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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Freddie Mercury, 30 anni senza The Great Pretender

È come se oggi fosse ieri, the day after il 24 novembre 1991 all’entrata di un liceo di periferia, un fottutissimo lunedì accompagnato dallo scazzo di inizio settimana, poco dopo le 8 del mattino il titolo sul giornale “È morto Freddie Mercury”. Il Mattino di Napoli da Giacomo e Alessandro passò nelle mie mani, poi in quelle di Lilli, Annamaria, Sara, Valeria e Cinzia, infine in quelle di Tiziano, Rachele, Claudio, Gennaro, Loredana, Tiziana. Noi compagni di classe, prima che la maledetta campanella ci mandasse alla gogna delle interrogazioni da maturandi, ci guardammo negli occhi come per dire non è possibile che la “Regina dei Queen” se ne fosse andata così.

FREDDIE, URLO DI LIBERAZIONE

Prima ancora dei cortei Arcobaleno, prima ancora che il coming out mandasse alla deriva il neologismo che era in lui, prima ancora che le lobby dei gay facessero a scazzottate ai piani alti del potere, Freddie Mercury ha fatto della sua omosessualità un autentico urlo di liberazione, mandando a fanculo ipocrisie, vessilli perbenisti.
Si è rinchiuso e si è aperto sullo scivolo delle fragilità di essere umano. Il suo alter ego di sangue parsi, Farrokh Bulsara, ha fatto di tutto per fuggire dal ghetto a cui erano destinati i figli degli immigrati indiani nei sobborghi londinesi degli anni ’70.

FREDDIE E LONDRA, IL VICINO DI CASA CHE VORREMMO

Quando ho messo piede a Londra nell’estate del 1988 – non avevo compiuto ancora quindici anni e mi sembrava di essere sbarcato sulla luna – Freddie non aveva rivelato di essere ammalato di AIDS, la brutta bestia degli anni del riflusso.
Per tutti noi che passavamo lì, la voce di Bohemian Rapsody poteve diventare da un momento all’altro il vicino di casa stravagante ed eccentrico che tutti abbiamo sognato di avere una volta della vita. Me lo hanno confermato anni dopo i suoi vicini di Kensington, quando la casa di Freddie Mercury si trasformò in meta di pellegrinaggi furibondi.

1991-2021, GLI DEI DELLA MUSICA SFIDANO L’ETERNITÀ

Trent’anni senza Freddie Mercury rappresentano un incolmabile vuoto nella traviata scena musicale contemporanea: l’indiscusso leader dei Queen è stato una delle vocalità più intense del XX secolo, artista poliedrico, compositore da sterzate imprevedibili, impareggiabile animale da palcoscenico – pure Geldof ha dovuto ammettere che la sua esibizione a Wembely del 1985 ha fatto balzare in cima la raccolta fondi del Live Aid. Quando nel 2005 al Forum di Assago Brian May grattuggiò la chitarra per rendere omaggio all’amico, al musicista, al compagno di sventure, anche noi della stampa accreditata dovemmo riconoscere il legame trascendentale tra i Queen rimasti e Freddie Mercury, The Great Pretender, perché gli dei della musica sfidano l’eternità.

Oggi 24 novembre, trent’anni dopo, The Show Must Go On e non c’è regina che tenga neanche a Buckingham Palace. L’unica “Regina” indimenticata ed eletta dal popolo resta Freddie Mercury, a cui dedichiamo un soffio del cuore della sua ballata Love of My Life.

STILL LOVE YOU.

Gli 80 anni di don Peppino Gambardella, prete ribelle e filosofo delle periferie

Un compleanno speciale racconta in 80 candeline la luce diffusa da un prete di frontiera per la sua comunità. Giuseppe Gambardella, noto a tutti nella sua Pomigliano D’Arco come don Peppino, nel giorno del suo ottantesimo compleanno viene riconosciuto patrimonio della comunità.
Originario di Visciano, nel fazzoletto di terra del nolano di Giordano Bruno, don Peppino ha messo il suo sacerdozio al servizio della periferia di Napoli, diventando il simbolo delle lotte a fianco di operai, emerginati, senzatetto e dei tanti bambini e ragazzi abbandonati a sé stessi a cui aprì le porte della sua Casa Famiglia a loro dedicata.

Seminario di Nola (Na), 1981 (Archivio Privato)

DON CAMILLO ALLA PERIFERIA DI NAPOLI

I miei studi e la sua formazione in filosofia si incrociarono di sbieco e saltuariamente negli anni del liceo ma poi lo persi di vista per ritrovarlo miracolosamente anni dopo. Dico “miracolosamente” perché la mia generazione ha visto frantumarsi i suoi punti di riferimento nel tempo della sopraffazione della contemporaneità tra individualismo, competizione, rincorsa sfrenata verso il futuro.

Terme di Castellammare di Stabia (Na), 1970 (Archivio Privato)

Giuseppe Gambardella è stato l’autentico don Camillo della periferia di Napoli, in simbiosi con il personaggio delle pagine di Guareschi e con le sequenze del piccolo gioiello cinematografico di Duvivier: testardo, impavido, sfrontato, intelligente, umano come il parroco di Brescello nella sfida con “il don Peppone di turno”, che nella sua arroganza da primo cittadino si illudeva di tenere in pugno tutta la comunità accecato dalle schede elettorali e non dalla luce di Dio.

Loppiano, Città dei Focolari (1971) (Archivio Privato)

SACERDOTI PRONTI A DARE LA VITA PER TUTTI

Gambardella ha attraversato il Novecento tenendo a mente le parole di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari a cui aveva aderito fin dagli anni ’60: “Una Chiesa arricchita di sacerdoti-Cristo, sacerdoti-vittime per l’umanità; autentici Cristo, pronti a dare la vita per tutti.”
Il parroco di San Felice in Pincis non si è lasciato illudere dal boom industriale che contagiò il suo territorio alla fine degli anni ’70, tenendo un occhio di riguardo per gli ultimi. Il digiuno a fianco degli operai dello stabilimento dell’ex FIAT di Pomigliano D’Arco negli anni bui della globalizzazione mi ha spalancato un portone di riflessioni, ispirando il sacerdote del mio romanzo L’ultima neve alla masseria. Durante un reading alla Malzfabrik di Berlino ho spiegato che il mio Francesco Giuseppe Gambardino omaggiava un parroco italiano della provincia di Napoli:

Il gesto di Francesco Giuseppe Gambardino fece ripartire parte della produzione, seppure a singhiozzo. Da quel giorno al mio paese si dice che molti operai, al mattino, abbiamo preso l’abitudine di farsi il segno della croce prima di mettere mano sulla catena di montaggio (…)

Potenza, 1970 (Archivio Privato)

IN QUESTA GRANDE IMMENSITA’…

Don Peppino Gambardella è stato un punto di riferimento per tante generazioni, compresi i laici come il sottoscritto. Ciascuno ha intravisto nel cuore del “parroco operaio” di San Felice in Pincis un interlocutore sempre a passo con i tempi tra spiritualità e dialogo, incluso l’uso intelligente dei social media per tenere i contatti con chi vive lontano. Mi tornano in mente le parole del miscredente, amico dei tre pastorelli di Fatima, che rilasciò ai miei colleghi cronisti del tempo, dopo il prodigio in Portogallo, questa dichiarazione: “Solo gli sciocchi continuano a sostenere che Dio non esista”.
In questo 12 ottobre passeggio per una Milano soleggiata e mi sembra di sentire le voci della mamma e della cara sorella di Giuseppe Gambardella, scomparse in giovane età in un incidente stradale, che da lassù sussurrano: “Peppino, Peppino, siamo fiere di te e ti siamo sempre accanto, anche in questo giorno speciale”.

Come biglietto d’auguri ho scelto questa strofa di una canzone a me particolarmente cara, L’immensità di Don Backy, che condensa molto dell’esistenza di ciascuno, anche del don Peppino che tutti abbiamo conosciuto almeno una volta nella vita:

Sì, io lo so

Tutta la vita sempre solo non sarò

E un giorno io saprò

D’essere un piccolo pensiero

Nella più grande immensità

Del suo cielo.

Elezioni amministrative 2021: the winner is… l’astensionismo!

In queste elezioni amministrative 2021 il vero vincitore è l’astensionismo, punto. “Se in politica bastassero i numeri, i matematici governerebbero il mondo”. Storcendo una parola in questa citazione dell’attore irlandese Aidan Gillen, pare che la nostra classe politica legga i numeri in soggettiva.

VOTARE SU COSA MANGIARE PER CENA

L’astensionismo al 50% è una sconfitta marcata per la politica italiana. Quando a livello locale, nella realtà in cui viviamo, c’è svogliatezza, mettiamo in subbuglio il nostro senso civico, il nostro sacrosanto potere di scelta.
Votare non è soltanto un dovere perché, come ci ricorda l’editorialista americano James Bovard, “la democrazia deve essere qualcosa in più di due lupi e una pecora che votano su cosa mangiare per cena.”

DALLA CONTA AL PESO DEL VOTO

E qui non è questione soltanto di appeal del candidato Sindaco: legittimo è puntare il dito su quei comuni medi o grandi dove sono stati messi in pole position candidati perdenti già a tavolino.
A far scattare oblio e disinteresse sono i programmi elettorali annegati negli slogan o il teatrino fatto di fango gettato addosso all’avversario, di volgarità straripante lungo le strettoie dei social network che non trasformamo le montagnette di like in concrete preferenze elettorali?
Se cambiassimo l’unità di misura del voto in peso, lasciandoci alle spalle la semplice contatina delle schede elettorali, forse avremmo una prospettiva diversa.

Vinti o vincitori, non saranno di certo soltanto i ballottaggi ad aprirci nuovi orizzonti. Per dirla come uno scrittore d’oltralpe, resta soltanto un’azione peggiore del toglierci il diritto di voto: sottrarci la voglia di votare e lasciarci crepare nel limbo dell’astensionismo.

Back to School: Lorenzo Rocci meritava di più!

Lorenzo Rocci, grecista e lessicografo, noto a tutti come il papà del più completo e famoso dizionario Greco-Italiano, era nato nello stesso fazzoletto di terra di Lucio Battisti. Tra la Fara in Sabina dell’erudito e la Poggio Bustone del cantautore ci sono una cinquantina di chilometri in auto.
Entrambi i paesi della provincia di Rieti si sono sforzati di omaggiare i loro concittadini illustri e, in fin dei conti, a Battisti è andata meglio di Rocci perché a pochi anni dalla scomparsa ha ricevuto il monumento in paese.
Il povero Rocci ha dovuto penare un po’, a settant’anni dalla scomparsa con l’aggiunta di uno slittamento per la pandemia, ha finalmente avuto una scultura in bronzo che guarda al suo liceo a Fara in Sabina.

IL ROCCI TRA I RICORDI DI NOI LICEALI

L’Italia è un Paese di smemorati e così uno dei più grandi grecisti d’Europa deve mendicare memoria collettiva? Per i liceali della mia generazione, il Rocci era il dizionario voluminoso che i nostri genitori ci avevano comprato con sacrificio. Ricordo la sera d’autunno del 1987 in cui papà, ancora con la tuta da lavoro, tornò da una libreria con il tomo gigante. Un salasso, aveva tirato fuori più di 100.000 delle vecchie lire.
Si sa che le mie frequentazioni ai tempi erano già anglofone e restavo attaccato alla gonnella di Shakespeare, ma ogni volta che predevo 5 ad una versione di greco mi sentivo in colpa. Eppure il dizionario Rocci è rimasto un monumento immacolato nel mio archivio e, anche quado è sbucata la moda di vendere i vecchi vocabolari di greco e latino, io ho detto no. Non è stato un atto di sentimentalismo verso i giorni spensierati del liceo, quanto la lucida consapevolezza del valore dell’opera omnia del gesuita di Fara in Sabina.

ALTOLÀ, QUALE STRUMENTO DI TRADUZIONE?

Dopotutto neanche la generazione dei miei professori è stata all’altezza di onorare la memoria di Lorenzo Rocci, magari dedicandogli una giornata di lezione monotematica per trasmettere a noi studenti di allora il valore della sua opera. Indaffarati a riempire registri, portare avanti programmi ministeriali, inciampare nello sterile nozionismo, ci hanno fato credere che IL Rocci fosse esclusivamente uno strumento di traduzione.
Perché Lorenzo Rocci avrebbe meritato di più in questi settant’anni dalla sua scomparsa? Perché quel dizionario è un compendio di storia, patrimonio dell’umanità compilato da un gesuita con certosina maestria.
Il dizionario Greco-Italiano, edito dalla Società Dante Alighieri, non è stato l’effimera compilazione di schedine, ma un’opera all’avanguardia che ha registrato con puntuale meticolosità l’evoluzione del greco antico, sgattaiolando tra le evoluzioni linguistiche sotto le varie dominazioni, inclusa quella bizantina.

LE NOSTRE SCUSE A PADRE ROCCI

Altro che eBook, ogni pagina del buon vecchio Rocci profuma di storia e ci mette, ahimé, di fronte a una dolorosa presa di coscienza: l’involuzione e l’imbarbarimento linguistico che serpeggia nel ping pong quotidiano di Whatsapp. Chiedere scusa a Padre Rocci per non averlo riconosciuto abbastanza? Perché no, canterebbe il suo conterraneo Battisti.
Al di là degli allori istituzionali – quelli lasciano il tempo che trovano – basterebbe che ogni studente di oggi, di ieri o dell’altroieri mettesse aperto sul davanzale della finestra il suo dizionario e lasciasse che il fruscio del vento sfogliasse le pagine come fossero un memento.

Sarebbe un modo “romantico” per ribadire: “Scusaci, Lorenzo Rocci. Meritavi di più!

Lo Sport ci salverà

Mentre la politica italiana gioca a dadi in vista delle prossime amministrative e i No Vax fanno rumore per nulla, c’è un’immagine che ci rassicura in quello che si prospetta un’autunno caldo tra le insidie del filo spinato post-pandemia: i pallavolisti italiani che balzano da campioni sul tetto d’Europa. Lo Sport ci salverà dalle acque torbide dell’incertezza?

LO SPORT CI SALVERÀ

Per una volta non è la malattia del calcio – chapeau alla Nazionale di Mancini che ci ha regalato un’estate azzurra – o il campanilismo all’italiana del campionato ad oscurare il resto. Si tratta dello Sport con la “Esse” maiuscola, che spesso e volentieri nella vecchia tv generalista dovevamo andare a cercare da nottambuli: è scoprire l’acqua calda se ribadiamo che il pallone è re dei botteghini e degli ascolti televisivi.

FRAGRANZA

Di questi sportivi campioni, mi ha colpito la fragranza, negli occhi accesi dei pallavolisti, nel campione azzurro in lacrime che si scusa con la fidanzata per averla trascurata o la dedica alla sua piccina, nell’abbraccio lungo di Valentina (Rodini) e Federica (Cesarini), canoiste Oro alle Olimpiadi di Tokyo. Un profumo autentico che va controcorrente rispetto alla contraffazioni di oggigiorno.

RADICI

Mi hanno emozionato Myriam (Sylla) e Paola (Egonu), le due azzurre che hanno riportato il Volley femminile nell’olimpo degli dei e la cui italianità ha radici lontane: la prima figlia della Costa D’Avorio, la seconda della Nigeria.
La mia generazione è figlia di emigranti dal Sud Italia, chi più chi meno, e tanti campioni sportivi di oggi sono l’espressività della nuova Italia meticcia che raccoglie nella multietnicità extra-europea i germogli del futuro.

DISABILITÀ

La montagna di medaglie azzurre collezionate alle Paralimpiadi di Tokyo ha dimostrato che lo sport è un grande motore per combattere la sedentarietà della disabilità e agevolare l’integrazione sociale.
L’Oro di Ambra (Sabatini) nell’atletica, l’Argento di Stefano (Raimondi) nel nuoto, il Bronzo di Federico (Mancarella) nella canoa, l’Argento di Vincenza (Petrilli) nel tiro con l’arco o l’oro record mondiale di Antonio (Fantin) nel nuoto hanno tratteggiato con l’evidenziatore un bel pensiero dell’ex giocatore di baseball Jim Abott: Non è la disabilità che ti definisce, ma il modo in cui affronti le sfide che la disabilità ti presenta.

ANTIDIVISMO

Matteo (Berrettini) con la sua racchetta in finale sul prestigioso campo di Wimbledon ha restituito dignità all’individualismo sportivo del tennis, chiarendo che si può restare sé stessi anche nelle imprese più ardue dando un calcio in culo al divismo. Cosa dire del Matteo sobrio davanti al Presidente del Consiglio, al ritorno da Londra insieme alla Nazionale di Mancini?
Lui, senza allori sulla testa, è stato un bell’esempio per tutta la classe dei suoi coetanei ventenni, annegati spesso nel divismo di cartone a tutto social.

TRASFORMISMO

Lo Sport ci salverà? Sì, questo Sport e i suoi campioni autentici ci salveranno dal trasformismo canonico che invade ogni angolo delle nostre vite terrene, spingendoci su una zattera lontano dai Tale e Quale Show e Grandi Fratelli Vip televisivi, dall’insulso camaleontismo politico che si aggrappa all’ultimo Green Pass, dalle scorregge social che puzzano a seconda del giro di boa.
Il trasformismo cronico non ci mancherà finché sbatteremo contro un muro di parole come queste di Alex Zanardi:

Quando mi sono risvegliato senza gambe

ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa.

L’Inghilterra della Brexit battuta ai rigori dall’Italia europeista

Questa di Italia-Inghilterra, finale degli Europei 2020, resterà la partita di calcio “più politica” degli ultimi 39 anni. Non è sicuramente l’11 luglio del 1982 della Nazionale di Bearzot campione del mondo in Spagna, ma è l’11 luglio del visionario Mancini e dei suoi ragazzi che hanno castigato gli inglesi nel tempio di Wembley.

L’Inghilterra, dopo aver alzato la cortina di ferro della Brexit, è stata beffeggiata dall’Europa di Ursula von der Leyens sul campo di calcio dove Freddie Mercury cantò The Show Must Go On.
Per noi anglofoni che tradimmo Dante per convertirci a Shakespeare fino alla morte e, dalla fine degli anni ’80, facemmo dell’Inghilterra la nostra seconda patria per viaggio, studio e non solo, ora è il momento di fare un passo indietro: chi osa riconoscersi più nella terra cafona di Boris Johnson tra rampolli di Tory ammuffiti, visioni antiquate delle economie dei dazi, obblighi di visti e passaporti anche per noi italiani dal sudore emigrante?

Non sarà di certo una partita di calcio a cambiare le regole del gioco, ma glorifichiamo la compostezza “democristiana” del nostro Presidente Mattarella – che non è l’esuberanza del partigiano socialista Pertini alla finale di Italia-Germania dell’11 luglio dell’82 – e spazziamo via la muffa dei nuovi influencer Reali di Buckingham Palace William e Kate, le puzzette di baby George, le racchettate di merda d’oltreoceano del debole Harry e dell’arrivista Meghan.

L’11 luglio ci porta bene e, grazie alla promozione degli Azzurri di Mancini a Campioni d’Europa, ci togliamo il sassolino dalla scarpa mentre torna a suonare un vecchio disco di Bennato e della Nannini tra “il vento che accarezza le bandiere e sciogli in un abbraccio la follia”.
Winston Churchill, sbuffando l’inseparabile sigaro da Primo Ministro del Regno Unito, amava ripetere:

Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.

Dopo quasi un secolo smentirlo su un campo di calcio equivale a dare una paccata sulla spalla alla storia, canticchiando con orgoglio nazionalista, spesso sbiadito dalla nostra antipatica esterofilia:

Notti magiche
inseguendo un goal
sotto il cielo
di un’estate italiana

e negli occhi tuoi
voglia di vincere
un’estate
un’avventura in più.

Notturno per Raffaella

Nella primavera del 1978 a casa mia arrivò il primo televisore a colori, un Voxon di 30 pollici a 8 canali. Lo inaugurammo con la Raffaella Carrà del sabato sera. In quel periodo erano venuti a stare da noi i nonni Pasquale e Lucia e condividevamo la nostra stanza con loro, ricompensati da tante coccole.
Stavo per chiudere il ciclo dell’asilo e a un bambino, che contava l’età sulle dita di una mano, non era concesso stare sveglio fino a tardi. La Carrà di Ma che sera sul primo canale Rai era un’eccezione per me, anche perché impazzivo per la sigla iniziale.

Com’è bello far l’amore da Trieste in giù

Com’è bello far l’amore io son pronta e tu

Tanti auguri

A chi tanti amanti ha

Mentre l’Italia bigotta storceva il naso per il testo provocatorio della celebre Tanti Auguri, un bimbo in pigiama alla periferia di Napoli saltellava sul letto mentre Raffaella faceva la contorsionista intorno alla torre di Pisa, cantando l’emancipazione scambiata dai rampolli democristiani per tabù.

Ballo, ballo, ballo da capogiro

Ballo, ballo, ballo senza respiro

Ballo, ballo, ballo m’invento un passo

Notturno per Raffaella è inchiostro dipanato nella memoria che, prima ancora di essere collettiva, è spudoratamente individuale. Poi la conta dei fagioli dal salotto televisivo di Pronto Raffaella ci aveva spinti fuori dal tunnel degli anni ’80 come quando ci sputano fuori dall’utero materno: il disincanto arrivò appena la nostra Raffaella nazionale sparì dalla tv per essere ceduta all’estero.

Viene fuori una biondina (che dolor, che dolor)
Che era nell’armadio (che dolor, che dolor)
Viene fuori una biondina (che dolor, che dolor)
Che era nell’armadio (che dolor, che dolor)

Notturno per Raffaella è un tuca tuca in mezzo alle stelle comete tra i giganti che sono adati via e il presente orfano di eredi, sul galleggiante della volgarità e del voler apparire a qualsiasi costo. La pena arriva quando da una finestra di TikTok sbuca l’ennesimo ammiccamento. Raccontate allo zimbello dei social che la sua goffa torsione non sarà mai ballo come quello inventato e reinventato dalla Carrà.

Chissa’ se va’
se va’
ma si che va’
ma si che va’
ma si che va’
che va’
e se va’ se va’ se va’
tutto cambiera’
forza ragazzi spazzola
e chi mi fermera’…

Notturno per Raffaella non è un fuori onda di Carramba che sorpresa, ma un elogio silente a ridosso di mezzanotte per una donna di carattere e talento che, fuori dalle mareggiate ideologiche e di potere politico, è stata sorella, mamma, nonna sincera di tutti noi negli ultimi sessant’anni di storia italiana.
La femminilità di Raffaella Carrà ha schiaffeggiato il becero maschilismo, incluso quello dei piani alti di via Teulada, di viale Mazzini, della RAI tra le quinte della lottizzazione.

Lo so che nell’amore
C’è chi vince e c’è chi perde
E stasera ho perso te.

Oggi si è spenta la televisione, per sempre.

WhatsApp e i legami affettivi tra ruggine e artificialità

Nel mondo oltre 3 miliardi di persone smanettano su app di messaggistica. Il Covid-19 ha contribuito al rialzo pazzesco di piattaforme come WhatsApp che solo in Italia nel 2020 è stata usata da 33 milioni di utenti (Fonte: Audiweb-Nielsen). Quanti utilizzano WhatsApp per tenere in caldo un legame affettivo, un’amicizia, non so una conoscenza?

LEGAMI TRA AUDIO FARFUGLIATI E CATENE DI SANT’ANTONIO

Il distanziamento sociale della pandemia ci ha impoltroniti e, cavalcando l’onda di quella stizzinosa indolenza, ci siamo tirati la zappa sui piedi: ridurre i legami affettivi a uno scambio di messaggi estemporanei, audio farfugliati, catene di sant’antonio che il più delle volte pisciano umorismo insulso, rimbalzi di foto come le noccioline che davamo in pasto agli scimpanzè allo zoo negli anni dell’infanzia.

SCIMMIOTTIAMO LA GENERAZIONE ALPHA DEI NOSTRI FIGLI

Ci siamo impigriti nelle relazioni e pensiamo che il gruppo su WhatsApp ci abbia messi al riparo dal vedere in cocci quei legami su cui pensavamo di campare di rendita. Scimmiottiamo la generazione Alpha dei nostri figli, apprendista stregone di contatti tutto sommato artificiali.
Infatti, le generazioni nate sotto l’ombrello della messaggistica istantanea sono stati svezzati da genitori che comunicavano con gli altri abbrozzandosi con la luce artificiale dello schermo di uno smartphone spiattellato in faccia.

VIA IL BUONISMO CHE ASSECONDA COMPAGNIE DA WHATSAPP

Quelli della mia generazione sono cresciuti sotto un’altra luce, il sorriso illuminante di quando papà e mamma trovavano il tempo per frequentare le persone a cui tenevano, coltivare i legami, affrontare la vita con una condivisione costruttiva che si ripercuoteva anche sulla nostra vita sociale.
Si generalizza dando sempre la colpa ai cambiamenti sociali, alla routine supersonica che ci stritola come sardine, al tempo che non è mai abbastanza, come se poi non fossimo noi i padroni del nostro tempo.  Basta con questo buonismo ipocrita che specula sui sentimenti e riprendiamoci un pizzico di vena polemica per vedere le cose come stanno: le minacce della solitudine dopo l’autoconvincimento che l’intensità delle nostre amicizie via WhatsApp sia direttamente proporzionale alla crescita delle visualizzazioni dei nostri stati.

Nei legami non esistono diritti acquisiti o tramandati. Non era chiaro neanche ai parenti che reclamavano attenzioni e considerazioni sula base di quest’ultimi. Parafrasando Kingsmill che ripeteva “Gli amici sono il modo in cui Dio chiede scusa per i parenti”, potremmo chiudere il cerchio così: I legami arrugginiti via Whatsapp sono il modo in cui siamo ingrati verso Dio per averci donato amici veri.

Torniamo ad essere costruttori di legami autentici.

L’insolenza di Rino Gaetano contro le lobby 40 anni dopo

Gli anniversari servono a poco se finiscono seppelliti sotto le onde emotive. A quarant’anni dalla scomparsa prematura – me lo ricordo quel 2 giugno 1981Rino Gaetano e le sue canzoni insolenti sono ancora attuali. Nella sua discografia, strizzata in soli 6 album in studio, c’è un fil rouge: l’essenza antilobbista del Rino di allora che oggi torna a scottare. Come le canterebbe le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati?

LA MIA FIDANZATA DELL’INFANZIA: GIANNA CON UN COCCODRILLO

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano. Mia mamma fu convocata all’asilo perché raccontavo ai miei compagni della mia fidanzata “Gianna che aveva un coccodrillo”. Nel 1978, da un televisore in bianco e nero sul frigo della nostra cucina, rimasi stregato dall’anarchico Rino Gaetano sul palco del Festival di Sanremo.
Tutti i pomeriggi, su un balcone alla periferia di Napoli, stonavo Gianna e il manico di scopa fregato a mamma faceva da microfono.

Rino diceva che “Ci sono persone pagate per dare notizie, altre per tenerle nascoste, altre per falsarle“. In Italia erano gli anni bui del terrorismo, alla periferia di Napoli della Nuova Camorra Organizzata cutoliana. Io cantavo Gianna alla ringhiera e, a pochi metri in linea d’aria, lo struscio locale mischiato alla politica losca rendeva omaggio a ‘O boss d’o paese circondato dai fedeli scagnozzi.

MA IL CIELO E’ SEMPRE PIU’ BLU

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché fu profetica, lungimirante sotto “il cielo sempre più blu”: dalla disfatta della Prima Repubblica alle ingiustizie sociali, dalle morti bianche al razzismo oltre confine.

Quarant’anni dopo, punto. E ora che si fa “Aida, le tue battaglie I compromessi La povertà I salari…” tra i fantasmi del colonialismo? Ora che si fa, sputando in faccia a chi si sottomette alla routine e esaltando “Mio fratello è figlio unico Perché non ha mai trovato il coraggio d’operarsi al fegato E non ha mai pagato per fare l’amore E non ha mai vinto un premio aziendale“? Ora che si fa mentre Berta filava e “partiva l’emigrante e portava le provviste E due o tre pacchi di riviste E partiva l’emigrante ritornava dal paese“?

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché, persino dando voce ad una cover, ha fatto germogliare la speranza di ricominciare dopo la sepoltura di una storia d’amore sotto la neve, a mano, a mano.

Ci risiamo, quarant’anni dopo. Come canterebbe Rino Gaetano le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati? Come canterebbe Rino Gaetano l’Italia dell’uscita dal carcere d’U verru, il boss pentito, che oltraggia la memoria della strage di Capaci?

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

La tragedia della funivia Stresa-Mottarone e l’Italia assassina della “ripresa”

L’Italia della “ripartenza” si è macchiata dell’assassinio di 14 persone sulla funivia Stresa-Mottarone. Al momento della tragedia in Piemonte mi trovavo a pochi chilometri in linea d’aria dal Mottarone. Ero accanto al torrente Erno che sfocia nel Lago Maggiore, all’altezza di Lesa.
Quella del 23 maggio doveva essere una domenica speciale, la ripartenza del Paese dopo il buio della pandemia. Nei miei vent’anni di vita a Milano, non c’è luogo che mi appartenga come la sponda piemontese del Lago Maggiore: l’apertura lacustre da Meina fino a Baveno mi ricorda il mare della mia Napoli. 

LUCIDA FOLLIA ASSASSINA

Sabato sera, sotto una pioggia torrenziale che ha fatto da presagio alle lacrime versate l’indomani, mi sono perso in auto accanto ad un’indicazione per il Mottarone. La promessa di portarci mia moglie quanto prima è stata spazzata via domenica scorsa dal rumore degli elicotteri in perlustrazione della zona della tragedia. In quell’istante ho capito cosa fosse accaduto. 

Nello sgomento di queste ore in cui le indagini hanno portato alla luce l’intenzione volontaria di manomettere i freni della funivia che presentava delle anomalie, c’è un misto di rabbia e dolore: Alessandro e Silvia di Varese ci assomigliavano da fidanzati tra i progetti fatti guardando Stresa. Amit, Tal, Barbra e Itskak sarebbero potuti essere i nostri compagni di viaggio sul prossimo volo per Tel Aviv.
Serena e Mohammadreza erano come tanti in partenza dal nostro Sud per un futuro lavorativo migliore. Le candeline di Roberta, soffiate dal vento di una morte prematura, erano quelle di noi quarantenni che amiamo la vita senza riserve. Vittorio e Elisabetta, prossimi al matrimonio, insieme al piccolo Mattia erano come noi che ci siamo battuti per una bella storia d’amore superando le barriere anagrafiche.

L’ITALIA SMEMORATA, DAL CERMIS AL MOTTARONE

Chi si assume la responsabilità di questa tragedia enorme? Nei condomini osserviamo regole rigide per manutenzioni e revisioni dell’ascensore, perché non potrebbero esserci tempi più serrati per una funivia? In uscita dal tunnel buio della pandemia con tutti i lockdown a singhiozzo e il fermo degli impianti, dovevano essere monitorati i gestori della funivia abbagliati da una lucida follia. Qui si tratta di una corresponsabilità pubblica e privata e ci sono di mezzo anche soldi pubblici.

In Italia tiriamo a campare e siamo smemorati: i 42 morti della caduta della funivia del Cermis in Trentino del 1976 non bastavano? Facendo un rapido conto degli impianti a fune funzionanti nel nostro Paese, mi chiedo se ora scatterà la sindrome delle revisioni e manutenzioni come è accaduto dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova.

NUOVE REGOLAMENTAZIONI PER LE FUNIVIE IN ITALIA

Consapevole che né una residenza né un domicilio temporaneo possano farci sentire parte di una comunità, lascio al dolore e alla rabbia di queste ore la funzione di integratori, anche per noi senza natali in questa zolla di Piemonte ferito. E’ legittima la richiesta di giustizia attraverso le indagini che farà la Magistratura così come la pretesa di un aggiornamento in tempi rapidi delle regolamentazioni delle funivie in Italia e di impianti simili.

Stresa non sarà più la stessa e non sarà più ricordata soltanto come perla del Lago Maggiore, culla delle isole Borromee o corridoio privilegiato del turismo tedesco. La lacerazione della funivia del Mottarone resterà aperta per non ridurci ad essere beati, per dirla alla Nietzsche, come “gli smemorati perché avranno la meglio anche sui propri errori”.