Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Ciao Fraintesa, buon viaggio nell’eternità!

Per la Rete che l’amava e la seguiva era Fraintesa, per noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerla come persona ed averla come amica era semplicemente Francesca. Prima che la conoscessi professionalmente a Milano una decina d’anni fa, Francesca Barbieri era una ragazza modenese energica e appassionata della vita, della natura, dei viaggi. Amava ripetere:

Si dice “I sogni nel cassetto fanno la muffa.” Io non voglio neanche correre il rischio che prendano la polvere.

Quando in Italia c’è stato il boom del travel blogging, Francesca si è tenuta distante dalle tendenze, spesso evaporate nell’edonismo, e ne ha ha fatto una professione con costante studio, compostezza e sobrietà. L’ Australia era la sua “terra promessa”, ci è ritornata più volte, l’ha raccontata come facevano gli inviati di un tempo, sdoganandola dai luoghi comuni.
Fraintesa è stata una travel blogger impeccabile, Francesca Barbieri è stata l’antropologa del viaggio e, senza l’affannoso raggiungimento della meta a tutti i costi, ha fatto del racconto analitico del tragitto peculiarità e innovazione del suo storytelling.

Ma questo è il bello: basta crederci. E qui in Australia puoi effettivamente credere e dire quello che vuoi, troverai sempre qualcuno che con la cantilena altalenante ti risponderà: «okay, mate».

Attraverso progetti benefici come #GoFraintesa, di cui ho scritto anche su Affaritaliani.it, Francesca ha sostenuto la ricerca sul Cancro e si è fatta instancabile guerriera nella lotta contro il brutto male da cui non si è fatta scoraggiare mai.
Quando le raccontai della mia rocambalesca traversata in treno della Cina, sfidando le invisibili censure di Pechino per raggiungere il Tibet, mi confidò che uno dei sogni da viaggiatrice era trascorrere almeno sei mesi nei monasteri tibetani. Sono convinto che il treno su cui adesso è salita la nostra Fraintesa si fermerà a Lhasa prima di proseguire verso l’eternità. La colonna sonora di questo viaggio, come ci ha ricordato il suo grande amore Andrea, sarà Save Your Tears for Another Day.

Take me back ‘cause I wanna stay
Save your tears for another
Save your tears for another day…

Mi spiace Francesca, non riesco a mantenere la promessa: ho gli occhiali appannati, bagnati di pioggia salata come sanno fare le lacrime umane. “Se si contribuisce alla felicità di altre persone, si trova il vero senso della vita.”, scrisse il Dalai Lama sul tuo cuore. E tu ci sei riuscita, Francesca.

Buon viaggio, Fraintesa. Non ti dimenticheremo!


#GrazieFraintesa è la raccolta fondi a favore dell’AIRC in memoria di Francesca Barbieri. Clicca qui per saperne di più.

Colapesce e Dimartino “vincitori morali” del Festival di Sanremo ai tempi del Covid

Antonio (in arte Dimartino) è cresciuto a Palermo e chissà se l’ho incrociato una quindicina d’anni fa, durante la mia estate a Mondello, dalle vecchiette che friggevano panelle a poca distanza dalla celebre spiaggia custode dei segni delle riprese gattopardiane.

Antonio aveva acceso una fiaccola in memoria dei giudici Falcone e Borsellino cantando in giro per la sua Sicilia insieme ai Famelika, ex compagni di viaggio, un brano a me particolarmente caro, Giovà, scoperto proprio durante quell’estate palermitana.
La canzone, che vi consiglio di ascoltare, sventolava in sordina la bandiera di protesta contro Cosa Nostra, omaggiando il cantastorie siculo Giova ucciso dalla mafia nel 1962.

Lorenzo (in arte Colapesce) è cresciuto a Solarino, ad una ventina di chilometri da Siracusa e come nome d’arte ha scelto quello di un’antica leggenda siciliana e delle gesta del figlio di un pescatore rimasto sott’acqua per non far sprofondare l’isola.

Pochi giorni prima del Natale 2009 mi capitò per sbaglio tra le mani la mitica Merry Christmas Darling dei Carpenter nella cover trasfigurata da una band siracusana, gli Albanopower. Su questa giostra strampalata di indie, new wave e pop c’era salito anche Lorenzo, il futuro Colapesce nel progetto da solista.

Colapesce e Dimartino, proprio in questi giorni Disco di platino per la loro canzone sanremese Musica leggerissima, hanno unito storie personali e artistiche della loro magica isola Trinakria.

Lorenzo e Antonio sono vincitori morali del Festival di Sanremo ai tempi del Covid prima ancora che a decretarlo fosse il Premio Lucio Dalla o il termometro della febbre musicale. Lo sono fin dall’esibizione della prima sera, in cui i baffetti alla Alan Sorrenti di Lorenzo ci hanno catapultati nella freschezza sperimentale degli anni ’70 e tra le elaborazioni melodiche degli anni ’80 di cui è cosparsa Musica leggerissima.

Per non parlare del bellissimo video, un fiume in piena di citazioni cinematografiche tra la poesia visiva di Fellini, il surrealismo di Buñuel infarcito del film beatlesiano di Magical Mistery Tour e l’introspettività di Bergman. Eppure la canzone Musica leggerissima è solo in apparenza il tormentone che ha contagiato i social e farà da colonna sonora alla prossima estate, perché nasconde la drammaticità di questo tempo covizzato sotto le ascelle dello slogan “andrà tutto bene”.

Colapesce e Dimartino hanno vinto Sanremo 2021 perché ci hanno fatto saltellare e ballare con leggerezza sugli assilli amletici del tunnel della pandemia come l’antimilitarismo di “Se bastasse un concerto per far nascere un fiore Tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche”, il precipizio della morte “Per non cadere dentro al buco nero Che sta ad un passo da noi, da noi”, la fede che vacilla “I tamburi annunciano un temporale Il maestro è andato via” o sugli squilibri del tempo della vita che corre veloce “Diventare adulti sarebbe un crescendo Di violini e guai”. Come hanno ribadito Lorenzo e Antonio:

La mortalità è un concetto oggettivo. Tutti vediamo i nostri corpi sparire, disintegrarsi, diventare altro.

Colapesce e Di Martino sono i nuovi outsider della Sicilia, figli della dea Giuni Russo e benedetti dallo Zeus dell’isola di Trinakria Franco Battiato, del quale ci hanno regalato l’emozionante cover Povera patria, dito nella piaga dell’Italia ammalata ancora dei corsi e ricorsi storici e “schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore”.

Cara Procida, Capitale italiana della Cultura 2022

La bella notizia della nomina di Procida a Capitale italiana della Cultura 2022 mi aveva fatto balzare il cuore in gola. Sarà perché ho iniziato a scrivere sulle pagine di un quotidiano delle isole campane, sarà perché proprio a Procida ci sono ricordi lavorativi che si mescolano all’isola: insieme a Michele, procidano di nascita e di fatto, iniziai a muovere i primi passi nelle produzioni video e vissi i preparativi e le magiche serate del Festival del Mediterraneo.

Ricordo quelle mattine procidane soleggiate davanti al Mac, il panorama mozzafiato che bussava da una finestrella nel nostro ufficio, lo bisbiglio dei gabbiani, i miei arrivi periodici al porticciolo e Michele che veniva a prendermi con la motoretta. Puntualmente c’era un gruppo di pescatori a salutarci che gli ricordava “Miche’, quanto ci manca tuo padre.”

Michele mi nascondeva gli occhi lucidi e poi sgaiattolavamo su e giù per l’isola, con il vento tra i capelli. Mi sembrava di sentire la voce dell’amata Elsa Morante e svolazzare come il bucato appena steso le pagine di L’isola di Arturo, mandato giù durante la mia scapestrata adolescenza mentre marinavo le lezioni nozionistiche al ginnasio.

Da una finestra si affacciava un’anziana signora con i capelli innevati, era la mamma di Michele che ci salutava e tutte le volte che mi riconosceva, avendo dimenticato il mio nome, mi chiamava puntualmente uainé, che in dialetto procidano significa “ragazzo”.

Io conoscevo il corrispettivo napoletano, guaglio’, che mio padre mi aveva insegnato da bimbo stonando i versi di Carosone “Tu si’ guaglione, che t’hê miso ‘ncapa? Va’ a ghiucá ‘o pallone“.

Sì ero ancora guaglione e quando hai poco più di vent’anni fatichi a farti prendere sul serio. Procida mi guardò negli occhi e mi adottò in quelle giornate in cui ogni ora di lavoro al fianco di Michele era un’occasione per imparare, crescere, guardare al futuro con l’ottimismo come i palleggi spensierati tra me e un ragazzotto procidano: anni dopo ho scoperto che era diventato sindaco dell’isola.

La sorella di Michele uscì di corsa e mi offrì dei biscotti fatti in casa. Era di poche parole. Mi sorrise come fanno gli isolani, che all’inizio ti sembrano scorbutici e poi quando li conosci davvero ti danno il cuore.

Michele mi prestò il suo telefono cellulare – sembrava una radio trasmittente di 007 – e mi concessi una chiamata davanti al mare, un lusso ai tempi: “Mamma, sai cosa ti dico che resto qui per un po’, tornerò a Napoli per gli esami… stai tranquilla non la mollo l’università…certo che rientro stasera, è un progetto per il futuro…poi lo diciamo a papà… Sì, hai ragione chissà se si rassegnerà mai a vedermi sempre con la valigia in mano…”.

Quella sera rientrai, eravamo soddisfatti del lavoro di quei giorni, avevamo la lista di alcuni ospiti al Festival del Mediterraneo, tra cui la grande icona della musica folk Matteo Salvatore. Michele mi riaccompagnò al porto, mi mise dei soldi nel taschino della camicia: “Uainé, questo è un piccolo rimborso spese. Vedrai che i tuoi sacrifici saranno ricompensati, hai del talento”. Poi mi diede un biglietto dell’aliscafo, io di solito viaggiavo in traghetto per risparmiare.

Io e Michele appartenevamo a due generazioni diverse: allora io cavalcavo i vant’anni e lui, avendo abbondantemente superato la trentina, era quel fratello maggiore che non avevo mai avuto. Salito sull’aliscafo, mi voltai e balbettai qualcosa tipo “Ah, Michele, grazie… comunque ti voglio bene”.

Lui non mi sentì, era già andato via in motorino e in lontananza mi salutava con la mano sinistra come se sventolasse una bandiera.
Procida era alle mie spalle e, attraversando il golfo di Napoli, intravidi nel mio legame nascente con l’isola di Arturo quella prospettiva custodita nel fiore all’occhiello di Procida capitale italiana della cultura 2022: la cultura non isola, mai, oggi come ieri.

Sonia Battaglia, morire non è calcolare una percentuale

Cosa fai se leggi “Ma per ora niente rischi, su 17 milioni di vaccinati, 37 tra embolie e trombosi”? Cosa fai se in contemporanea tua moglie nell’altra stanza singhiozza perché una sua conoscente, Sonia Battaglia di San Sebastiano al Vesuvio, è in fin di vita dopo un vaccino?

AstraZeneca, 54enne napoletana in terapia intensiva dopo vaccino. I familiari: «Non aveva patologie pregresse»


Ti fermi un attimo, in silenzio, farfugliando con i tasti del PC: vaccino o non vaccino, ruolo istituzionale o non, chi può arrogarsi con nauseante prepotenza il diritto di sminuire un decesso, assecondando il valore numerico di una percentuale? Chi, me lo spiegate?
Neanche l’infermiera di turno della porta accanto che vorrebbe convincermi del contrario con la riflessione spicciola: ci sono più probabilità che all’uscita di casa sia investito da una moto che vada all’altro mondo a causa di una dose di vaccino.

Mia mamma, una donna di 54 anni finora sempre sana come un pesce una settimana fa si è sottoposta al vaccino AstraZeneca (LOTTO ABV5811) data scadenza 30.06.2021. Il giorno seguente al vaccino stava bene tanto che è andata a lavorare. Due giorni dopo ha avuto la febbre (nella norma, rassicurati dalla dottoressa). Il terzo giorno mia mamma ha iniziato a vomitare senza sosta, abbiamo chiamato l’ambulanza, le hanno messo la flebo per recuperare i liquidi che stava perdendo. Mia mamma dormiva in continuazione e non riusciva a parlare, si addormentava mentre parlava. Il giorno 12 sera abbiamo richiamato l’ambulanza la quale dopo aver controllato i parametri vitali si è rifiutata di portarla in ospedale e tenerla sotto controllo. La mattina seguente ovvero ieri 13 marzo ho chiesto a mia madre di muoversi e di alzare la gamba sinistra, lei era convinta di riuscire ad alzarla ma invece era totalmente immobile. L ho presa in braccio e portata in pronto soccorso (all’Ospedale del Mare di Napoli) dove è stata ricoverata d’urgenza per emorragia celebrale ed ha avuto anche un infarto… dopo essere riusciti a parlare con i dottori nel pomeriggio ci hanno informati che nel giro di due ore ha avuto una trombosi, una emorragia cerebrale e una occlusione dell’aorta.

(Mario, figlio di Sonia)

Andatelo a spiegare alla famiglia di Sonia che da un giorno all’altro ha visto morire sotto i suoi occhi la madre, la moglie, l’amica, la sorella. L’incubo è iniziato ai primi di marzo con la somministrazione della dose e i primi sintomi preoccupanti, il ricovero, il decesso e va avanti ancora mentre le indagini delle autorità giudiziarie faranno il loro corso dopo l’autopsia. Sonia non è l’unica in Italia a cui è toccata la stessa sorte.

E’ morta Sonia, i familiari denunciarono che stava male dopo il vaccino AstraZeneca


Siamo in guerra e il Covid è un nemico che abbiamo sottovalutato. In quante azioni militari hanno lasciato passare sotto i nostri occhi fiumi e fiumi di omertà, mandando a morire soldati di ogni parte del mondo, perché il XX secolo ha fatto della grandi e piccole guerre il motore economico di intere civiltà a discapito di altre.
La parola diritto alla salute passeggia in silenzio nella piccola bottega degli orrori: è bizzarro contrapporre il business delle multinazionali farmaceutiche a chissà quali azioni belliche di un tempo?


I parenti della donna, deceduta alcuni giorni dopo la somministrazione di una dose di Astra Zeneca, pronti allo scontro legale: “Non siamo no-vax, ma vogliamo che ammettano che quella fiala l’ha fatta ammalare.”

La partita è ancora tutta da giocare, ma chi come Sonia Battaglia potrebbe averci rimesso la pelle non può essere ricordata in un ritaglio di cronaca, al di là che ci sia un nesso tra il suo decesso, il vaccino o un lotto difettato. Tra l’altro lo scorso 22 marzo Aldo, un collega di Sonia a cui era stato somministrato lo stesso vaccino, è stato ricoverato per un’ischemia celebrale e qualche giorno dopo a Latina, una donna sulla trentina, è finita in ospedale per una trombosi. Effetti collaterali?

Le coincidenze si riducono a numeri, dalle nostre parti.

Il silenzio che fa rumore: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”

C’è un silenzio che fa rumore, questo del mio ultimo viaggio durato un anno e mezzo. In un tempo in cui straripa la bulimia di apparire sui social ad ogni costo e che spesso si riduce a goffaggine, svuotamento della sostanza, beffarda illusione di costruire un alter ego che non corrisponde alla realtà, c’è una strada maestra della vita che non dovremmo mai perdere di vista. Me l’aveva ricordata il vicino di posto nel lunghissimo viaggio in treno che mi portò dalla Cina in Tibet: Rumorosi sono i piccoli torrenti, il vasto oceano è silenzioso.

Ho navigato in questo oceano di silenzio senza barche a motore o lussuosi yacht. Se non avessi usato i remi sarei finito nella trappola della corsa sfrenata di abbattere il tempo, rinnegando il verbo del mio incontro fortunato con lo scrittore cileno Luis Sepúlveda al lido di Venezia: l’elogio della lentezza.
Dopo l’esame di terza media in una scuola alla periferia di Napoli, la cara professoressa Rosalba mi lasciò in eredità una riflessione che spianò la strada della mia crescita: “Tu non ami le mode perché il tuo animo è fuori moda. Cresci sempre anticipando i tempi e non avrai la smania di restare nel gregge”.

Ho anticipato i tempi con un lockdown interiore prima che arrivasse quello della pandemia, che ha messo in crisi tutti gli illusi mediocri in cima alla piramide di cartapesta di voler essere padroni del tempo.
C’è un silenzio che fa rumore e accade quando prende la piega inconsapevole di battaglia civile contro arroganze e soprusi, in difesa dei propri diritti, perché avere talento significa prima di tutto avere una personalità: “Ci sono solo due errori che si possono fare nel cammino verso il vero: non andare fino in fondo e non iniziare”.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato rispettando quest’oceano di silenzio, dimostrandomi vicinanza e solidarietà in punta di piedi, con un ricordo vissuto assieme, un messaggio letto in ritardo, una vecchia foto. Le amiche di gioventù come Mascia, Isabella, Concetta, Elisabetta sanno sempre come smuovere cuore e anima: “Non sempre è necessario incontrare e/o vedere una persona per volerle bene, e non leggerti più, non sapere come stai, non ricevere più in regalo foto dei tuoi viaggi e i tuoi racconti mi manca. Tvb”.
Un pensiero va anche a due persone importanti della mia vita, Massimo e zio Peppino, volate in cielo durante il lockdown ai quali non ho potuto dare l’ultimo saluto.

C’è un silenzio che fa rumore e mi torna in mente la parabola dello statista in esilio a cui fa visita un ex allievo. Quest’ultimo invece di trovarlo tra vecchie scartoffie alla scrivania, lo scova con le grambe incrociate davanti all’oceano: “Perché ti sei preso la briga di compiere questo lungo viaggio per venire a trovarmi?”, esordisce lo statista. “Perché dalle mie parti abbondano i pappagalli”, spiega l’allievo. “Torna indietro – conclude il vecchio in esilio – con la consapevolezza che prima o poi i pennuti ti accerchieranno per farti lo sgambetto. Tu fai finta di niente perché, quando meno te lo aspetti, arriverà il tempo della rivalsa”.

C’è stato un silenzio che ha fatto rumore, ma adesso è tempo della rivincita: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.” (Divina Commedia, Canto III, Inferno)

Diego Armando Maradona, tutto in un abbraccio

Dal mio archivio l’edizione speciale dell’Intrepido: maggio 1987, scudetto n.1 del Napoli. Il 31 maggio 2005 ero tra i giornalisti accreditati alla Partita del Cuore a San Siro di Milano. Tra gli ospiti Maradona e di noi della stampa non ne voleva sapere. Passò negli spogliatoi, lo chiamai, pronunciai qualche parola in napoletano: “Diego, a me non puoi dire di no, nel 1984 c’ero anche io tra i bambini fuori dallo stadio San Paolo di Napoli ad aspettarti.”

Diego mi venne incontro, si era commosso, mi abbracciò, gli strappai una dichiarazione per l’articolo, i colleghi di Mediaset ripresero tutta la scena e a mia insaputa ne fecero un servizio tv.
Il giorno dopo l’abbraccio tra me e Maradona finì su Studio Aperto e TG5. Non mi accorsi di niente, la sera in una pizzeria milanese passando da un tavolo all’altro mi ripetevano: “Tu sei amico di Maradona?”. A risolvere il mistero fu la telefonata di mio zio Massimo da Napoli.

Non sono stato mai un giornalista sportivo ma quell’incontro fulmineo mi riportò ad anni indimenticabili della mia vita a Napoli, dove i goal artistici e unici di Maradona insieme a scudetti e trofei per la squadra della mia città si rivelarono un grande riscatto sociale e morale all’ombra del Vesuvio.

Il 25 novembre 2016 ero appena sbarcato a Buenos Aires, anche per mettermi alla ricerca dei suoi luoghi. Mi arrivò la notizia della morte di Fidel Castro. I giochi della vita. Qualche giorno dopo cazzeggiavo nel quartiere La Boca, a pochi passi dal mitico stadio di La Bombonera, casa calcistica del Pibe de Or.
Incrociai un gruppo di piccoli scugnizzi che palleggiavano. Mi chiesero da quale parte d’Italia arrivassi.
Appena pronunciai “Napoli” mi chiesero di Maradona. Gli raccontai allora del mio incontro e di quell’intervista di fretta e furia. Per un attimo ci fu silenzio e poi uno di loro mi battezzò con questo saluto: “Hola, amigo de Diego Armando Maradona”.

Come in un fumetto nel giorno del nostro matrimonio

Il 17 luglio 1973 sbucai in questa vita dal pancione di mia madre.  Ho espresso un desiderio esplicito per il compleanno, essere trasformato in un fumetto e per questo ringrazio l’amico Luca Golinelli. Dal mio alter ego a fumetti, Corto Maltese di Hugo Pratt, presi in prestito una consapevolezza riadattata alla mia vita: “Quando ero bambino mi accorsi che non avevo la linea della fortuna sulla mano. Così presi il rasoio di mio padre e zac! Me ne feci una come volevo.”

Oggi, nel giorno del mio matrimonio con Luisa, mi rendo conto che questa perla di saggezza è vera fino solo in parte. C’è un Wedding Planner lassù che con gli impasti d’amore ci sa fare e agevola l’incontro degli innamorati destinati ad impararea guardare nella stessa direzione”. 
Ritrovando quella provvidenza, per errore allontanata dalla mia vita, ho avuto la conferma che su ciascuno di noi c’è un progetto d’amore che va al di là di tutte le preoccupazioni del quotidiano.

In questi anni Luisa mi ha insegnato che i pregiudizi sono il nemico numero uno di una storia d’amore autentica e che le distanze anagrafiche, sociali e quelle relative alla visione della vita si possono accorciare notevolmente senza soffocare l’individualismo che legittimamente appartiene a ciascuno di noi.

In questa versione a fumetti del giorno del matrimonio non indossiamo gli abiti da cerimonia, ma quelli che hanno fatto di noi le persone che siamo oggi e, dopo “il fatidico sì”, sono pronti ad intraprendere un percorso nuovo per la costruzione di un progetto d’amore.
La camicia apparteneva a mio padre, l’aveva indossata in tante occasioni importanti; la maglietta a cuoricini di Luisa è tra gli ultimi indumenti sistemati nel cassetto dalla mamma, segno che nessuno se ne va via per sempre, nonostante le separazioni producano un dolore stratosferico.

Accogliendo Luisa nella mia vita, mi sono accorto che questo ritorno a Napoli custodisce il significato di riprendersi le proprie radici e farle camminare in giro per il mondo con le scarpe dell’amore. Nonostante lacci di vita diverse, queste scarpe hanno voglia di camminare insieme. Questa storia ebbe inizio il 9 novembre, nel giorno del 25° compleanno di Luisa, ed è arrivata all’altare davanti agli occhi di Dio il 17 luglio, dì del mio 46° compleanno.

Stamattina, dopo lo scambio delle fedi nuziali,  mi è tornata in mente l’ultima strofa di una canzone di Lucio Dalla che sembra scritta apposta per noi:

“Anna avrebbe voluto morire
Marco voleva andarsene lontano.
Qualcuno li ha visti tornare
Tenendosi per mano.”
Original Artwork: Luca Golix Golinelli, Dillo con un Fumetto, (C) 2019 

Alaska on the road: Cartolina da Anchorage

Lorena arrivò in Alaska nel 1965 ancora in fasce.  Anchorage, l’ultima città del mio incredibile viaggio nell’ultima frontiera, ha fatto da ponte di collegamento con tutto il Centro e Sudamerica, accogliendo tante famiglie immigrate. Lorena è di origine messicana, è cresciuta qui e oggi fa l’artigiana: veste con pelliccia bambole eschimesi che sono per me un souvenir fatto a mano da portar via da un luogo sempre snobbato, perché considerato poco alaskino.

Io marcio controcorrente e nel piccolo Alaska Heritage Museum, a pochi chilometri fuori dal downtown, trovo tracce di storia locale con cui chiudo il cerchio di un viaggio circolare in cui ciascun luogo ne richiama altri.  Ringrazio Walter per avermi aiutato a raccogliere il meglio di un luogo di memoria non frequentato dai turisti, ma dai tanti studiosi che passano ad Anchorage sulle orme degli indigeni ed eschimesi che hanno dato vita a questa terra.

Anchorage è una città senza troppe pretese, perfetta per il cazzeggio tra gli sguardi dei binari della ferrovia sulla baia di Cook e gli inconciliabili tramonti che si posano sull’acqua oceanica del Pacifico senza troppi clamori.
Ti siedi su una panchina e fai nuove amicizie come è capitato a me. Kate e la sua famiglia sono originari del Sudafrica: tra una chiacchiera e l’altra solleticano la mia memoria con le sensazioni provate laggiù tra i paesaggi meravigliosi di Cape Town e dintorni in contrasto con le ferite mai socchiuse dell’Apartheid a Johannesburg.

Una birra all’Hard Rock Cafè, il primo aperto in Alaska, che spalma sulla pelle da viaggiatore quella crema vintage, che va oltre i memorabilia appartenuti ai giganti della musica.

Il Martin Luther King Memorial nel parco di Anchorage, costruito negli anni ’90 con una raccolta di fondi, testimonia il forte legame con i neri d’America e la voglia di mantenere viva la memoria della lotta per la conquista dei diritti civili.

Il cielo si annuvola. Mi avvio in aeroporto, è ora di ripartire. C’è qualcosa di inspiegabile che mi trattiene qui ancora mentre una pioggia sottilissima pizzica la mia pelle senza far venire fuori la stanchezza di questo lungo on the road.
L’Alaska mi è rimasta nel cuore, non c’è il tempo di urlarlo, sono in volo, il tramonto sputa raggi di luce sulle nubi, è tempo di andare.

In Alaska sulle spalle di Dio al Circolo Polare Artico in memoria di mio padre

Quando mamma mi regalò nel 1981 il mappamondo sul quale avrei annotato tutte le tappe del mio giro del mondo, aggiunsi il Circolo Polare Artico in Alaska: ero convinto che “l’ultima frontiera” era fatta dalle spalle di Dio e, salendoci sopra, avrei visto tutto ciò invisibile agli occhi.

Da Fairbanks ci vogliono 16 ore andata e ritorno per percorrere la mitica Dalton Highway, ovvero l’Alaska Route 11, che porta tutta diritto al Circolo Polare Artico. Il mio driver mi anticipa che il viaggio è lungo, ma ne vale la pena. A bordo siamo equipaggiati con le radio trasmittenti perché lungo il percorso non c’è corrente elettrica e segnale telefonico.
Basta uscire da Fairbanks per rendersi conto che stiamo per vivere l’impagabile sensazione di essere finiti su  un altro pianeta.

Di tanto in tanto facciamo delle soste per respirare l’atmosfera e trattenere sulla pelle quelle punte di gelo che preannunciano la meta, la più lontana verso il Nord del mondo. Un camionista ci avverte attraverso la radio di aver avvistato un paio di lupi poco lontano dalla Dalton, li rincorriamo, ma ormai sono due minuscule sagome per fare una bella foto.

A far da colonna sonora non ci sono canzoni ma il silenzio spirituale del paesaggio.  Quando ci fermiamo sul fiume Yukon, ormai una lastra di ghiaccio, il sussurro dell’acqua tocca l’anima e ti prepara al momento più emozionante. Prima però una rifocillata allo Yukon River Camp prima di proseguire. Questo è l’unico luogo in questo recinto di deserto del Nord del mondo in cui c’è vita umana.

Non mi ero sbagliato, non era stata una svista infantile quella di credere che il Circolo Polare Articolo si trovasse sulle spalle di Dio. Alle 17.50 ci sono, il sole è ancora alto, mi sembra di vedere la fessura della porta che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Il soffio del silenzio della spiritualità mi fa guardare il mondo dall’alto ed è come se le spalle di Dio fossero improvvisamente diventate quelle di mio padre. Non sento più quel freddo fatto di disperazione dell’istante in cui vidi con i miei occhi che non respirava più.

Una parte di me è rimasta lassù insieme al ricordo di mio padre. Da qualche parte sulla neve ho scritto:Tra la neve del Circolo Polare Artico, il punto più alto della mia vita da vaggiatore, ti ho lasciato la sua foto perché questa meta è a lui dedicata. Custodisci qui, nella preghiera del silenzio e per sempre, il ricordo di mio padre. Ciao Alaska e grazie di tutto. Non ti dimenticherò.”

Mio padre mi ha fatto il più bel regalo che qualcuno poteva fare a un’altra persona: ha creduto in me. (Jim Valvano)

Alaska on the road: Cartolina da Fairbanks

La mia mattinata a Fairbanks comincia con una colazione insieme a Jerry che, oltre ad essere il Public Relation Manager di Explore Fairbanks, è anche un appassionato di teatro.  Davanti a caffè americano, uova e bacon, mi racconta del suo documentario in fase di ultimazione sugli attori e la nuova drammaturgia in Alaska. Jerry mi fa da cicerone, è di buona compaagnia, mi porta a zonzo alla scoperta di quelle città che per tanti è  soltanto di passaggio.

Fairbanks è una tappa obbligatoria per chi vuole entrare nel vivo della vita della comunità alaskina. Non è una città che abbonda di attrazioni, ma è il modo per osservarla nella sua quotidianità con quelle abitudini che, nel raggio di pochi chilometri, ci rendono diversi gli uni dagli altri.
La buona birra artigianale, servita alla birreria HooDoo, è un buon pretesto per conrinuare a parlare con Jerry della vita di tutti i giorni, della famiglia, dei progetti futuri, del figlio che gli sta dando tante soddisfazioni.

Fairbanks ti sorprende proprio per la sua sobrietà, in questo centro che nel tardo pomeriggio assomiglia ad un set da film del vecchio Western, anche se poi assaggiando la cucina locale ammetti che sono tutte impressioni gettonate.

Il salmone ben cucinato da Lavelle’s bistrot resta uno dei piatti rappresentativi di questa zolla staccata d’America, l’ultima frontiera di nome e di fatto. Fairbanks sa esaudire i tuoi desideri in un periodo  dell’anno in cui intravedere l’aurora boreale è quasi impossibile, perché le ore di luce sono di più rispetto a quelle notturne.

Intorno alle 2 del mattino eccola spuntare nella sua raggiante bellezza: io vi attacco sulla coda un bottone, che assomiglia al legittimo desiderio di rivedere un dì mio padre.