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5 consigli dal mio viaggio low cost in Islanda

All‘Islanda è toccato essere il Paese n.52 del mio giro del mondo. Ecco 5 consigli dopo il viaggio mozzafiato nell’isola europea magica e piena di sorprese


IN VIAGGIO IN ISLANDA CON REYKJAVIK EXCURSIONS

Da 50 anni hanno scritto la storia del trasporto e del turismo di Reykjavik e dintorni. Reykjavik Excursions è un marchio turistico a cui potete affidarvi appena atterate nella capitale islandese. Grazie al loro servizio Flybus (a partire da 24€ a corsa) potete raggiungere in 45 minuti Reykjavik dall’aeroporto internazionale e, con un supplemento aggiuntivo, avrete uno shuttle che vi porterà poi direttamente all’alloggio indicato.
Noleggiare l’auto in Islanda può arrivare a costare tre volte rispetto all’Italia. Partire da Reykjavik con tour organizzati in mini van con guide specializzate può essere un’alternativa intelligente e avere un buon rapporto qualità prezzo. Reykjavik Excursions vi propone 128 tour in Islanda per tutte le tasche che vi consentiranno di costruire itinerari personalizzati. Monitorate le offerte dal sito e prenotate in largo anticipo, soprattutto ora che si va verso il periodo di alta stagione.


L’AVVISTAMENTO DELLE BALENE CON ELDING WHALE WATCHING

Chi non ha mai sognato di vedere una balena? Io fin da bambino, dai tempi dell’infanzia in cui papà la sera mi raccontava a puntate la favola di Pinocchio. Affidatevi per vivere questa incredibile esperienza all’equipaggio di Elding Whale Watching. Dal porto di Reykjavik tutti i giorni partono le loro imbarcazioni per l’avvistamento delle balene. In caso il whale watching non dia i risultati sperati, Elding Whale Watching vi offre una seconda opportunità. Prenotate con anticipo sul sito. A bordo salvagente e binocolo per tutti!
Inoltre, vi consiglio anche l’avvistamento dei Puffin, buffi pennuti simbolo dell’Islanda e del Nord Europa conosciuti in Italia con il nome di Pulcinella di mare.

IN BARCA NELLA LAGUNA GLACIALE DI JOKULSARLON


Jökulsárlon, uno dei ghiacciai simbolo del Nord Europa, resta la perla del Sud dell’Islanda. Una volta arrivati in questo paradiso naturalistico, non potete fare altro che salire sull’imbarcazione di Glacier Lagoon.
Con un’esperienza di 25 anni, l’equipaggio vi porterà alla scoperta di una laguna glaciale che vi toglierà il fiato. Salvagente per tutti e se siete fortunati come me avvisterete anche delle simpatiche foche.
Vi consiglio l’Amphibian Boat Tour della durata di 35 minuti. Anche in questo caso, per non rischiare di fare un lungo viaggio a vuoto, vi suggerisco di prenotare in anticipo.

MANGIARE ISLANDESE AL REYKJAVIK ROST

Un posto delizioso e pieno di atmosfera è il Reykjavík Röst, coffee house sul porto della capitale che serve anche piatti tipici islandesi con un buon rapporto qualità-prezzo. Fatevi consigliare da Agnes, che gestisce con passione e dedizione questo localino aperto tutti i giorni dalle 8 alle 18.
Il mio tragitto nella cucina islandese è stato fatto da un assaggino di carne di squalo, un tagliere di formaggi locali accompagnato da pane abbrustolito, dell’ottimo salmone affumicato su un tappeto di pane e insalata e una birra locale accanto al camino.
Ci sono tornato anche una mattina a colazione, seduto alla finestra con vista sull’oceano. Agnes mi ha preparato un buon caffè americano e una crepe con della crema tipica islandese. A pranzo è sempe pieno, perciò meglio prenotare. Se siete in gruppo, fatelo presente!

NOSTALGIA DELLA CUCINA ITALIANA A GRAZIE TRATTORIA

Nostalgia, nostalgia canaglia della cucina italiana, che ti prende proprio quando non vuoi? Ho scoperto con il mio fiuto da reporter e viaggiatore Grazie Trattoria, un bel ristorante a Reykjavik in Hverfisgata 96, inaugurato qualche mese fa.
La passione dell’islandese Kristján Nói per il cibo italiano ha dato vita a questo ristorante dal design d’interni che esalta la nostra arte italiana e i piatti cucinati con prodotti tipici nostrani. In Islanda nella nostra amata pasta alla carbonara ci mettono pancetta e crema di formaggio. In quella da me assaggiata c’era del vero guanciale e pecorino romano proveniente dalla nostra bella Italia. Vi consiglio anche l’ossobuco con una delicata crema di polenta e, come dessert, avete l’imbarazzo della scelta tra tiramisù e panna cotta.
Infine Kristján, l’islandese innamorato della cucina italiana, mi ha fatto assaggiare il suo limoncello di cui è tanto fiero. Preparato con i limoni della Sicilia, Islenskt Limoncello è distribuito in venti ristoranti della capitale.

Palermo senza Falcone: io prigioniero nel Palazzo dei Normanni

Trent’anni dopo la strage di Capaci, resto prigioniero nel Palazzo dei Normanni di Palermo. Mentre il capoluogo siciliano si accinge alle commemorazioni per l’uccisione del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta, io salgo e scendo lo scalone del palazzo in cui aleggia ancora la presenza di Federico II.
Mi defilo, mi nascondo tra i colonnati, mi siedo sulla scala e penso a dove mi trovassi il 23 maggio 1992, quando al telegiornale diedero la tragica notizia: ero immerso nella preparazione dell’esame di maturità.

IO VI PERDONO, PERO’ VI DOVETE METTERE IN GINOCCHIO

E pensare che la mia ultima volta a Palermo la residenza reale più antica d’Europa era una bellezza da contemplare tutta all’esterno. Ora ci sono dentro, ne attraverso le stanze non da turista ficannaso ma da viaggiatore alla ricerca di glorie remote in oltre duemila anni di storia.
Dalla finestra spingo lo sguardo fino al centro storico di Palermo, in lontananza le facce degli studenti del Vittorio Emanuele, in cui insegnò don Pino Puglisi, un altro martire di Cosa nostra. Non riesco a leggere gli striscioni dedicati a Falcone degli studenti palermitani, che trent’anni fa non erano nati ancora.

L’ARTE CI SALVERA’ DALLE BRUTTURE DI QUESTO MONDO?

Ho in testa il rumore delle bombe di Capaci – ricordo quando mi accompagnarono nella zona dell’attentato nell’estate 2007 – e le parole di rabbia e dolore di Rosaria Schifani, vedova della scorta, “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio.”
Trovo rifugio nella Cappella Palatina, magnifico dono del monarca Ruggero II di Sicilia, una bellezza indescrivibile da procurarmi un lungo batticuore. Di fronte a tanta bellezza, affogo improvvisamente nell’amletico dubbio: l’arte continuerà a salvarci dalle brutture di questo mondo?

GLI UOMINI PASSANO, LE IDEE RESTANO

Nel giardino del Palazzo dei Normanni, sosto sotto un albero. E’ enorme rispetto a quello in via Notarbartolo 23, sotto casa di Giovanni Falcone. Se ci penso, con le sue radici enormi, assomiglia all’eredità di questo martire della Mafia: così radicata da spingere i più giovani a calpestare uno dei peggiori morbi di una società civile, l’omertà.
Gli anniversari servono anche risollevare la salivazione amara che ti fa guardare il bicchiere mezzo vuoto: cosa non abbiamo fatto allora per salvare i giudici Falcone e Borsellino? Cosa non hanno fatto lo Stato, le istituzioni, la classe politica di allora?
La loro morte feroce per mano della Mafia rimane una delle sconfitte più lapidari dell’Italia della Prima Repubblica.
Da dietro l’albero nel giardino del Palazzo dei Normanni sbuca un bimbo dal sorriso vispo, sgambetta verso la madre che gli va incontro, risento queste parole:

“Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”

GIOVANNI FALCONE

Il mio 23 maggio, lontano dai simboli, dai cortei, dai cerimoniali, prigioniero della bellezza del Palazzo dei Normanni.

Eurovision 2022: Mammoni nell’Ucraina in guerra dei Kalush

I venti di guerra hanno cavalcato l’onda emotiva dell’Eurovision 2022 e hanno dato il podio alla Kalusha Orchestra, che ha consegnato all’Ucraina di Zelensky il palco della prossima edizione.
Chi fantastica già sulla ricostruzione postbellica e sogna di mettere le mani nella marmellata degli affari edili d’oltreconfine, ha ascoltato Stefania dei Kalush pensando fosse l’ennesimo inno anti-Putin. Abbindolati dallo stile folk, che per certi versi somministra slanci musicali che la mia generazione associava a Bregović e alle bombe del conflitto serbo-bosniaco, in tanti non si sono accorti che la Stefania vincitrice dell’Eurovision Song Contest è un omaggio alle mamme ucraine.

TUTTI MAMMONI

Così torniamo ad essere “tutti mammoni” senza riserva ma con uno sguardo che non cede sentimentalismi alle nostre madri emancipate, occidentalizzate e supersoniche, manager dietro la scrivania con l’agenda impegnata, con il tempo tiranno che le perseguita in affanno.
La musica in stile hip hop e il folk dei Kalush sputa parole che raccontano madri ucraine, soldatesse o no, somiglianti più a quelle della generazione delle nostre nonne, dove anche quando tornavano massacrate dai lavori dei campi erano padrone del tempo che disegnava le stagioni della vita.

Stefania mamma mamma Stefania
Il campo fiorisce, ma lei sta diventando grigia
Cantami una ninna nanna mamma
Voglio sentire la tua parola nativa


MANIFESTO MUSICALE TRA PACIFISMO E MATERNITA’

Se anche dietro Stefania si nascondesse la madre Ucraina e un velato orgoglio nazionalista rinvigorito, ai Kalush resta il merito di aver stampato un manifesto musicale tra pacifismo e maternità.
I rintocchi di queste maledette bombe ci hanno fatto venire improvvisamente una gran voglia di ringraziare le nostre mamme, che ci hanno dato la vita senza richiesta di ricompensa, così come il Paese in cui siamo nati e cresciuti. Speriamo che questo inno dei Kalush ci apra col tempo a ulteriori riflessioni, anche sulle contraddizioni di questa guerra da entrambe le parti. Se non fosse così di Stefania resterebbe il ricordo di un’ondata emotiva collettiva e di una vittoria a tavolino.

Diario di viaggio: A casa di D’Annunzio tra letteratura, teatro e pubblicità

Cover by Lacciosciolto da Foto Fondazione Il Vittoriale

Ci sono due luoghi in cui ho avvertito la presenza dei “padroni di casa”. La Reggia di Francesco Giuseppe, Schönbrunn a Vienna, e il Vittoriale degli Italiani di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera, sulla sponda lombarda del Lago di Garda. Il complesso voluto fortemente da uno scrittore avanguardista del XX secolo – il D’Annunzio che la generazione dei miei professori liquidò con qualche paginetta sgualcita per rincorrere i programmi ministeriali di allora – resta una tappa da viaggiatore che va oltre l’odioso dovere “scolastico” che prima o poi ti porta in certi luoghi sotto lo sglogan meglio tardi che mai.

MEMORIE REMOTE TRA TEATRO E GLI ANNI DEL VITTORIALE

Eppure a D’Annunzio non ci sono arrivate tra le solite paginette imposte di antologia ma attraverso una scorciatoia sottovalutata: il teatro, tra i copioni di Francesca da Rimini e La figlia di Iorio, lo studio matto e disperatissimo su Eleonora Duse sotto la guida dello storico napoletano di teatro Franco Carmelo Greco, un incontro che mutò il mio destino di ribelle adolescente.
Non avevo compiuto ancora quidicianni e mi trovai, in un camerino di periferia, attaccato alla giacca del gigante pirandelliano Salvo Randone, classe 1906, l’attore siracusano cresciuto sui palcoscenici di fine anni ’20 a metà strada tra i viventi Pirandello e D’Annuzio. Quella sera su Randone annusai lo stesso dopobarba di mio nonno e, allo stesso tempo, quel profumo del tempo che ti portava diritto agli anni dannunziani del Vittoriale. In visita li ho ritrovati guardando la sterminata bellezza dell’anfiteatro che abbraccia il lago di Garda.

D’ANNUNZIO, IL VITTORIALE E PROFEZIE MODERNE

Attraversare la casa dello scrittore a Gardone Riviera in questo tempo, dopo il buio di una pendemia e le bombe di una guerra che lacera l’Europa, non acceca il visitatore di estetismo e mito del superuomo raccolti tra le centinaia di oggetti raccolti.
Lascia una riflessione amara sui corsi e ricorsi storici, su come gli ultimi anni zeppi di lacerazioni e contraddizioni riabilitino per l’ennesima volta D’Annunzio dalla critica miope che sminuì la sua complessa opera per darla in pasto a visioni politiche estremiste e patriottismi guerrafondai.
Buttando l’cchio qui e lì mi è tornato in mente il D’Annunzio antesignano della pubblicità moderna – si deve a lui il nome dei famosi grandi magazzini la Rinascente – tra la femminilità attribuita al sostantivo automobile che fece la fortuna della Fiat degli Agnelli e la definizione di Liquore delle virtudi che divenne lo slogan dell’Amaro Montenegro.

D’ANNUNZIO E L’INFLUENCER MARKETING

Quanti influencer che affollanno le nostre bachece social sanno di dover qualcosa a Gabriele D’Annunzio? Senza le sue illuminazioni da influencer marketing, assiepate nella prima parte del secolo scorso oltre il nome dei biscotti Saiwa, chissà cosa ne sarebbe oggi dell’occhio stilizzato di Chiara Ferragni e di tanti loghi che risucchiano giri d’affari milionari. C’è ancora chi è convinto che una visita al Vittoriale sia soltanto un tuffo nel passato remoto?

In viaggio con Paola, da chef di Modena al suo “primo amore”: l’insegnamento

Adoro i treni locali, senza la fretta dell’alta velocità che cancella paesaggi e storie, perché mi permettono di sciorinare i colori del tragitto, con la giusta lentezza. Questi viaggi mi donano altri viaggiatori, altre storie che ispirano riflessioni e biglietti senza ritorno. Paola si siede di fronte a me, accanto a mia moglie, diventa il mio interlocutore mentre il treno si allontana dall’Emilia per guardare in fondo la Toscana: la sua Modena è gemellata con la mia Napoli che lei conosce bene: ne parla come un’innamorata cronica che predilige i pregi tra le scorribande con i figli in via dei Tribunali e lo stupore della bellezza del Cristo Velato, come se in un’altra vita fosse stata una napoletana del centro storico.

DA MODENA COME SU UNA DILIGENZA

Di stazione in stazione, di storie in storie, mi sembra di conoscere Paola da sempre quando mi racconta di Modena e io ribatto tra i ricordi di gioventù nella sua città e il concerto di Pavarotti a Hyde Park del ’91: per un figlio d’operaio quale ero io fu come prendere la luna con un lazzo, a Londra.
Man mano che ci avviciniamo all’Appennino parmense, come se fossimo su una diligenza del vecchio West, Paola mi racconta dell’estati con la famiglia in Liguria: lei fa parte delle generazioni modenesi che andavano in direzione contraria al mare romagnolo. Si parla di musica, dei vinili che le passavano i cugini più grandi, dei gusti musicali e cinematografici tra Frank Zappa, il Banco del Mutuo Soccorso, Vasco e De André; il Va Pensiero di “VIVA VERDI” che fece tremare gli austriaci, il magistrale Mastroianni e la Loren in Una giornata particolare di Scola, che nell’adolescenza degli anni ’70 la fecero volare come una libellula sul maschilismo becero. E poi il primo concerto di Faber che non si scorda mai, le incursioni letterarie, i nostri dialoghi che brancolano tra il buio e l’omertà degli Anni di Piombo e lo sfascio della Prima Repubblica, tra l’impegno civile degli anni ’70 e l’appiattimento dei social network.

TRA LE ALPI APUANE E UNA SPERANZA DI PACE

Superato Pontremoli, Paola mi racconta la bellezza di questo piccolo borgo e poi mi lancia la domanda a bruciapelo: “Cosa ne pensi di Ezra Pound?”. Come se mi avesse letto negli occhi, perché tanti versi del poeta americano avevano dirottato le mie letture universitarie oltre la siepe dei pregiudizi e del legame di quest’ultimo con il Fascismo e il Nazismo.
Paola mescola ricordi di vita vissuta alle Alpi Apuane, ingoia l’incanto delle cave di marmo di Carrara dietro gli occhiali, l’amore per Alberto nel luccichio delle pupille, fin dai tempi dei banchi del liceo e la loro crescita tra contestazione e passioni politiche. I lampi accecanti di questo sole d’aprile, a ridosso di Sarzana, sembrano in lontananza le bombe in Ucraina, smorzati poi dagli appunti di un’insegnante modenese che trae dall’infanzia smisurata ricchezza: la bambina ucraina che prende per mano la piccola coetanea russa nel cortile di una scuola emiliana e il trattenersi insieme fino al tramonto disegnano i contorni dI una speranza di pace.

DA APPREZZATA CUOCA MODENESE A INSEGNANTE LUNGIMIRANTE

Dall’entroterra passiamo alla costa del mare toscano e i nostri discorsi sfumano, oltre la Versilia, fino all’arrivo nella stazione in cui Paola scende dal treno. E’ solo in quel momento che capisco chi fosse davvero il mio interlocutore: la chef Paola Corradi che, insieme al sommelier Alberto Vaccari, ha segnato la storia degli ultimi quarant’anni dell’arte culinaria a Modena, prima gestendo la famosa Osteria Francescana ceduta allo stellato Bottura e poi la Cucina del Museo, ristorante apprezzato e osannato dai colleghi della stampa. Dopo la scomparsa prematura di Alberto, Paola è tornata alla passione giovanile dell’insegnamento, rispolverando il diploma di maestra.
Questo diario di viaggio è dedicato a Paola e a tutte le donne come lei che, per intelligenza, sensibilità, spessore e professionalità, non hanno bisogno di ostentare come tanti provinciali al pascolo sui social network, che vorrebbero passare per ciò che non sono.


VIAGGI, VIAGGIATORI E RINASCITE

I viaggi sono fatti anche dai viaggiatori e non solo dalle destinazioni. E quando di rado accade di incrociare un compagno di viaggio speciale, senza accorgersene si allarga la famiglia sulla strada della vita. A quest’ora Paola avrà già preparato per suo figlio la Sacher torte mentre una stella cadente, Alberto, si sarà posata sull’isola dell’Elba.
Pasqua è rinascita e questa è una gran bella storia di rinascita, donata anche a chi come me ha deciso di non trascorrerla seduto alla solita tavola tra pastiera e uova di cioccolato. Volevo raccontarvela.

Julian canta “Imagine” di papà Lennon solo per l’Ucraina?

Quante mani dovrei chiedere in prestito per conteggiare le cover di Imagine, manifesto musicale pacifista di John Lennon e Yoko Ono, spalmate in ogni angolo del pianeta. Se a cantarla però è Julian Lennon, primogenito dell’ex Beatles nato dalla prima moglie Cynthia – per la prima volta per giunta – qualche riflessione ci può stare.

IMAGINE PER L’UCRAINA?

La guerra mostruosa in Ucraina e il desiderio di pace hanno bussato alla porta di tanti musicisti. A far da capofila ci sono i Pink Floyd e la loro Hey Hey Rise Up sulla voce del frontman dei BoomBox Andriij Khlyvnyuk. A questa si aggiunge Imagine nella versione di Julian che tappa la bocca alla promessa dello stesso Lennon Junior: “Non eseguirò Imagine fino alla fine del mondo”.
La prima cosa che mi colpì prima dell’intervista a Julian, alla vigilia del Concerto del Primo Maggio del 1998, era la somiglianza fisica con il papà. Il figlio di John Lennon si mostrò garbato, accogliente, senza la superbia che poteva soccorrere le fragilità nascoste dietro un figlio d’arte. In questa cover di Imagine c’è solo di mezzo l’Ucraina?

DI PADRE IN FIGLIO

Forse sì, forse no. L’esecuzione intensa di Imagine di Julian tra le fiammelle accese, in memoria delle vittime della guerra, commuove anche perché nasconde il canto di liberazione di un figlio tra ferite, conflitti e lacerazioni.
Puoi essere o non essere il figlio di una rockstar, ma il dolore ha lo stesso peso quando vedi tuo padre andarsene da casa, cominciare la vita con una nuova compagna e sentirti spodestato affettivamente dall’arrivo di un “fratellastro”. Pardon, oggi questa parola è bannata nel dizionario delle progressiste “famiglie allargate” in cui si sta al gioco di andare d’amore e d’accordo.

LA COVER CHE FA MALE

La cover di Imagine di Julian Lennon non si ferma all’urlo pacifista per l’Ucraina. La rabbia del padre John, che cinquant’anni prima aveva cantato l’abbandono con la durezza delle parole “Mother, you had me But I never had you… Father, you left me But I never left you”, diventa terapia dell’anima nella cover di Julian che sussurra ferite mai chiuse con delicatezza. Qui, infatti, il piano di papà John tace e la musica è consegnata agli accordi di una chitarra acustica.
Chissà semmai i versi “Imagine all the people living life in peace” riscriveranno le parole “Immagina papà e figli vivere una vita vicina e lontana in pace”, senza le burrasche della calma apparente.

Chef Marco Bezzi e le memorie future del principe della cucina della Valcamonica

Cover Foto by Lacciosciolto

Non è una leggenda alpina. Il risotto al fatulì dello chef Marco Bezzi, principe della cucina della Valcamonica, mi conquistò a tal punto che una quindicina d’anni fa affiancai alla cultura montana quella mia d’origine di uomo di mare. Il suo inconfondibile risotto mangiato sul Tonale, sospeso sulle Alpi a 2.000 metri d’altezza, attuò il sortilegio: fu come mischiare le pagine letterarie di Il vecchio e il mare di Hemingway con quelle di La montagna incantata di Mann.

BEZZI, ANTROPOLOGO DELL’ARTE CULINARIA CAMUNA

Non dimentichiamo che la cucina autentica della tradizione, quelle delle nostre nonne e bisnonne per intenderci, tiene al riparo la memoria dalle intemperie di questo tempo furibondo che, a furia di rincorrere con affanno il futuro, la vorrebbe sbiadire tra chef ipertelevisivi, stizzinosi vezzi gourmet, collezioni di stelle da appendere alle insegne.
Lo chef Marco Bezzi riesce a spingermi alla follia dei 350 chilometri percorsi nella stessa giornata perché, dal tempio del suo ristorante Sanmarco di Ponte di Legno con un nuovo interior design, continua ad essere l’antropologo dell’arte culinaria camuna senza troneggiare, con umiltà, sempre con un piede sotto il podio.


ANTICHI SAPORI E MEMORIE COLLETTIVE

Prima o dopo il tunnel della pandemia, lui continua a ripetere come un mantra “Quando qualcuno passa a trovarmi, nei miei piatti incontra territorio e tradizione, con una punta di innovazione che non guasta. Mai sgualcire la memoria culinaria della mia Valle Camonica”. Fuori dal Sanmarco c’è una nevicata d’aprile, tutto è così magico in questa bizzarra primavera.
Mentre assaggio la carne salata della valle, il formaggio silter, la spongada, il pane dolcesalato della nonne camune, i suoi Gnoc de la Cua De.Co. gli occhi si perdono improvvisamente in un ricordo: il mio reportage avventuroso sul Montozzo, nel Parco dello Stelvio, tra le trincee della Grande Guerra, dove tanti ragazzi camuni persero la vita. Il sapore forte del silter invoca il ricordo commovente delle mamme camune che mettevano un pezzo di formaggio nella tasca delle divise dei loro figli verso il fronte, mai più di ritorno.

STILE, PASSATO, MODERNITA’

L’interpretazione di Marco Bezzi della tradizione culinaria montana è caratterizzata da stile, passato e modernità e fanno con naturalezza del buon cibo un ponte tra ciò che eravamo e ciò che saremo: basta inforchettare le Piode di Monno con burro, salvia e pancetta o i Calsu danzanti tra lardo croccante, l’immancabile polenta e il silter dop.
Così le piccole provocazioni dello chef ad alta quota ti lasciano sempre lo stupore sul palato: dal Cuz di Corteno Golgi, lo spezzatino risalente alle invasioni delle tribù ungheresi, alla spongada. Chi lo avrebbe mai detto che dall’antipasto avrei ritrovato il pan focaccia delle nonne camune a fine degustazione, dopo aver spodestato i savoiardi, nel suo delicato Tiramisù, infiammato sottopelle dal bombardino.

Lo chef di Ponte di Legno non è solo il principe dei fornelli della valle, ma è un attento e puntiglioso conoscitore del territorio. La lunga esperienza ai vertici di punti di riferimento di settore come RistoLombadia, Associazione Pubblico Esercizio di Ponte di Legno e Associazione Ristoratori Valcamonica, lo portano ad essere pragmatico e sempre in difesa delle piccole e medie realtà locali della ristorazione.
Bezzi non ha peli sulla lingua e non smetterà mai di urlare a tutela di quest’ultime. perché danno un grande contributo alla crescita dell’economia locale.


LA NEVICATA DI CHI CI GUARDA DA LASSU’

Intanto la neve d’aprile è aumentata, mi ritrovo in direzione di Edolo, la strada per il ritorno è ancora lontana. Mentre Marco guida, raffiorano ricordi comuni, i nostri papà, l’eredità di valori e il loro sguardo da lassù. Lo chef della valle e il giornalista napoletano sembra il titolo di un film ambientato ad alta quota, invece no siamo noi disciolti nella commozione, nel silenzio dei fiocchi di neve. Ogni volta che ci torno, in Valcamonica, ci lascio il cuore. Per dirla alla Ed Viesturs, a chi mi chiede “Perchè vai in montagna?” rispondo: “Se me lo chiedi non lo saprai mai”.

Viky’s a Milano e l’hamburger angloitaliano che accorcia le distanze post-Brexit

Cover Photo by Lacciosciolto

Metti un gustoso hamburger di Fassona, eccellenza italiana della piemontesità, dato in matrimonio a un buon partito di Cheddar, proveniente dall’omonimo villaggio inglese nella contea del Somerset, e possiamo dire addio (o quasi) alla Brexit e al passaporto d’oltremanica. A Milano finalmente c’è Viky’s Burger Queen, l’hamburgeria dove Italian style e British sentiment stanno bene insieme, nei sapori e nell’ambiente.

HAMBURGER, JUNK FOOD? ACQUA PASSATA

Quelli come me, che ebbero la fortuna di mettere piede a 14 anni nell’Inghilterra di fine anni ’80, si accorsero già allora che l’affossamento dell’hamburger a cibo spazzatura era un pregiudizio relegato al nostro Belpaese e al suo provincialismo. In Gran Bretagna era tutt’altra storia allora e d’estate io azzannavo buoni hamburger nel Kent, dai furgoncini alle fiere di Margate ai locali della vecchia Inghilterra, nel cuore di Canterbury. E se volete saperla tutta, proprio nei pressi della famosa Cattedrale anglicana, colsi in flagrante un anziano prelato godersi il suo hamburger su una panchina.

VIKY’S BURGER QUEEN E IL GIUBILEO DI SUA MAESTA’

L’hamburgeria di via Losanna 11 è stata battezzata non a caso nel 2022, anno del Giubileo di Platino per i 70 anni di regno della regina Elisabetta. A sua Maestà è stato dedicato il Queen Burger, un ponte di sapori in contrasto tra Italia e Inghilterra: hamburger di fassona piemontese, brie, speck, melanzane grigliate, maionese al basilico. Roba da far leccare i baffi a qualsiasi sovrano che si rispetti.
Facendo anche asporto attraverso i principali canali web di food delivery, suggeriamo allo staff di Viky’s Burger Queen di organizzarsi per consegnare alla regina Elisabetta, direttamente a Buckingham Palace, il mitico hamburger a lei dedicato accompagnato da sfiziosità come i crostoni e i dolci Viky’s bun con gelato soft. Povera Meghan, non me ne voglia! La duchessa di Sussex si pentirà delle fuga con il principino Harry dall’altra parte dell’Oceano, appena saprà di tutto questo “ben di Dio” a palazzo reale.
Cosa ne dice Meghan di fare una scappata a Milano per riprendersi “il trono mancato” e concedersi un selfie sotto la corona illuminata di Viky’s Burger Queen?

TRE ALBUM PER 3 HAMBURGER

Per augurare lunga vita a Viky’s Burger Queen di Milano ho scelto dal mio archivio tre vinili, che hanno scritto la storia della musica inglese nel mondo, da accostare al gusto di tre panini preferiti proposti dall’hamburgeria angloitaliana.

Per il Queen Burger (hamburger di fassona piemontese, brie, speck, melanzane grigliate, maionese al basilico) ci vuole un LP regale, Abbey Road dei Beatles del 1969, che si chiude con il motivetto di Macca dedicato alla regina Elisabetta: “Her Majesty’s a pretty nice girl But she doesn’t have a lot to say Her Majesty’s a pretty nice girl But she changes from day to day.”

Il Viky’s Burger osa con il suo abbinamento di gusto (hamburger di fassona piemontese, pomodoro, anelli di cipolla rossa di Tropea, insalata, cetriolo, salsa Viky’s) e perciò si merita Heroes di David Bowie, registrato a Berlino e pubblicato nel 1979: “We can be Heroes, just for one day We can be us, just for one day,”

Per il Rock Burger (hamburger di fassona piemontese, provola fresca affumicata, zucchine grigliate, Nduja calabrese, insalata) ci vuole la potenza della voce di Freddie Mercury e gli scivoli sonori di A Kind of Magic dei Queen. Uscito nel 1986, l’album contiene il brano ricco di suggestioni Who Wants to Live Forever che anticipa la dipartita prematura di Freddie e la sua immortalità artistica.

Il 19 marzo e l’onomastico che ti restituisce Peppe Tanzillo

In Copertina: Foto di scena di Antonio La Peruta

Dove sono nato e cresciuto l’onomastico non era da meno del compleanno. I nomi ci rendono unici e irripetibili, ci legano a Dio per sempre e noi gente del Sud lo teniamo sempre a mente. Il 19 marzo, San Giuseppe, mi restituisce intatto il ricordo di Peppe Tanzillo, un amico della periferia di Napoli.

PIACERE, PEPPE

Di quella lunga tavolata di Pasquetta nella primavera del 1988, che guardava in lontananza gli stabilimenti della Montefibre di Acerra e dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, ero l’unico adolescente in mezzo ai più “grandi”. Giovanni, Tiziana, Umberto e Vittoria mi sedevano accanto, mi svestirono di quell’aria ingessata e mi fecero sentire a mio agio per tutto il pomeriggio. Tiziana, che sapeva della mia passione sfrenata per la lingua inglese, si alzò di botto, mi condusse dall’altra parte della tavolata e mi presentò un trentenne dalla faccia simpatica, allora insegnante di lingua e letteratura inglese in una scuola paritaria.
“Piacere, Peppe”, esordì lui e cominciò a declamare filastrocche in inglese come se fosse un attore girovago del teatro elisabettiano venuto da un tempo lontano. Io gli feci il verso e mi piantai a stonare il paradigma dei verbi irregolari come se fosse una canzone dei Beatles. Sulla fragorosa risata del “professore dal sorriso sornione” riconobbi il fratello maggiore che non avevo mai avuto.

SULLA STRADA DI PERIFERIA

Nonostante la distanza anagrafica e le diversità generazionali Giuseppe Tanzillo, in arte Peppe, è stato una delle persone più vere conosciute sulla strada di periferia, in un tempo extraterrestre in cui i legami si sedimentavano “miezz’a via” senza i filtri amorfi della globalizzazione digitale.
Peppe che correva avanti e indietro con le scartoffie scolastiche nella borsa in pelle; Peppe che mi suggerì il dizionario inglese delle frasi idiomatiche che avrei comprato a Londra anni dopo; Peppe che mi presentò la fidanzata – la mia amica Tania delle messe domenicali – e poi moglie per sempre; Peppe che prese dalla culla un fagottino, mi indicò il figlio Vincenzo e io “Vicienzo come Vincenzo Scarpetta?”; Peppe che mi prestò una moneta da 200 lire per telefonare da una cabina pubblica mamma infuriata che mi dava per disperso, mentre noi eravamo su una panchina a tradurre i sonetti di Shakespeare.

GIOSTRA TRA VITA E PERSONAGGI

Peppe, nella vita Giuseppe Tanzillo, ha custodito, dietro la giostra dei suoi personaggi e del suo trasformismo brillante in palcoscenico, l’autenticità della persona lontana dalla superbia e libera dai compromessi a cui è condannato chi deve apparire per non essere sé stesso.
In questa foto di copertina del 1996 – una sorpresa di Domenico Cantore autore del cortometraggio Blù in concorso al Festival del Cinema di Salerno e alla Rassegna Visioni Italiane della Cineteca di Bologna – mi ritrovo ventenne insieme a Peppe quarantenne. Sullo sfondo della periferia di Napoli da protagonista vestiva i panni, lungo lo scivolo di sogni e solitudini, di un fattorino di una piccola tv locale che consegnava i prodotti delle televendite.

MI SENTI, SONO IO…

Questa vecchia foto è incredibile, ci presenta con quelle “inguardabili canottiere” che restano l’anti-sex symbol di noi ragazzi del Sud di ieri, strafottenti del mito di cartone del latin lover.
Oggi, 19 marzo, guardo lo scatto con profonda commozione e mi sembra che il mio personaggio urli a Giuseppe Tanzillo “Mi senti, sono io, mi senti…” nell’assordante rumore di un’epoca frenetica che tende a spazzare via memoria e ricordi, offendendo il bene profondo.
Quando ho capito quale muro fosse a separarmi da Peppe Tanzillo, vi ho ritrovato scolpite queste parole:

Qui ove il fremito delle umani passioni non giunge ed ove l’insana malvagità degli uomini s’arresta, le lacrime e le preghiere dei defunti confortano e sollevano lo spirito.

Un giorno ci ritroveremo, sulla strada.

Russia e Ucraina nella guerra dei social media tra fake news e amare verità

Illustrazione Cover di The Daily Beast


La guerra tra Russia e in Ucraina si sta combattendo anche con i social media, da Telegram a TikTok, paradossalmente lanciati da Russia e Cina, i due nemici più temuti dalla NATO. Agli inviati di guerra dei media tradizionali, che in questo conflitto spesso sono stati ostacolati nel reperimento di notizie in loco, si è affiancato il citizen journalism. Da una parte, il giornalismo partecipativo ha fatto della gente comune uno dei protagonisti della narrazione di questa guerra sanguinosa, dall’altra si è assiepato tra fake news e amare verità.

GUERRE INTELLIGENTI

Se faccio un passo indietro e ripenso alle pagine di Guerre Intelligenti, il volume che mi portò a lavorare a fine anni ’90 alla Federico II di Napoli nel team della sociologa Rossella Savarese, sembrano trascorsi anni luce dalla Prima Guerra del Golfo, nell’evoluzione dei sistemi di informazione e delle loro relazioni con la politica locale. La Russia di Putin ha fatto scricchiolare lo slogan “si vince senza combattere” e sta trascinando l’Europa in una guerra che convoglia strategie militari tradizionali.

MOSCA E LO STILLICIDIO DELL’INFORMAZIONE LIBERA

A livello mediatico cosa accade? Se allora Peter Arnett, il celebre giornalista della CNN, si fermò a Baghdad per raccontare le notizie censurare da Saddam Hussein, oggi gli inviati delle maggiori testate del mondo a Mosca hanno dovuto preparare “i bagagli” dopo la decisione della Duma di imbavagliare l’informazione libera.
La Russia è tornata indietro ai tempi del Muro di Berlino con la pena di 15 anni di carcere, voluta per fare uno stillicidio della stampa libera e indipendente.
Al di là dei nostri corrispondenti messi con le spalle al muro, restano i social media a far dannare Putin e il Cremlino. Nonostate la chiusura dei rubinetti di Facebook, Twitter e Instagram al di là degli Urali, l’mbarazzo per gli orchi dell’ex Unione Sovietica è tanto: da una parte l’indignazione per l’uccisione in Ucraina di diversi messaggeri dell’informazione, tra cui l’ex collaboratore del New York Times Brent Renaud, il cameran di Fox News Pierre Zakrzewski e la collega ucraina Alexandra Kuvshynova, dall’altra lo sputo in faccia alla censura della giornalista russa della Televisione di Stato Marina Osiannykova.

GUERRA E SOCIAL: DA TELEGRAM A TIKTOK

Nessuno avrebbe immaginato che proprio Telegram, la piattaforma di messaggistica fondata nel 2013 da un russo, Pavel Durov, sarebbe diventato il principale veicolo di informazioni e propraganda al tempo stesso del governo ucraino nella guerra che sta tenendo il mondo intero con il fiato sospeso.
Gli stessi inviati in Ucraina delle grandi e medie testate giornalistiche hanno dovuto cedere al ripiego della citazione Fonte: Telegram per completare i loro reportage.
TikTok, lanciato in Cina solo sei anni fa e in voga tra i giovanissimi per creare video musicali bizzarri, si è trasformato invece dal social della goliardia allo spacciatore dei video dei crimini di guerra.

IN TRAPPOLA TRA FOTO RITOCCATE E VIDEO RICICLATI

Nella guerra tra Russia e Ucraina che impedisce in tutti i modi ai giornalisti inviati di spostarsi con agilità e andare fino in fondo – chissà cosa direbbe il primo inviato bellico della storia William Russell (per The Times nella guerra in Crimea del 1853-1856) – i social media stanno dando un grande supporto.
Il rischio della fake news e della propaganda bellica da entrambi gli schieramenti tra foto ritoccate e vecchi video riciclati – come in ogni conflitto del passato tra l’altro – resta al centro del dibattito e non è l’unico prezzo da pagare per l’informazione. A quasi un mese di guerra sono state prese diverse cantonate, anche dai media più autorevoli, dalla messa in onda di una sequenza di un videogame al posto di un borbardamento ad un missile lanciato nel Donetsk fatto passare per un attacco a Kiev.
Del resto come amava ripetere il saggio Winston Churchill:

Una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni.