander Platz custodiva ancora il fascino di crocevia tra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Alloggiavo a Berlino Est in uno stabile che, fino alla caduta della cortina di ferro, era stato ex prigione. Credo di aver consumato Giubbe Rosse, primo album dal vivo di Battiato del 1989 contenente l’omonima canzone. In realtà Alexander Platz era stata regalata alla grande Milva per l’album prodotto dallo stesso Battiato “Milva e dintorni”.

La bidella ritornava dalla scuola un po’ più presto per aiutarmi
“Ti vedo stanca
Hai le borse sotto gli occhi
Come ti trovi
A Berlino Est?”Alexander Platz
Auf Wiedersehen
C’era la neve
Faccio quattro passi a piedi
Fino alla frontiera
“Vengo con te”

VARSAVIA

In Polonia in realtà c’ero andato per un reportage e avevo chiesto di intervistare quella generazione di anziani che avevano visto la loro Varsavia rasa al suolo dalle bombe. Mi portarono nel quartiere Praga, l’unica zona della capitale polacca che era stata risparmiata. Durante la chiacchierata mi balenavano in mente i versi di Radio Varsavia, celebre brano antimilitarista di Battiato del 1982.
Appartiene ad uno dei vinili che ho consumato di più, L’Arca di Noé. Lo guardavo nelle vetrine dei negozi tra gli addobbi natalizi. Il disco, infatti, era uscito a ridosso del Natale del 1982 e io non arrivavo in altezza alla gonnella di mia madre.

E i cittadini attoniti
Fingevano di non capire niente
Per aiutare i disertori
E chi scappava in occidente
Radio Varsavia
L’ultimo appello è da dimenticare
Radio Varsavia
L’ultimo appello è da dimenticare.

BELFAST

L’Irlanda del Nord è stata per me una destinazione della memoria alla ricerca di testimonianze e luoghi della guerra sanguinaria tra cattolici e protestanti. L’arrivo a Belfast e la lunga camminata tra i murales di Falls Road mi aveva riportato ai rumori delle bombe sentiti in tv, agli anni sanguinari della repressione thatcheriana, alle battaglie dell’attivista e rivoluzionario Bob Sands. Ecco che ad accompagnarmi c’è stata un’immagine dal brano di Battiato Voglio vederti danzare, sempre estratta dal vinile di L’Arca di Noé del 1982.

Nell’Irlanda del nord
Nelle balere estive
Coppie di anziani che ballano
Al ritmo di sette ottavi…

TIRANA E SOFIA

La stessa canzone l’ho ritrovata in Albania, una delle tappe del mio on the road mozzafiato del 2009 dei Balcani. Un’alba a Durazzo segnò l’arrivo in questa zolla di terra dell’ex Jugoslavia, ma fu passeggiando nella vecchia Tirana che sbucò di nuovo Franco Battiato.

E Radio Tirana trasmette
Musiche balcaniche mentre
Danzatori bulgari
A piedi nudi sui bracieri ardenti.

La seconda parte della strofa si conficcò in testa a Sofia, che mi regalò un momento emozionante: il silenzio dei bulgari per commemorare i loro caduti in guerra e questo falò di preghiere che si elevavano verso il cielo della Bulgaria.

ALBANIA

Mentre ero su un autobus sgangherato che mi portava dall’Albania verso il Montenegro, stralunato tra i paesaggi dell’entroterra albanese, ecco che spuntò Strade dell’Est, una gemma del disco del 1979 L’era del cinghiale bianco. Ricordo quando Battiato venne a presentarlo in una puntata del programma di Boncompagni Discoring.

Carichi i treni che dall’Albania
Portano tanti stranieri in Siberia
Tappeti antichi, mercanti indiani
Mettono su case tra Russia e Cina
Strade dell’Est

LISBONA

Prima della della traversata in Sudamerica, il mio vagabondaggio in Portogallo vi ha spianato la strada. Lisbona mi è rimasta nel cuore, vi ho ritrovato molto della Napoli dell’infanzia. La colonna sonora dei giorni trascorsi nella capitale portoghese è stata sicuramente il suono del fado di Amália Rodrigues e Mariza, passato e futuro della tradizione musicale locale.
Tuttavia, proprio mentre sgranocchiavo un dolcetto nel quartiere di Belem, spuntò la canzone di Battiato Segunda-Feira, tratta dal disco L’imboscata del 1996 e scritta a quattro mani con il filosofo Manlio Sgalambro.

Ti porto con me
Segunda-feira de Lisboa
Nel mio antico mare
Nell’Acqua Occidentale
Nel Mediterraneo
Affollato di navi
E corpi d’ignudi nuotatori.

Io sono quello che odia il lunedì così come Mafalda di Quino detesta la minestra, con la stessa intensità se vogliamo dircela tutto. La coppia Battiato-Sgalambro con il suo tocco filosofico ha captato questo stato d’animo che appartiene a ciascuno di noi. La lingua portoghese lo denuncia bene con il termine “lunedì” che letteralmente si traduce come “secondo giorno”, ovvero secondo dopo la domenica, “segunda-feira” appunto.

Segunda-feira de Lisboa
Che nome d’incanto
Qui da noi è lunedì
Soltanto.

Franco Battiato e il passaggio in Medio Oriente della mia generazione

La mia generazione, nata al’alba degli anni ’70, deve alla musica di Franco Battiato (1945-2021) gli occhi per guardare con privilegio il Medio Oriente. La colonna sonora del mio primo giorno delle elementari fu L’era del cinghiale bianco, che impazzava da una radio libera all’altra. Il maestro siciliano, per quella bizzarra capigliatura, mi faceva sorridere quando la domenica pomeriggio sbucava sul palco di Discoring, la trasmissione musicale di Gianni Boncompagni.

SGUARDI PRIVILEGIATI SUL MEDIO ORIENTE

La mia infanzia, a livello mediatico, è stata segnata dalle bombe che cadevano su Beirut e gli schizzi di sangue della faida tra israeliani e palestinesi. Con il tempo il canzoniere di Franco Battiato ha accorciato le distanze tra me e i miei coetanei di allora, finiti in disgrazia nel Medio Oriente turbolento: bambini, orfani di guerra, cresciuti sotto i lampi dei bombardamenti, a cui era stato sottratto il diritto allo studio per essere allevati con elmetti e fucili, come se non ci fosse via d’uscita dall’odio.

La musica di Battiato si è rivelata un varco provilegiato per quelli come me, i cui studi linguistici di impronta europeista non agevolavano il contatto con l’emisfero arabo. Brani come Da Oriente ad Occidente, Pasqua Etiopie, L’Egitto prima delle sabbie, Arabian Song, E ti vengo a cercare, sono state pure illuminazioni.
Meditazioni musicali che mi hanno fatto volare, prima di inserirle nella lista del mio giro del mondo, nella Teheran delle contraddizioni della rivoluzione di Khomeini, nella Gerusalemme crocevia di religioni e culture milleniare, nel Cairo del passaggio controverso del potere da Sadat a Mubarak.

BATTIATO, COLONNA SONORA TRA VIAGGIO E IMMAGINAZIONE

Le canzoni più filo-orientali di Battiato sono state la colonna sonora della mia lettura di Persepolis, graphic novel della fumettista iraniana Marjane Satrapi, o del mio viaggio verso Istanbul, su un autobus che dai Balcani mi catapultò sotto una delle porte che si aprivano sul Medio Oriente.
In quel ferragosto del 2009 in Turchia c’erano 1.400 chilometri che mi separavano dall’Iraq. Eppure la cover di Battiato di Fogh in Nakhal, canzone tradizione irachena udita nei pressi del Gran Bazar di Istanbul, cancellò improvvisamente le distanze e profetizzò ciò che avrei vissuto pochi anni dopo a Ground Zero: io e una studentessa irachena in una preghiera laica per le vittime dell’11 settembre.
L’opera di Battiato, complessa e multiforme tra filosofia, meditazione, religione, spiritualità e musica, ha il merito di aver abbattuto tanti muri, inclusi quelli dei malefici pregiudizi, senza cui la mia generazione non avrebbe fatto il suo passaggio in Medio Oriente: oggi la sua scomparsa, sotto le bombe del nuovo millennio tra Israele e Palestina, sembra chiudere il cerchio di una pace che tarda ad arrivare, anzi che forse mai arriverà.

NON C’E’ ADDIO PER UN UN ESSERE DEL COSMO

Agli altri l’affanno di etichettare Franco Battiato e la sua opera. Il ricordo della mia intervista a Milano una quindicina d’anni fa mi costringono a fare altro: lasciare galleggiare le sensazioni di quei momenti, come se davanti a me nel camerino ci fosse stato un essere del cosmo passato sulla terra, la cui generosità e spiritualità hanno reso la sua opera uno dei più grandi lasciti artistici in Italia.

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

Immigrato di Checco Zalone affossa il pop di Laura Pausini

Non è una beffa. Immigrato di Checco Zalone ha vinto il David di Donatello come miglior canzone originale, destando scalpore tra tutti i fricchettoni del pop che davano per scontato la vittoria di Laura Pausini. Cosa c’è di scandaloso? E’ la volta buona in cui ironia e riflessione cantate nel film Tolo Tolo soppiantano il solito canzoniere, con tutto il rispetto per una grande artista come la Pausini.

LA TRAVOLGENTE “FIGHT FOR YOU” E LA PAUSINI SENZA OSCAR

L’Oscar mancato della Pausini il 25 aprile scorso mi ha ricordato quello del film Pinocchio di Benigni nel 2002, scartato alla candidatura come miglior film straniero. Non tutte le strade del marketing cine-musicale spianano la strada all’ambita statuetta: Io sì (Seen) era accoppiata al film di Ponti junior con donna Sophia.
Niente Oscar per il pop anti-razzista della Pausini, sconfitta a Hollywood dalla rivoluzionaria H.E.R. che aveva mitragliato in puro stile R&B i colpi mortali della travolgente Fight For You.


IL DAVID DI DONATELLO A ZALONE

Il David di Donatello a Immigrato resta una bella sorpresa da parte dell’Accademia del Cinema Italiano presediuta da Piera Detassis. “La solita cricca di sinistra che premia i soliti, no questo era il foglietto se perdevo – ha commentato a caldo il vincitore – Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico.”
Il polverone che si è alzato sui social per la seconda sconfitta della nostra regina del pop lascia il tempo che trova. Il podio a Zalone ha portato una ventata di freschezza su uno dei palchi più prestigiosi in Italia. Inoltre, una vetrina ambita come il David di Donatello, attraverso lo sguardo su cinema e dintorni, ha il compito di essere anche lo specchio sociale del Belpaese e dei suoi umori.
Seen, scritta in inglese da Diane Warren e poi tradotta in italiano dalla Pausini, è troppo d’oltreoceano e manca di quella “profonda italianità” che invece Immigrato di Zalone sprigiona.

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

NELL’ITALIA MULTIETNICA DI ZALONE

Non sono forse i primi versi della canzone di Zalone già una polaroid autentica dell’Italia dei nostri tempi? L’umorismo tagliente sega i luoghi comuni, limando gli spigoli surreali di “Poi la sera la sorpresa a casa Al mio ritorno Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno Ma mia moglie non è spaventata” in amarezza, dolore, riflessione:

Immigrato

quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

mi prosciughi tutto il fatturato

Checco Zalone ha fatto centro con un testo dissacrante che viene messo in bocca al razzista di media levatura. Tra versi e ritornello “apparentemente” scanzonati emerge invece un’arguta meditazione sull’Italia multietnica del nuovo millennio.
Tra le righe si legge la noiosa assuefazione dell’instinto di sopravvivenza del Belpaese tra pregiudizi e polemiche per niente costruttive.
Alla fine del gioco resta sempre la scorciatoia del fare a scaricabarili con il rischio e un prezzo alto da pagare: finire in un vicolo cieco.

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Lettera a una mamma operaia di Pistoia, che amava la vita e sognava il futuro

Cara Mamma, la nonna mi sta aiutando a cucire una stella di stoffa perché domenica è la festa della mamma. Te l’ho mai detto di quanto sono fiero mentre mi aspetti all’asilo perché non sei di turno in fabbrica? Ieri mi dicevano che avevo una mamma giovane e bella, oggi mi ripetono che sei diventata un angelo e non ti vedrò più, perché sei volata in cielo.

In televisione tutti parlano di una giovane operaia morta sul lavoro perché mangiata da una macchina. Nella foto al telegiornale sembri tu e continuano a ripetere che sei un’altra vittima delle morti bianche. Non comprendo le parole scritte dalla signora Natalia su un famoso giornale:

Una ragazza che come tante di voi si fotografava per TikTok, aveva i capelli lisci e lunghi e sorrideva al mondo; che era bella e non aveva foruncoli di cui vantarsi per lamentarsene coi follower, che non si offendeva se qualcuno le fischiava in strada, che quasi bambina, a 17 anni, aveva accettato chissà con quanto…


Mamma, lo dici tu alla signora Natalia che devo ancora crescere per capire che il mondo è fatto anche da (ex) femministe da salotto? Grazie per avermi accolto nella tua vita senza seguire il suo arrendevole “destino delle donne non è fare figli, ma vivere”.

Mamma, la settimana scorsa abbiamo visto insieme il concertone del Primo Maggio e tu mi hai spiegato che si dicono tante parole e si fa poco per proteggere le persone sul posto di lavoro.
Perché Fedez, il rapper che ascoltavamo insieme in macchina, prima di cantare non ha dedicato il tempo a disposizione ai tanti figli senza mamma e papà in Italia per questo motivo? Per fortuna ci ha pensato tutta la gente in piazza a Prato dedicandoti tanti striscioni e gridando forte basta, basta, basta!

Sì, basta, perché noi figli abbiamo il diritto di crescere con una madre al nostro fianco. Mamma, ora chi mi farà tornare tra le tue braccia? No, mamma, no. Non voglio perderti, ti voglio qui con me. Sono convinto che ritornerai a prendere la stella di stoffa che ti ho preparato per la festa della mamma.
Nel frattempo voglio crescere e studiare. Da grande voglio difendere tutti gli uomini e le donne come te e Sabri, troppo presto destinati ad essere angeli bianchi.

Mamma, che silenzio stasera a Pistoia. Sono sul davanzale della finestra e non mi bastano le dita per contare la distanza tra me e quella stella luminosa in cielo, bella come te.

Felice Festa della Mamma, il tuo ometto.

L’altra Festa del Lavoro: il 1 maggio di Rosario Livatino, il giudice ragazzino

Nella folla degli slogan del Primo Maggio un amico avvocato mi ha ricordato il giudice Rosario Livatino, lavoratore instancabile ucciso dalla Mafia nel settembre 1990. Il prossimo 9 maggio “il giudice ragazzino” sarà proclamato Beato dalla Chiesa Cattolica. C’è l’altra Festa del Lavoro in questa affermazione di Livatino che dopo trent’anni dalla sua prematura scomparsa è ancora così attuale:

Riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica.

Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza.

IL GIUDICE RAGAZZINO

Ai tempi i miei professori al liceo erano affannati a rincorrere i programmi ministeriali e raramente si affrontava con arguzia e intelligenza l’attualità. L’esemplarità di Livatino mi arrivò diritta al cuore al cinema, nel 1994, durante la proiezione del bel film di Alessandro Di Robilant Il giudice ragazzino.
Anni dopo raccolsi in un camerino di teatro la testimonianza di Regina Bianchi, l’attrice eduardiana che nella pellicola interpretò la mamma del Sostituto Procuratore di Agrigento ammazzato da Cosa Nostra: “Un grande esempio per tutti del quale comprenderemo il sacrificio negli anni avvenire”.

L’ALTRA FESTA DEI LAVORATORI

Nella parole della Bianchi si nascondeva una latente profezia. Ci sono voluti trent’anni di storia del nostro Paese, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, tra contraddizioni e ferite mai rimarginate, compreso il sacrificio di martiri come Falcone, Borsellino, Piersanti Mattarella, per riportare alla luce lo spessore di questo instancabile lavoratore: sia faro in questo Primo Maggio di pandemia non solo per chi opera nella giustizia:

Il Giudice deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società: questo e solo questo è il Giudice di ogni tempo.

Rosario Livatino, lontano dai cliché dei giudici che abbondano nelle fiction televisive, ha costruito il suo lavoro di missionario nella giustizia sulle fondamenta di responsabilità, equilibrio, indipendenza.
La sua beatificazione – è il primo giudice beato della Chiesa Cattolica – arriva in un momento storico particolare e rimane un segnale di riflessione anche per chi riduce la santità ad operazione folcloristica:

Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili.

IL PRIMO MAGGIO DEL GIUDICE BEATO

I suoi compaesani hanno fatto la voce grossa per evitare che le spoglie del magistrato ammazzato sulla statale 640 siano spostate dal cimitero di Canicattì nella cattedrale di Agrigento.
Ritengo che la sua città e la sua regione debbano prima di tutto difendere la sobrietà di Livatino, tenendo il suo corpo mortale alla larga da chiunque tenterà di trasformare questa beatificazione in una squallida operazione commerciale e farci un ignobile giro d’affari. La santità di Rosario Livatino era scritta già in una profonda riflessione, che ciascuno di noi dovrebbe trascrivere, non solo chi opera nel campo del diritto:

Decidere è scegliere; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare.

Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio.

Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio.

Quanti se ne erano accorti?

Milva mi appartiene: la prima intervista non si scorda mai

Ho un legame speciale con Milva, all’anagrafe Maria Ilva Biolcati, per chi l’ha amata semplicemente la Pantera di Goro. A febbraio del 1994, dopo un lungo colloquio al Quotidiano Il Golfo di Ischia, il compianto direttore Domenico Di Meglio mi disse: “Pipolo, mi piaci. Sei dei nostri. Riferiscono che le interviste sono il tuo forte. Chi vorresti incontrare per il primo articolo?”.

MILVA AL TEATRO DIANA DI NAPOLI

La mia scelta cadde sulla grande attrice e cantante, scomparsa oggi all’età di 81 anni. Mi fissarono l’intervista con Milva il 15 febbraio, prima dello spettacolo, ai tempi in cartellone al teatro Diana di Napoli. Arrivai al Vomero con largo anticipo con la 127 bianca di papà, ma in via Luca Giordano nel tardo pomeriggio era quasi un miraggio trovare un buco. La parcheggiai di sbieco e lasciai un postit specificando che ero in teatro per l’intervista, sperando nella clemenza dei vigili.
Mi tremavano le gambe, avevo taccuino e penna, il fidato registratore a cassette, regalo dei miei nonni a battesimo della nuova avventura lavorativa. Entrai nel camerino, Milva si stava truccando, mi fece sedere accanto a lei ed escalmò: “Un giovane giornalista! Sono felice di essere tornata a Napoli, una città che sa sempre stupirti. Voi napoletani siete delle persone speciali“.

La dedica di Milva dopo l’intervista nel febbraio del 1994

LEZIONE TRA TEATRO E MUSICA

Milva mi mise subito ad agio e, a distanza di anni, devo dire che non fu frettolosa perché ero “un giornalista alle prime armi”. Si dilungò con piacere e la nostra conversazione fu per me una lezione tra teatro e musica: il rapporto speciale con il suo pigmalione Giorgio Strehler, il teatro di Brecht nelle sfaccettature di lente privilegiata dell’esistenza umana, la svolta musicale con il disco dedicatole da Ennio Morricone, il flirt cantautoriale e sperimentale con Franco Battiato, il successo all’estero in Francia e Germania, il desiderio musicale di un disco tutto dedicato a Napoli (nel 1997 avrebbe pubblicato Mia bella Napoli).
Mi innamorai di Milva durante quell’incontro e ancora oggi sono convinto che Maria Ilva sia la donna che ogni uomo desidererebbe al suo fianco: intelligente, elegante, guerriera, appassionata, rispettosa della memoria, emancipata lontana dai cliché, senza peli sulla lingua, in difesa dei diritti e concreta all’occorrenza nelle battaglie civili.
Quella notte sotto il ticchettio di una macchina da scrivere Lettera 35 buttai giù l’intervista, che fu pubblicata il 18 febbraio 1994. Ricordo l’emozione di leggerla nelle edicole campane, la prima copia la regalai a mio padre.

IL REGALO DI MILVA A MILANO: PRESENTARMI ALDA MERINI

Dieci anni dopo ho ritrovato Milva a Milano in occasione dello spettacolo emozionante Milva canta Merini. Nel 2004, dietro le quinte del Filodrammatici, Milva mi ha accompagnato in camerino da Alda Merini, presentandomi alla poetessa in questo modo: “Alda, ho conosciuto questo giovane giornalista a Napoli diversi anni fa. Si è trasferito a Milano. Lo sai che ho tenuto a battesimo i suoi esordi?”.
Ricorderò Milva, oltre che per il suo temperamento artistico, per l’essenza di donna speciale, che oggi mi fa ritrovare queste sue parole:

Ritengo che proprio questa speciale combinazione di capacità, versatilità e passione sia stato il mio dono più prezioso e memorabile al pubblico e alla musica che ho interpretato e per quello voglio essere ricordata.

Luis Sepúlveda: “Cerca a Santiago tutti i luoghi della memoria.”

Penso con rabbia al Covid che l’anno scorso non ha risparmiato neanche Luis Sepúlveda. Conservo con gelosia il ricordo dell’incontro con lo scrittore cileno alla fine degli anni ’90 al Lido di Venezia. Mi ero perso tra le pagine di Diario di un killer sentimentale, prima di finire diritto al cuore del suo mondo letterario.
Ricordo con profonda emozione, in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia, la prima della versione animata di Enzo Dalò della sua La gabbianella e il gatto.

ISPIRAZIONE DEL MIO VIAGGIO IN CILE

Alla fine della nostra chiacchierata gli confidai un progetto: mettere da parte i soldi necessari per andare nel suo Cile a rendere omaggio a tutte le vittime di Pinochet. Luis fu molto caro e, lasciandomi una dedica, mi disse: “Cerca a Santiago tutti i luoghi della memoria.”
Ho mantenuto la promessa. Cinque anni fa ho attraversato le Ande con un bus e ho vissuto due giorni intensi a Santiago del Cile in memoria dei Desaparecidos e dei prigionieri, proprio come Luis, che non avevano mai smesso di rinunciare al sogno di un Sudamerico libero dalla schiavitù, anche del mito occidentale della velocità.

LA MUSICA DEI LOS PRISIONEROS

Mi vengono da canticchiare brani di Los Prisioneros, musicisti compaesani che cantarono contro la dittura di Pinochet, scoperti proprio durante il mio viaggio a Santiago.
Alcuni album, provenienti da la Tienda Nacional al numero 369 di via Merced della capitale, profumano ancora di Cile proprio come la “Gabbianella” di Sepúlveda che fa della fantasia un aquilone per volare sopra le crudeltà della vita.

La Genova di De André nel silenzio della pandemia

Genova per noi nel silenzio della pandemia, come se questo viaggio di ritorno in una delle città che più mi appartiene fosse una soffusa liberazione dalle catene dei lockdown a colori. La mascherina agevola la mescolanza nel flusso di coscienza della comunità e, allo stesso tempo, impedisce alle mandibole e al respiro di muoversi liberamente. Il mondo di Fabrizio De André diventa la tua ombra, passo dopo passo.

DAL LETAME NASCONO I FIOR

In via del Campo – conosco a memoria ormai ogni angolo – di Bocca di Rosa neanche il fantasma e mi chiedo abbassando lo sguardo quanto tempo Faber abbia impiegato per scrivere quella strettoia poetica divenuta patrimonio dell’umanità: “Dai diamanti non nasce niente Dal letame nascono i fior“.
C’è sempre qualcosa che profuma di De André in questo silenzio pandemico e surreale, in questo vuoto dei crocieristi di un tempo sbarcati dalle navi con l’affanno di collezionare selfie: “Come è bello il mare, quanto dura una stanza. È troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male”.

IN UNA MULATTIERA DI MARE

Risponderebbe l’altra anima salva, Ivano Fossati, che “Chi guarda Genova sappia che Genova Si vede solo dal mare Quindi non stia lì ad aspettare Di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più”.
Sì, tutto viene fuori per ritornare nel mare, come quello del viaggio musicale di Faber e Mauro Pagani in Creuza de mä, uno degli album più pittorici della nostra discografia:

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.


STAGLIENO

Tradurre questo genovese è una bestiemma, sembra quasi di sbucciare la poesia: “E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli emigranti della risata con i chiodi negli occhi finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere fratello dei garofani e delle ragazze padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.
Sì, tutto ritorna nel mare, come le ceneri di Faber. E quando mi perdo nel cimitero monumentale di Staglieno, tra il ricordo risorgimentale di Mazzini e l’incontro indimenticabile con Nanda Pivano, mi rendo conto che è una lurida sciocchezza cercare De André oltre una lapide gelida, adesso che le sue ceneri appartengono al mare di Genova, che la difesa del suo patrimonio cantautoriale rimane un faro nella traversata del vuoto di oggi e delle sue strambe ovvietà.

NEL SILENZIO DELLA PANDEMIA

La Genova di De André nel silenzio della pandemia mi appartiene comunque e non occorre essere un genovese di razza per notare le ambulanze senza sosta, che in direzione del Pronto Soccorso del San Martino ci raccontano anche che la guerra contro il Covid è ancora in corso e non bisogna smettere mai di abbassare la guardia. Eppure in questo silenzio struggente, amalgamato al mondo poetico di Fabrizio De André, c’è un mucchio di luride parole che dissacra la memoria delle vittime del Ponte Morandi:

“Io non ci ero mai andato a Genova a vedere questo ponte mi han detto: ‘Fai l’analisi dei rischi catastrofali’. E io: ok”.

Questa intercettazione del 28 marzo 2019, che incastra l’incaricato di classificare il rischio del ponte crollato con 43 vittime, rimbomba nella Genova pandemica e batte l’ennessimo colpo d’ascia alle famiglie delle vittime e a tutti noi che aspettiamo giustizia.

Principe Filippo, un passo indietro please!

Ho messo piede la prima volta a Londra nel 1988, non avevo compiuto ancora 15 anni, per me era come essere arrivato sulla luna. Il Principe Filippo di Edimburgo era già coetaneo di mio nonno.

LE MUG SENZA IL PRINCIPE FILIPPO

Allora la popolarità dei Windsor si misurava con i souvenir in vendita su Oxford Street: le mug, i famosi tazzoni inglesi, erano le più gettonate e i volti più popolari erano la regina Elisabetta, la quasi novantenne Regina Madre e Lady Diana. Del Principe Filippo quasi niente e i turisti, sulla via del ritorno, si sarebbero giocati a sorte una delle “tre mug tutte al femminile.”
Io sono stato più diplomatico, ho dissipato le ultime sterline per regalare a mia madre una piatto da appendere alla parete che ritraeva Big Ben e Buckingham Palace, due icone londinesi, senza far torto a nessun reale.

IL CONSORTE DAL PASSO INDIETRO

Del Principe Filippo non se n’è parlato mai in questi ultimi 99 anni come in queste ore dopo il trapasso o nel ’47 quando il suo sangue greco si mescolò a quello di velluto di una delle dinastie reali più influenti d’Europa.
Non bisogna conoscere a memoria gli ultimi settant’anni di monarchia inglese per sapere che il Principe di Edimburgo sia “il consorte dal passo indietro”. Tuttavia, resta davvero infelice uno dei titoli dei nostri giornali: “Addio al Principe Filippo, ombra discreta della Regina Elisabetta per 70 anni”.

LE OMBRE NON SONO MENO IMPORTANTI DELLA LUCE

Ripeteva Charlotte Brontë, tra le mie scrittrici preferite dell’epoca vittoriana, che le ombre non sono meno importanti della luce”. Filippo sarà stato pure l’ombra di Lilibeth – questo era il soprannome di Sua Maestà appiccicatole dal principe consorte – ma ha saputo difendere fino alla fine il ruolo istituzionale nonostante il cinismo, le gaffe, l’aplomb a tratti altalenante, un lungo matrimonio reale fatto di rose e insidiose spine.
Appartiene a una razza in estinzione il Principe Filippo, che non uscì bene neanche dal pungente film The Queen dell’acuto Frears, interpretato dall’impeccabile James Cromwell. Lo ricorderemo nei libri di storia, lontano dai suoi nipoti e pronipoti schiavizzati da consorti volgari.
La Regina di Elisabetta ha perso “la sua fedele ombra” e il cammino in solitaria sarà faticoso.

Asterix e Obelix e la Francia allo specchio

Asterix e Obelix mi riportano alle estati nel Sud della Francia dalla mia famiglia, al mio studio matto e disperatissimo all’università della lingua francese e di tutta la storia che vi gira intorno. Proveniente da Parigi, questo è il primo albo della premiata ditta Goscinny (1926-1977) e Uderzo (1927-2020).

Albert Uderzo, uscito di scena il 25 marzo 2020 in piena emergenza Covid-19, aveva disegnato con la scrittura del compianto Goscinny pagine e pagine della storia a fumetti d’oltralpe. La Fille de Vercingétorix, disegnato da Conrad e pubblicato nel 2019, è l’ultimo album supervisionato dallo stesso Uderzo.

Quando ho incontrato Gérard Depardieu qualche anno fa ad un festival di cinema a Firenze, mi ha detto a proposito della versione cinematografica che ogni francese, attore o non, se si guarda allo specchio ritrova un po’ di Asterix o Obelix.
Nel 1997, all’ultimo esame di Francese all’università, portai tra i classici del ‘900 anche un albo del guerriero gallico e del suo fidato amico. Pensavo che avrei pagato caro il conto di questa “provocazione”, in realtà il gesto fu apprezzato. Dietro questa coppia a fumetti d’oltralpe, che in punta di piedi è entrata negli albi nel lontano 1959, si nascondono la Francia e le sue contraddizioni socio-politiche. Asterix e Obelix restano due maschere di personaggi riconoscibili oggi come allora.