La prima volta che misi piede in una caserma fu qui ed oggi ci sono tornato con il bus 044. Non arrivavo all’altezza della giacca della tua divisa allora. Venire a lavoro con te per tutti quei giorni fece quella caserma casa mia, nei mesi grigi in cui noi bambini di allora ci sentimmo sfollati dopo il terremoto dell’Irpinia.
Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è sempre stata questa riconoscenza che interpretavo a modo mio, indossando il basco e i guanti tuoi dal colore verde militare. Volevo in maniera infantile sentirti addosso. E questo sentirti addosso l’ho avvistato quando da lettore del mio romanzo hai attraversato parte della tua vita su una strada di carta e inchiostro. Per chi fa il mio mestiere non ci sono parole più dense che sentirsi dire di aver scritto quello che da sempre avresti voluto scrivere, rinchiuso a chiave in un cassetto di una caserma tra appunti sparsi.
Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è il declassamento da disadattato alla vita militare rivendicato da me nel declassamento dei legami familiari, nell’esclusione dei parenti e dei loro squilibri mediocri dalla mia quotidianità, perché la vera famiglia è quella che costruisci tu, con le tue mani, giorno dopo giorno, con chi vuoi. Il legame tra me e te va oltre ogni gerarchia ed è stato disegnato in un vissuto e in una presenza costante nei miei confronti di chi ha saputo leggere dentro me le ferite private, racchiuse nel tuo ripetermi “Il tempo cancella tutto e cicatrizza i dolori”.
Le cose che non ci siamo detti mai sono rimaste accovacciate un pomeriggio sul divano alla Castelluccia di San Paolo quando avevamo capito reciprocamente quanto uno zio fosse importante per un nipote così come un nipote per uno zio in una corsia preferenziale: non siamo tutti uguali, nei legami vince chi ama e ricambia di più, è una meravigliosa gara a due che non ci farà evaporare. Oggi che ti sei appisolato ho paura, come in quel pomeriggio, che tu non ti sveglia più. Non c’è tempo per dormire, me lo hai insegnato tu.
Sono a metà di viale dell’Esercito. Due militari mi tengono d’occhio dalla finestra. Indosso la mia divisa civile: giacca e pantalone blu scuro. Mi metto sugli attenti, porto la mano destra con scatto repentino verso la fronte. Ti vedo, sapevo che saresti venuto da me, qui alla Cecchignola.
Tra le cose che non ci siamo detti mai ce n’è una: sei stato il Pasquale più importante della mia vita.
“Io t’ho scoperta stamattina… Roma capoccia, der mondo infame.”
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