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La primavera del copyright su Internet tra rischi e pericoli

Rosario PipoloLa libertà su Internet è un valore sacrosanto ma stiamo attenti a non farla passare per libertinaggio dentro lo slogan abusivo “Musica e film gratis per tutti”. Chi fa la faccia storta alle restrizioni imposte da Agcom sulla violazione del diritto d’autore, tenga a mente questo: non si tratterebbe di una battaglia contro i portatori sani di informazione online, bensì una guerra a viso aperto ai “pirati della rete” che fanno quattrini sul lavoro di altri.

Questa ce la ricorderemo come la “Primavera del copyright su Internet”, perché da oggi 31 marzo scatta il regolamento per cui potremmo vedere oscurare il nostro sito, se usiamo materiale audio e video non autorizzato. Il manifesto si chiama www.ddaonline.it. Se portare in tribunale un pirata scoraggia per i tempi annacquati della burocrazia italiana, non dovrebbe esserlo riempire un form. La nostra segnalazione finirà davanti ad un giudice nel giro di 35 giorni? Staremo a vedere.

Hoster, uploader e pirati finiranno tutti nell’occhio del ciclone e avranno 5 giorni di tempo per correre ai ripari. A questo punto scatta il dubbio: chi stabilisce realmente il confine della violazione del diritto d’autore?
Faccio una dedica musicale in video a mia moglie per il nostro anniversario di matrimonio ed ecco il patatrac. Addio blog, au revoir sito. Regalo all’amico di infanzia una locandina taroccata del film “Ritorno al Futuro” con le nostre facce in ricordo dei bei tempi da teenager. Cosa replico all’Agicom? Mi diletto a ridoppiare una sequenza di un cartone animato in occasione del compleanno di mio figlio. Oscureranno anche il party del pargolo?

Chi fa il mio mestiere dovrà barcamenarsi tra i pericoli che corre sul blog personale e quello della testata giornalistica per cui scrive. Giornalisti e non solo sono accerchiati da una perplessità enorme. Non ha la puzza di conflitto di interessi che la posizione di “arbitro” spetti ad un’autorità amministrativa e non ad un tribunale? Il filo del buonsenso è stato già tagliato in due, soprattutto se la riduzione dei tempi di attesa di giudizio assomiglia all’anticipo della campagna elettorale.

Il sabato del “villaggio” incazzato: Il colle dell’Infinito di Leopardi in pericolo

Rosario PipoloCi sono paesaggi che la letteratura ha consegnato nelle mani dell’immaginario collettivo. Proteggere “l’ermo colle”, immortalato nei versi di L’infinito di Giacomo Leopardi, non è il sussulto di una protesta ambientalista né il desiderio degli stessi studentelli secchioni che imparavano Giacomo a memoria per portarsi a casa un bel voto.

Ripensando al mio viaggio a Recanati nell’estate del 2012, mi interrogo: In Italia siamo un Paese così cialtrone e qualunquista da correre il pericolo di trasformare questo scorcio in una vista abominevole. Scampato il pericolo di un centro commerciale, finiremo a guardare bikini e culi intorno a una piscina, nella cornice di un casolare di campagna.

Al di là delle mobilitazioni social – in primis la raccolta di firme capeggiata dall’edizione online del quotidiano il Messaggero – mi vien da dire come i ministeri della Cultura dei nostri governi passati non si siano posti mai la questione, ovvero difendere quelle zolle di terra che riguardano ciascuno di noi. Se passate a Lecco tra i luoghi di I Promessi Sposi, vi accorgerete degli scempi fatti lungo la visuale dell’abbraccio di un ramo del lago di Como che evoca “L’addio ai monti” manzoniano.

“L’ermo colle” di Leopardi non è né della famiglia del poeta recanatese né di chi vuole costruirci una country house con ombrelloni e sedie a sdraio. Appartiene a tutti noi che, almeno una volta della vita, abbiamo cercato di acchiappare con quei versi l’Infinito. E forse sarebbe più giusto piazzarci un piccolo palco e lasciare ogni santo giorno poeti e cantautori declamare i propri versi. Del resto in pochi ce ne siamo accorti. Giacomo Leopardi ha anticipato lo stile delle ballate musicali dei nostri tempi e oggi sarebbe un inarrivabile paroliere di canzoni.

Il razzismo non ha età: gli USA scarcerano il Glenn Ford “nero” dopo 30 anni

Rosario PipoloL’anonimia con il famoso attore hollywoodiano non ha permesso al nostro Glenn Ford “nero” di sottrarsi alla condanna ingiusta dell’America razzista. Nel 1984, mentre gli USA erano sotto l’imperialismo repubblicano di Ronald Reagan e nelle classifiche musicali padroneggiava Born in the USA di Springsteen, una giuria di soli bianchi condannava Glenn per aver ucciso un gioielliere durante una rapina.

Il suo grido di innocenza non scompose neanche la Casa Bianca, come del resto accade per tanti che scontano una pena ingiusta. Glenn non era presente a quella rapina ma fu mandato dietro le sbarre del Braccio della Morte, l’inferno della prigionia. Nel 1988 rischiò di essere giustiziato e fu salvato per capello da un giudice della Louisiana che volle vederci chiaro nella faccenda.

Dopo 30 anni il signor Ford è stato scarcerato con una pacca sulla spalla e un sacchetto di dollari che mai gli restiuiranno il tempo perduto e la sofferenza patita. Glenn entrò in carcere da papà ed ora esce da nonno e, per una giunta, con una beffa: Barack Obama, un presidente nero alla Casa Bianca.
Cosa racconterà ai suoi nipoti? Che gli Stati Uniti hanno attraversato una buona parte del XX secolo lavandosi la coscienza con il tanfo dei dollari. Tutto sommato le gravi discriminazioni razziali non si concentrano tra gli anni ’50 e i ’70 così come le parabole di Martin Luther King non graffiano solo, come gli spruzzi di bombolette spray, i muri delle coscienze in cancrena.

E forse sarebbe di buon auspicio se Glenn Ford ricevesse un invito dal Presidente degli USA per un pranzo alla Casa Bianca. Un nero che guarda negli occhi un altro nero nella sala ovale del potere, come per dire che l’America di colore non è soltanto quella umiliata nel Braccio della Morte.

Diario di scuola: l’immensità e il prof. di matematica Nello Altavilla in corso Buenos Aires a Milano

Rosario PipoloPasseggiando a tarda sera su corso Buenos Aires a Milano mi ronzava in mente il ritornello de “L’immensità”,  la celebre canzone scritta da Don Backy ed ispirata da una traversata a notte fonda nel corso milanese. Dopo aver canticchiato per alcuni metri “Io son sicuro che in questa grande immensità qualcuno pensa un poco a me e non mi scorderà” mi ritrovo faccia a faccia con un signore settantenne.

Lo riconosco. E’ il professore Nello Altavilla, che nel 1987 mi di disse:  “La matematica non è il tuo mestiere ma mi hanno detto che in italiano vai forte”. Accadde in una scuola media alla periferia di Napoli. Tante generazioni lo hanno avuto come docente di matematica. Nonostante per me fosse un supplente, è rimasto vivo il suo ricordo tra le pagine del mio diario scolastico. Finiamo a mangiare una pizza insieme, ci insoliamo dagli altri commensali.

Il prof. Altavilla trova terreno fertile di fronte a sé – non si accorge del reporter che c’è oltre la corteccia dell’ex allievo tra ricordi scolastici mescolati a quelli dei suoi studi. Li ariamo insieme e germogliano i sogni della generazione degli anni ’50 del secolo scorso, da studente dell’Alessandro Volta di Napoli fino ai giorni in cui andava a caccia di Renato Caccioppoli, il matematico napoletano raccontato magnificamente al cinema da Mario Martone. Il filo della memoria di Altavilla è lucido e il suo umorismo, che evoca quello dell’Alberto Sordi intervistato, colora la nostra conversazione. La memoria di Altavilla raccoglie ciò che ne era della provincia di un tempo, della semplicità perduta, dove anche la goffaggine e la “spavalderia dei vitelloni felliniani” erano in sintonia con quelle del Belpaese in bianco e nero.

Giungo ad una conclusione: la scuola ai tempi in cui ero allievo sedimentava legami speciali tra docenti e alunni. Nonostante sia passata tanta acqua sotto i ponti, troppa forse, il professore veterano fila la lana della confidenzialità con uno dei suoi tanti allievi. Questo per dire che, se ognuno di noi trovasse il coraggio di andare a far visita ad un ex professore in pensione, regaleremmo al nostro interlocutore la gioia di chi non vuole essere trascurato.

Il professore Nello Altavilla non si era accorto di essere finito in un’intervista. E forse un giorno ci ritroveremo a fare una passeggiata sottobraccio, a notte fonda, in corso Buenos Aires a Milano, canticchiando L’immensità. “Sì, io lo so tutta la vita sempre solo non sarò” metterà nero su bianco il legame tra un professore di matematica e un alunno “preso in prestito” in un’altra classe, che in fin dei conti non avevano smesso mai di volersi bene.

In farmacia: il raggiro Novartis-Roche ai danni delle tasche della salute

Rosario PipoloLa buon’anima di nonno Pasquale sbraitò una trentina d’anni fa in una farmacia di Napoli ed io ne fui testimone: “Un giorno le case farmaceutiche ci faranno a pezzetti”. Oggi il nonno non resterebbe stupito se sapesse dello scandalo Avastin, che ha coinvolto l’allegra brigata Roche e Novartis. La notizia fa rumore e finisce spiaccicata ovunque su Google, tanto che si meriterebbe un bel “doodle”.

Morale della favola: colossi farmaceutici pappa e ciccia ai danni di noi consumatori. Con il raggiro truffaldino è stato fatto lo sgambetto a un farmaco di Avastin decisamente “meno costoso” di quello di Lucentis per curare la maculopatia. Basta la multa dell’Antitrust di 180 milioni di euro? Intanto, la Società Oftalmologica Italiana si prende l’applauso per aver fatto aprire l’inchiesta, barcamendosi in un duello in stile Davide e Golia.

Solo in Italia 1 milione di persone corre il rischio brutale di cecità a causa della maculopatia. Se facciamo due conti, un farmaco così caro ha fatto accumulare un bel bottino e al nostro Sistema Sanitario Nazionale è costato più di 45 milioni di euro nel solo 2012. Al di là di come ne uscirà chi siederà sul banco degli imputati, questa potrebbere essere la volta buona per sondare una tangentopoli in campo farmaceutico.

Spesso la marca” vince in farmacia molto più dei principi attivi del farmaco stesso. Nonno, trenta anni fa non avevi scoperto l’acqua calda. Purtroppo il trillo del tuo campanello d’allarme lo sentì solo una farmacista dei Campi Flegrei, per giunta paurosa e alle prime armi.

La grande bellezza, l’Oscar per guardarci intorno

Rosario PipoloLa grande bellezza è la coppia di parole più digitata della rete da stamattina all’alba. Ce ne siamo fregati degli sbadigli del fuso orario pur di sapere se il film di Paolo Sorrentino aveva riconsegnato nelle mani dell’Italia un bell’Oscar.

Ciondolando da un social network all’altro mi è parso di capire che il titolo cinematografico si sia imposto quasi come uno slogan che riguarda ciascuno. È stato come ritrovare una vecchia lente di ingrandimento in un cassetto chiuso a chiave per tornare a guardarci intorno.

La grande bellezza non è lo sguardo cocciuto che rende strabica la nostalgia, nel rimpianto della giostra felliniana che vestiva Roma di sogni ed eleganza. La grande bellezza è piuttosto lo stupore di un Paese che non è soltanto corruzione, mostruosità, rassegnazione. È come se, svegliandoci da un brutto sogno, avessimo messo al guinzaglio l’essere brutti, sporchi e cattivi.

La grande bellezza è nell’arte che popola lo stivale italiano che, quasi come un paradosso, fa andare in frantumi la Pompei archeologica. La grande bellezza è nei sogni discreti di quella minoranza stanca del populismo politico e culturale. La grande bellezza è nelle donne che guerreggiano contro il maschilismo che preferisce un ramo secco al posto della freschezza di una mimosa. La grande bellezza è tra gli impavidi che non ci stanno a vedere il futuro della propria terra crescere sotto il ricatto della diossina e della criminalità. La grande bellezza torna nel palmo della nostra mano, appena stacchiamo la maledetta spina della routine che ci condanna alla distrazione e alla superficialità.

Paolo Sorrentino non ha regalato all’Italia una pregiata statuetta ma uno spunto per tornare ad arare il campo della grande bellezza di cui vorremo parlare. L’euforia passeggera di un trionfo può lasciarci addosso la paura di perderci nel buio; un film che ci fa dondolare come su un’amaca può sottrarci al terrore di guardarci intorno.
E in questo momento ne avevamo davvero bisogno.

Tutto il resto è noia: via in fretta da Sanremo 2014 senza né vinti né vincitori

Rosario PipoloAbbiamo smaltito già il colpo basso del televoto del Festival di Sanremo. Neanche più ci ricordiamo chi è arrivato in cima all’Ariston. Non ricordiamo né vinti né vincitori di questo Sanremo 2014, riflesso del Belpaese in una pozzanghera che vorrebbe sotterrare “contro vento” la musica sotto la melma.

Dimenticheremo in fretta le canzoni dei Big – che poi BIG non sono stati – nonostante Spotify e Deezer si facciamo la guerra ai tempi della “musica liquefatta” e isolino la singola canzone dalle compilation sanremesi a cui eravamo abituati ai tempi di cd e vinile.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Sanremo che si è ostinato a cercare la bellezza tra la puzza dei vagoni della cronaca, della storia televisiva del Servizio Pubblico, negli sketch noiosi che scimmiottavano i bei tempi del varietà.

“Grazie dei fior” che non abbiamo ricevuto perché anche le rose e le margherite sanremesi sono state epurate dal Festival così come le canzoni che non hanno avuto tempi e spazi giusti. Siamo un paese governato dal giovanilismo di cartone politico e poi all’Ariston i giovani vedono un microfono dopo mezzanotte. Per fortuna le Nuove Proposte hanno energia e spaccano lo schermo.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Festival di Sanremo. A far rimbalzare questa volontaria smemoratezza ci sono un inatteso flashmob musicale, la triste notizia della scomparsa del “Grande Joe” del Banco o la poetica ninna nanna di un songwriter americano convertito all’Islam. Salviamo almeno queste tre polaroid.

Dimenticheremo in fretta il rapper, che ha rivestito “la terra dei fuochi” di “terra del sole”, se nel giro di qualche anno il suo pubblico lo trasformerà da ranocchio nel bel principe dei “neomelodici”.
Dimenticheremo in fretta il buonismo o l’acidità social che gironzola sui tacchi a spillo nei giorni festivalieri. Tanti sono convinti che per giudicare una canzone basta essere ciò che non siamo.

Non ci resta che piangere? No, perché Sanremo è Sanremo. E se tutto il resto è noia? Ci siamo fregati con le nostre stesse mani, perché non c’è Franco Califano a cantarci il refrain.

Scrivere per 20 anni: dai primi passi con Domenico Di Meglio allo slogan “Vai da Spoto, lui ti salverà!”

Rosario PipoloIl 18 febbraio 1994 arrivai di buon mattino all’edicola del molo Beverello di Napoli. Acquistai la copia del quotidiano Il Golfo e vi trovai il mio primo articolo. Mi fece effetto vedere un pezzo firmato da me che primeggiava nella pagina Cultura e Spettacolo. Si trattava di un’intervista a Milva, rilasciatami in un camerino del teatro Diana di Napoli, che avevo battuto con una Olivetti Lettera 35 fregata a mia sorella.

Cominciò proprio vent’anni fa un’avventura che, oltre a divenire una professione, mi ha procurato il beneficio di conoscere tanta gente, viaggiare, acuire lo spirito di osservazione. Domenico Di Meglio, il compianto direttore ischitano che aveva seguito i miei primi passi, continuava a ripetermi: “Se vuoi sopravvivere in questa giungla, vuoi capirlo che devi occuparti di cronaca e lasciar perdere musica, teatro e cinema?”. Si rassegnò quando, alcuni anni dopo, ricevetti una lettera da Milano firmata da Ugo Ronfani, che mi ammetteva nell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Ero tra i più giovani in Italia.

Oggi i ricordi si affollano, si attorcigliano, mi abbracciano in un lungo flashback. Quella notte a sbobinare l’intervista, il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere, la compagnia del fedele registratore a cassette, l’arrivo a casa con la copia del giornale. Nonna Lucia era in cucina a preparare la cena. Mi chiese di leggerglielo ad alta voce. Mi diede una carezza e poi, qualche anno dopo, prima di andarsene via mi strinse la mano, sussurrandomi con l’ultimo filo di voce: “Te la caverai sempre. Stringi i denti e va’ per la tua strada”.

Oggi, proprio come allora, torno nelle edicole del golfo di Napoli. Esce a mia firma su “Il Dispari”, il quotidiano che ha ereditato la lezione del giornalismo di Di Meglio, un mio contributo che racconta i primi passi e come finii “naufrago” sull’isola di Ischia. La mia crescita proseguì nelle grandi redazioni, dove continuai ad imparare il mestiere, mettendo sempre avanti la passione per superare le difficoltà di una professione in continua trasformazione.

Prima del trasferimento a Milano, che segnò il trasloco dalla carta stampata al digitale, mi trovai per le strade di Roma a rovistare per il futuro. Da figlio di un operaio e di una casalinga non ho mai avuto “santi in Paradiso”, ma angeli custodi sì. Quel pomeriggio nella Capitale mi dissero: “Vai da Spoto al Messaggero, lui ti salverà. E’ generoso, viene dalla gavetta, si è fatto da sé e crede nei giovani”. Salvatore Spoto era un noto cronista del quotidiano romano. Ed io: “Cosa vuoi che farà con uno come me che scrive di spettacolo?”.
Ero demoralizzato. Non andai in via del Tritone. Avevo in tasca pochi spiccioli. Non bastavano neanche per una corsa in autobus. Mi infilai sul primo treno, ripartii con l’amarezza di non esserci stato.

Oggi, in occasione di una ricorrenza speciale, busso alla porta del celebre cronista di Roma che, senza saperlo, è stato l’angelo custode dei miei sogni in questi lunghi anni. Sono legittimi. Appartengono al ragazzo di periferia di ieri che, nonostante i capelli brizzolati, non ha perso la passione e l’entusiasmo necessari per andare incontro alle sfide del futuro. Aspettando il 18 febbraio, torno a battere sulla macchina da scrivere Olivetti 35 il testamento che mi lasciò il mio direttore Domenico Di Meglio: “Guagliò, sei cresciuto ormai. Continua a camminare con le tue gambe”.

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Vent’anni di interviste nel backstage della memoria, da Dustin Hoffman a Annie Lennox

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Quando su Linkedin e Twitter vogliamo passare per ciò che non siamo

Rosario Pipolo“Strateghi del digitale”, “social media manager”, “giornalisti enogastronomici”, “creativi”, “guru P.R.”, “fashion blogger” sono soltanto alcuni termini di cui abusiamo ogni santo giorno. Tutti siamo o abbiamo l’arroganza di sapere far tutto, soprattutto nel campo dell’intrattenimento e della comunicazione digitale. Insomma, mentre per fare il meccanico, l’idraulico o il fresatore occorre essere specializzati, basta mettere il naso tra Linkedin e Twitter per capire che l’illusione di massa può essere vista così: tutto sommato ci sono delle professioni che possiamo inventarci dall’oggi al domani e la sindrome del “tuttologo” imperversa. Prendi l’arte e mettila da parte? No, mi invento una posizione lavorativa extra-large.

E così l’impiegata strozzata dalla routine vorrebbe farsi passare per mente creativa; il bancario in prepensionamento, da “buona forchetta” che era a casa di mammà, (s)vende frustrazioni improvvisandosi giornalista enogastronomico; il piazzista del paese mette giù il megafono da “arrotino” e fa le digital P.R.; l’infermiera, dopo una vita nelle corsie degli ospedali, apre un bel blog e diventa stellina fashion tra i cosmetici che vendeva sottobanco per arrotondare lo stipendio.

Chissà quante risate si fanno quelli delle Risorse Umane sbirciando tra i profili e quanti mal di pancia diventano incurabili per le medie e grandi aziende quando scambiano piccole botteghe a gestione familiare per startup. Ah, ci fossero le vecchie botteghe di una volta, abitate dal mastro che conosceva il suo mestiere!

Finita l’epoca dei maxi bigliettini da visita, affollati di titoli e mansioni, comincia quella dell’about us nella giungla confusionaria dei social network. Le job title bizzarre durano il tempo di una stagione, perché a confermare la professionalità sono la storia e l’esperienza che ognuno di noi si ritrova alle spalle. A ciascuno il suo… mestiere!

L’alluvione di Modena e la barzelletta delle “nutrie”

Rosario PipoloPer quelli come noi cresciuti ad ascoltare i Modena City Rumblers e ad incollare figurine Panini, Modena è la città che vorremmo continuare a vivere senza l’opportunismo tipico di chi è di passaggio. “Per sempre, Modena”, brindò un anziano signore in una vecchia osteria modenese in uno dei miei vagabondaggi nella città emiliana.

Se non fosse per l’occhio vigile dei social network, nessuno ci racconterebbe l’altra Modena: quella travolta dal fango di queste ore dell’alluvione di cui si sa davvero poco. Convivere con un fiume è complicato e le urla del Secchia i modenesi le conoscono bene così come i piacentini quelle del Po.

Siamo all’ennesima ripetizione. L’Italia non è un paese di “prevenzione”, non lo è mai stato e non riesce ad esserlo oggi in cui le casse degli enti locali si svuotano per “i rimborsi truccati” di qualche scellarato che collezione scontrini di carta igienica e albi a fumetti. Mentre chi ci governa è indaffarato a rimescolare le carte della legge elettorale in prossimità dell’elezioni, diamo la colpa alle “nutrie” e così la piccola tragedia si riduce ad una barzelletta. A proposito, i nostri politici sanno cosa sono le nutrie?

Ieri l’hashtag su twitter era #AllertaMeteoSAR, oggi è #AlluvioneMO. Domani a chi toccherà? Non ne possiamo più dei soliti omogeneizzati e qui non si tratta di essere ambientalisti o no. Il titolo dell’ultimo album dei Modena City Rumblers sembra quasi profetico: Niente di nuovo sul fronte occidentale!