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Milva mi appartiene: la prima intervista non si scorda mai

Ho un legame speciale con Milva, all’anagrafe Maria Ilva Biolcati, per chi l’ha amata semplicemente la Pantera di Goro. A febbraio del 1994, dopo un lungo colloquio al Quotidiano Il Golfo di Ischia, il compianto direttore Domenico Di Meglio mi disse: “Pipolo, mi piaci. Sei dei nostri. Riferiscono che le interviste sono il tuo forte. Chi vorresti incontrare per il primo articolo?”.

MILVA AL TEATRO DIANA DI NAPOLI

La mia scelta cadde sulla grande attrice e cantante, scomparsa oggi all’età di 81 anni. Mi fissarono l’intervista con Milva il 15 febbraio, prima dello spettacolo, ai tempi in cartellone al teatro Diana di Napoli. Arrivai al Vomero con largo anticipo con la 127 bianca di papà, ma in via Luca Giordano nel tardo pomeriggio era quasi un miraggio trovare un buco. La parcheggiai di sbieco e lasciai un postit specificando che ero in teatro per l’intervista, sperando nella clemenza dei vigili.
Mi tremavano le gambe, avevo taccuino e penna, il fidato registratore a cassette, regalo dei miei nonni a battesimo della nuova avventura lavorativa. Entrai nel camerino, Milva si stava truccando, mi fece sedere accanto a lei ed escalmò: “Un giovane giornalista! Sono felice di essere tornata a Napoli, una città che sa sempre stupirti. Voi napoletani siete delle persone speciali“.

La dedica di Milva dopo l’intervista nel febbraio del 1994

LEZIONE TRA TEATRO E MUSICA

Milva mi mise subito ad agio e, a distanza di anni, devo dire che non fu frettolosa perché ero “un giornalista alle prime armi”. Si dilungò con piacere e la nostra conversazione fu per me una lezione tra teatro e musica: il rapporto speciale con il suo pigmalione Giorgio Strehler, il teatro di Brecht nelle sfaccettature di lente privilegiata dell’esistenza umana, la svolta musicale con il disco dedicatole da Ennio Morricone, il flirt cantautoriale e sperimentale con Franco Battiato, il successo all’estero in Francia e Germania, il desiderio musicale di un disco tutto dedicato a Napoli (nel 1997 avrebbe pubblicato Mia bella Napoli).
Mi innamorai di Milva durante quell’incontro e ancora oggi sono convinto che Maria Ilva sia la donna che ogni uomo desidererebbe al suo fianco: intelligente, elegante, guerriera, appassionata, rispettosa della memoria, emancipata lontana dai cliché, senza peli sulla lingua, in difesa dei diritti e concreta all’occorrenza nelle battaglie civili.
Quella notte sotto il ticchettio di una macchina da scrivere Lettera 35 buttai giù l’intervista, che fu pubblicata il 18 febbraio 1994. Ricordo l’emozione di leggerla nelle edicole campane, la prima copia la regalai a mio padre.

IL REGALO DI MILVA A MILANO: PRESENTARMI ALDA MERINI

Dieci anni dopo ho ritrovato Milva a Milano in occasione dello spettacolo emozionante Milva canta Merini. Nel 2004, dietro le quinte del Filodrammatici, Milva mi ha accompagnato in camerino da Alda Merini, presentandomi alla poetessa in questo modo: “Alda, ho conosciuto questo giovane giornalista a Napoli diversi anni fa. Si è trasferito a Milano. Lo sai che ho tenuto a battesimo i suoi esordi?”.
Ricorderò Milva, oltre che per il suo temperamento artistico, per l’essenza di donna speciale, che oggi mi fa ritrovare queste sue parole:

Ritengo che proprio questa speciale combinazione di capacità, versatilità e passione sia stato il mio dono più prezioso e memorabile al pubblico e alla musica che ho interpretato e per quello voglio essere ricordata.

Sonia Battaglia, morire non è calcolare una percentuale

Cosa fai se leggi “Ma per ora niente rischi, su 17 milioni di vaccinati, 37 tra embolie e trombosi”? Cosa fai se in contemporanea tua moglie nell’altra stanza singhiozza perché una sua conoscente, Sonia Battaglia di San Sebastiano al Vesuvio, è in fin di vita dopo un vaccino?

AstraZeneca, 54enne napoletana in terapia intensiva dopo vaccino. I familiari: «Non aveva patologie pregresse»


Ti fermi un attimo, in silenzio, farfugliando con i tasti del PC: vaccino o non vaccino, ruolo istituzionale o non, chi può arrogarsi con nauseante prepotenza il diritto di sminuire un decesso, assecondando il valore numerico di una percentuale? Chi, me lo spiegate?
Neanche l’infermiera di turno della porta accanto che vorrebbe convincermi del contrario con la riflessione spicciola: ci sono più probabilità che all’uscita di casa sia investito da una moto che vada all’altro mondo a causa di una dose di vaccino.

Mia mamma, una donna di 54 anni finora sempre sana come un pesce una settimana fa si è sottoposta al vaccino AstraZeneca (LOTTO ABV5811) data scadenza 30.06.2021. Il giorno seguente al vaccino stava bene tanto che è andata a lavorare. Due giorni dopo ha avuto la febbre (nella norma, rassicurati dalla dottoressa). Il terzo giorno mia mamma ha iniziato a vomitare senza sosta, abbiamo chiamato l’ambulanza, le hanno messo la flebo per recuperare i liquidi che stava perdendo. Mia mamma dormiva in continuazione e non riusciva a parlare, si addormentava mentre parlava. Il giorno 12 sera abbiamo richiamato l’ambulanza la quale dopo aver controllato i parametri vitali si è rifiutata di portarla in ospedale e tenerla sotto controllo. La mattina seguente ovvero ieri 13 marzo ho chiesto a mia madre di muoversi e di alzare la gamba sinistra, lei era convinta di riuscire ad alzarla ma invece era totalmente immobile. L ho presa in braccio e portata in pronto soccorso (all’Ospedale del Mare di Napoli) dove è stata ricoverata d’urgenza per emorragia celebrale ed ha avuto anche un infarto… dopo essere riusciti a parlare con i dottori nel pomeriggio ci hanno informati che nel giro di due ore ha avuto una trombosi, una emorragia cerebrale e una occlusione dell’aorta.

(Mario, figlio di Sonia)

Andatelo a spiegare alla famiglia di Sonia che da un giorno all’altro ha visto morire sotto i suoi occhi la madre, la moglie, l’amica, la sorella. L’incubo è iniziato ai primi di marzo con la somministrazione della dose e i primi sintomi preoccupanti, il ricovero, il decesso e va avanti ancora mentre le indagini delle autorità giudiziarie faranno il loro corso dopo l’autopsia. Sonia non è l’unica in Italia a cui è toccata la stessa sorte.

E’ morta Sonia, i familiari denunciarono che stava male dopo il vaccino AstraZeneca


Siamo in guerra e il Covid è un nemico che abbiamo sottovalutato. In quante azioni militari hanno lasciato passare sotto i nostri occhi fiumi e fiumi di omertà, mandando a morire soldati di ogni parte del mondo, perché il XX secolo ha fatto della grandi e piccole guerre il motore economico di intere civiltà a discapito di altre.
La parola diritto alla salute passeggia in silenzio nella piccola bottega degli orrori: è bizzarro contrapporre il business delle multinazionali farmaceutiche a chissà quali azioni belliche di un tempo?


I parenti della donna, deceduta alcuni giorni dopo la somministrazione di una dose di Astra Zeneca, pronti allo scontro legale: “Non siamo no-vax, ma vogliamo che ammettano che quella fiala l’ha fatta ammalare.”

La partita è ancora tutta da giocare, ma chi come Sonia Battaglia potrebbe averci rimesso la pelle non può essere ricordata in un ritaglio di cronaca, al di là che ci sia un nesso tra il suo decesso, il vaccino o un lotto difettato. Tra l’altro lo scorso 22 marzo Aldo, un collega di Sonia a cui era stato somministrato lo stesso vaccino, è stato ricoverato per un’ischemia celebrale e qualche giorno dopo a Latina, una donna sulla trentina, è finita in ospedale per una trombosi. Effetti collaterali?

Le coincidenze si riducono a numeri, dalle nostre parti.

Il silenzio che fa rumore: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”

C’è un silenzio che fa rumore, questo del mio ultimo viaggio durato un anno e mezzo. In un tempo in cui straripa la bulimia di apparire sui social ad ogni costo e che spesso si riduce a goffaggine, svuotamento della sostanza, beffarda illusione di costruire un alter ego che non corrisponde alla realtà, c’è una strada maestra della vita che non dovremmo mai perdere di vista. Me l’aveva ricordata il vicino di posto nel lunghissimo viaggio in treno che mi portò dalla Cina in Tibet: Rumorosi sono i piccoli torrenti, il vasto oceano è silenzioso.

Ho navigato in questo oceano di silenzio senza barche a motore o lussuosi yacht. Se non avessi usato i remi sarei finito nella trappola della corsa sfrenata di abbattere il tempo, rinnegando il verbo del mio incontro fortunato con lo scrittore cileno Luis Sepúlveda al lido di Venezia: l’elogio della lentezza.
Dopo l’esame di terza media in una scuola alla periferia di Napoli, la cara professoressa Rosalba mi lasciò in eredità una riflessione che spianò la strada della mia crescita: “Tu non ami le mode perché il tuo animo è fuori moda. Cresci sempre anticipando i tempi e non avrai la smania di restare nel gregge”.

Ho anticipato i tempi con un lockdown interiore prima che arrivasse quello della pandemia, che ha messo in crisi tutti gli illusi mediocri in cima alla piramide di cartapesta di voler essere padroni del tempo.
C’è un silenzio che fa rumore e accade quando prende la piega inconsapevole di battaglia civile contro arroganze e soprusi, in difesa dei propri diritti, perché avere talento significa prima di tutto avere una personalità: “Ci sono solo due errori che si possono fare nel cammino verso il vero: non andare fino in fondo e non iniziare”.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato rispettando quest’oceano di silenzio, dimostrandomi vicinanza e solidarietà in punta di piedi, con un ricordo vissuto assieme, un messaggio letto in ritardo, una vecchia foto. Le amiche di gioventù come Mascia, Isabella, Concetta, Elisabetta sanno sempre come smuovere cuore e anima: “Non sempre è necessario incontrare e/o vedere una persona per volerle bene, e non leggerti più, non sapere come stai, non ricevere più in regalo foto dei tuoi viaggi e i tuoi racconti mi manca. Tvb”.
Un pensiero va anche a due persone importanti della mia vita, Massimo e zio Peppino, volate in cielo durante il lockdown ai quali non ho potuto dare l’ultimo saluto.

C’è un silenzio che fa rumore e mi torna in mente la parabola dello statista in esilio a cui fa visita un ex allievo. Quest’ultimo invece di trovarlo tra vecchie scartoffie alla scrivania, lo scova con le grambe incrociate davanti all’oceano: “Perché ti sei preso la briga di compiere questo lungo viaggio per venire a trovarmi?”, esordisce lo statista. “Perché dalle mie parti abbondano i pappagalli”, spiega l’allievo. “Torna indietro – conclude il vecchio in esilio – con la consapevolezza che prima o poi i pennuti ti accerchieranno per farti lo sgambetto. Tu fai finta di niente perché, quando meno te lo aspetti, arriverà il tempo della rivalsa”.

C’è stato un silenzio che ha fatto rumore, ma adesso è tempo della rivincita: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.” (Divina Commedia, Canto III, Inferno)

Come in un fumetto nel giorno del nostro matrimonio

Il 17 luglio 1973 sbucai in questa vita dal pancione di mia madre.  Ho espresso un desiderio esplicito per il compleanno, essere trasformato in un fumetto e per questo ringrazio l’amico Luca Golinelli. Dal mio alter ego a fumetti, Corto Maltese di Hugo Pratt, presi in prestito una consapevolezza riadattata alla mia vita: “Quando ero bambino mi accorsi che non avevo la linea della fortuna sulla mano. Così presi il rasoio di mio padre e zac! Me ne feci una come volevo.”

Oggi, nel giorno del mio matrimonio con Luisa, mi rendo conto che questa perla di saggezza è vera fino solo in parte. C’è un Wedding Planner lassù che con gli impasti d’amore ci sa fare e agevola l’incontro degli innamorati destinati ad impararea guardare nella stessa direzione”. 
Ritrovando quella provvidenza, per errore allontanata dalla mia vita, ho avuto la conferma che su ciascuno di noi c’è un progetto d’amore che va al di là di tutte le preoccupazioni del quotidiano.

In questi anni Luisa mi ha insegnato che i pregiudizi sono il nemico numero uno di una storia d’amore autentica e che le distanze anagrafiche, sociali e quelle relative alla visione della vita si possono accorciare notevolmente senza soffocare l’individualismo che legittimamente appartiene a ciascuno di noi.

In questa versione a fumetti del giorno del matrimonio non indossiamo gli abiti da cerimonia, ma quelli che hanno fatto di noi le persone che siamo oggi e, dopo “il fatidico sì”, sono pronti ad intraprendere un percorso nuovo per la costruzione di un progetto d’amore.
La camicia apparteneva a mio padre, l’aveva indossata in tante occasioni importanti; la maglietta a cuoricini di Luisa è tra gli ultimi indumenti sistemati nel cassetto dalla mamma, segno che nessuno se ne va via per sempre, nonostante le separazioni producano un dolore stratosferico.

Accogliendo Luisa nella mia vita, mi sono accorto che questo ritorno a Napoli custodisce il significato di riprendersi le proprie radici e farle camminare in giro per il mondo con le scarpe dell’amore. Nonostante lacci di vita diverse, queste scarpe hanno voglia di camminare insieme. Questa storia ebbe inizio il 9 novembre, nel giorno del 25° compleanno di Luisa, ed è arrivata all’altare davanti agli occhi di Dio il 17 luglio, dì del mio 46° compleanno.

Stamattina, dopo lo scambio delle fedi nuziali,  mi è tornata in mente l’ultima strofa di una canzone di Lucio Dalla che sembra scritta apposta per noi:

“Anna avrebbe voluto morire
Marco voleva andarsene lontano.
Qualcuno li ha visti tornare
Tenendosi per mano.”
Original Artwork: Luca Golix Golinelli, Dillo con un Fumetto, (C) 2019 

Prince Jerry, il migrante nigeriano che voleva vivere in Italia

Lunedì scorso ho visto un mucchio di gente che sbraitava per i ritardi dei treni provenienti da Genova. Si voiciferava l’ennesimo suicidio sui binari. Nonostante l’accaduto drammatico, la preoccupazione si era ridotta alla solita cantilena: “Proprio oggi doveva buttarsi sotto il treno?”.

Ieri sera, attraverso una catena di messaggi finita su whatsapp, ho scoperto la vicenda nascosta dietro Prince Jerry, il  venticinquenne nigeriano suicida. A diffondere la notizia è stato il messaggio di don Giacomo Martino, Responsabile del centro accoglienza Migrantes del capoluogo ligure:

Cari tutti, ieri sono stato tutto il giorno a Tortona .
Uno dei nostri ragazzi di Multedo, Prince Jerry, dopo essere stato diniegato prima di Natale e scoprendo che non avrebbe potuto contare neppure sul permesso umanitario che è stato annullato dal recente Decreto, si è tolto la vita buttandosi sotto un treno. Ho dovuto provare a fare il riconoscimento di quanto era rimasto di lui. È stato un momento difficile ma importante perché ho ritenuto di doverlo accompagnare in questa sua ultima desolazione.
Vi scrivo perché abbiamo deciso di portarcelo su a Coronata e seppellirlo nel cimitero lassù.
Venerdì mattina alle 11:30, all’Annunziata, celebrerò il suo funerale.
Quanti vorranno e potranno essere presenti sarete il segno dell’ultimo abbraccio terreno a questa vita così desolata.
Una preghiera per lui e la sua famiglia.

Le parole di don Giacomo non hanno bisogno di commenti, sono chiare, ci restituiscono il peso di sensate riflessioni. A ciascuno la sua secondo coscienza: continuiamo a celebrare la Giornata della Memoria, svuotandola con luoghi comuni, nascondendo sotto il tappeto dell’omertà la nostra insistenza a costruire “lager invisibili”, piccoli o grandi che siano.
Come aveva raccontato Primo Levi a Enzo Biagi in una bellissima intervista “Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio, vuol dire accampamento, vuol dire luogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione”.

Per noi, gente comune e istituzioni, lager cosa significa?
Prince Jerry, eccellente laureato in chimica, è stato sepolto nel cimitero del quartiere genovese di Coronata.  Persino i costruttori di “lager invisibili” lo vedranno, sotto le sembianze di un angelo, tra i cieli di Genova.

Lui sì che ha imparato a volare, da solo, senza le preghiere di noi in balia delle barriere.

Cover ARTWORK: Eric Johnson

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

I viaggi mattutini in metropolitana mi infastidiscono per la frenesia delle persone, prigioniere della routine tra spintoni e rincorse di quel tempo di cui non siamo padroni.
Stamattina, seduta accanto a me sulla linea rossa di Milano, c’era una donna che parlava a telefono. Ho capito dopo qualche battuta che il suo interlocutore era la figlioletta.

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

Queste sono state le ultime parole di una conversazione andata avanti parecchi minuti senza una risoluzione.  Di sbieco mi sono soffermato sul viso sgomento di questa mamma che, dopo aver concluso la telefonata, è scoppiata in lacrime affondando nello sciarpone intorno al collo.
La gente distratta continuava a salire e scendere con indifferenza, mentre io mi sentivo impotente di fronte a questo urlo sibillino di immenso dolore.

Ho ripensato a quelli della mia generazione che avevano soltanto il papà da spartire con il lavoro. Mia mamma di professione ha fatto la casalinga e mi sono risparmiato la paura e l’angoscia infantile del distacco quotidiano, se non nelle ore dei tempi della scuola materna, in cui non si andava mai oltre l’ora di pranzo.

Non bisogna essere un sociologo per cucire i cambiamenti nella nostra società degli ultimi quarant’anni così come non occorre un pediatra o uno psicologo per rendersi conto del dolore e della frustrazione che scatta da entrambi le parte, figli e mamma.

Un lettore ha commentato così il mio tweet del buongiorno:

A proposito del giudizio mi è tornato in mente Platone:

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.”

Il viaggio in metropolitana di questa mattina è dedicato a tutte le mamme che ogni mattina combattono questa battaglia dentro e fuori il cuore.

La battaglia contro il cancro: raccontarla in TV senza vergogna

Ci vuole coraggio, e tanto, a parlare della battaglia che si sta affrontando per sconfiggere un maledetto cancro. Ci vuole coraggio a parlarne con familiari e amici, figuriamoci con una platea di sconosciuti. Nadia Toffa, la Iena assente in TV da un paio di mesi, ha scelto la sua trasmissione, tenendo al fianco i suoi compagni di viaggio, per parlarne e non la prima pagina di un tabloid o un profilo social.

L’intervento di Nadia è stato sobrio, diretto e non aveva niente a che vedere con i copioni strappalacrime da contenitore televisivo di una domenica pomeriggio sul divano.
“Noi guerrieri contro il cancro siamo fighi” esprime tutta la bellezza raggiante di chi affronta anche l’istante più drammatico e buio con ottimismo e positività per il futuro.

Il grande valore della condivisione di Nadia con il suo pubblico rimane il riconoscimento alla medicina per i risultati raggiunti: “Le uniche cure che ho fatto sono chemio e radio”.
Indossare una parrucca non piace a nessuno – i capelli ricresceranno – ma quella è una tappa obbligata. Quanto contribuiscono l’avvilimento e la paura a farci perdere i sassolini della speranza, finendo tra le mani di santoni che promettono cure folcloristiche?

Gli attacchi parcheggiati su Facebook o sulla pagina di qualche quotidiano che vale meno di un rotolo di carta igienica sembrano più un ruggito rabbioso contro la Iena per vecchi servizi televisivi piuttosto che una sensata riflessione su cosa si possa provare convivendo con un tumore.
Dentro di sé la Toffa non è stupida e sa bene che qui non si tratta di qualche mese di chemio e radio. Battagliare contro un tumore significa non abbassare mai la guarda.

Oggi chi polemizza non può capire, perchè non ci è mai passato. Quello di Nadia Toffa è stato ingiustamente scambiato per uno show. Gli show in Italia riguardano i guaritori che vorrebbero far passare truffe per miracoli. I miracoli non sono roba nostra, appartengono al Padreterno.

La paura di tornare su un treno Trenord dopo il disastro ferroviario

La nebbia che avvolge questo lunedì mattina nel milanese sembra un frammento di celluloide di Deserto Rosso di Antonioni. Torno a viaggiare su questi binari ed è la prima volta dopo il disastro ferroviario di Pioltello.
Salgo su un treno Trenord in direzione Milano e vedo meno gente del solito all’ora di punta. Guardo gli altri passeggeri uno per uno, alcuni assorti, altri storditi dallo smartphone, qualcuno con lo sguardo perso nel riflesso del finestrino.

Pendolare è chi viaggia nella stessa direttrice, viaggiatore è chi attraversa il territorio toccando tutti i punti cardinali. Faccio due conti: dal 2009, anno della nascita della società Trenord, ho percorso con il trasporto locale almeno 250.000 chilometri su e giù per la Lombardia.

I treni locali erano il mezzo delle mie esplorazioni adolescenziali – a 12 anni la fuga solitaria dalla periferia per andare in autonomia dai miei nonni a Napoli – e lo sono ancora tutt’ora. Ho imparato a conoscere la Lombardia percorrendo i chilometri di tutte le linee ferroviarie, principali e secondarie, dalla Valcamonica alla Valtellina, dal pavese alla bergamasca, dal mantovano al bresciano, raccogliendo storie della gente del posto.

Ho visto macchinisti portarci a casa sotto le nevicate, ho chiacchierato con capotreni, incluse le donne lontane da figli e famiglia nelle ore maledette dei turni serali. Persino su quelle tratte da vecchio West come Cremona-Treviglio o Brescia-Piadena ho avuto modo di fare scorribande indietro nel tempo e ritrovarmi nella Lombardia in bianco e nero.

Nell’ultimo anno mi sono trovato spesso a Cremona prima dell’alba. E se ci fossi stato anche io sul maledetto treno che il 25 gennaio ha ferito un centinaio di passeggeri e ammazzato tre donne? Mi vien voglia di prendere la tessera da abbonato annuale e strapparla in mille pezzi. Non si può morire andando a lavoro.

Non è un inizio di settimana qualunque e non voglio far finta di niente. Mi guardo intorno e cerco i volti di Giuseppina, Pierangela e Ida, mai uscite vive dalla lamiera di quel treno. Mentre sto scrivendo questo diario di viaggio, ci sono quattro manager nel registro degli indagati. La rabbia non serve, produce solo altra rabbia, ma la giustizia dovrà dare un segnale efficace.

Ho paura di risalire sul treno che prendo ogni mattina, perchè la sicurezza, diritto inespugnabile di ogni cittadino, si è ridotta alla solita barzelletta all’italiana. C’è gente senza scrupoli che senza abbaiare morde più di quanto non facciano i brutti ceffi o i vandali che tentano di spaventarci nelle ore notturne.

Giuseppina, Pierangela e Ida non hanno fatto più ritorno a casa. Non possiamo fingere che non sia accaduto niente, soffocati dalla rete dei rassegnati e fatalisti.

L’ergastolo per Piazza della Loggia con le coscienze in ammollo


Quelli della mia generazione, che si muovevano a carponi nel giorno della strage di Piazza della Loggia a Brescia, sono cresciuti aspettando questa sentenza. Pensavano che l’esito della tragica vicenda del 28 maggio 1974 si chiudesse una volta e per tutte nel raggio del maledetto decennio di piombo.

No, la mia generazione è cresciuta con il fiato sospeso, ha visto i tentennamenti della giustizia, ha mandato giù i bocconi amari della Prima Repubblica complice dello stragismo, si è riconosciuta allo specchio con i capelli brizzolati.
Oggi, nel 21 giugno che ci restituisce l’agognata estate, ci risvegliamo con una sentenza in mano arrivata troppo tardi: ergastolo confermato dalla Cassazione per Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, i due neofascisti artificieri di uno dei momenti più bui e tormentati della storia della Repubblica italiana.

I due condannati, il primo ultra sessantenne e il secondo ottantenne, sono riusciti a fare un lungo zigzag per scampare una vita dietro le sbarre. Lasciamo in ammollo le nostre coscienze con questo ritardo cronico della Giustizia italiana, incapace di far luce sulle ombre che hanno disegnato la geografia stragista in Italia: Brescia come Bologna, Ustica, piazza Fontana a Milano.

A Maggi e Tramonte, prima o poi, sarà riconosciuto “il diritto alla salute per avvicinarsi ad una morte dignitosa”; ai complici e protettori degli ultimi quarant’anni è stato concesso il diritto di svignarsela; ai parenti delle vittime di piazza della Loggia di continuare a sprofondare in un dolore, in una mortificazione della dignità umana che non passerà perchè nessuno meritava di vivere in uno Stato che fece finta di non vedere.

8 marzo senza mimose: alla (mia) donna i versi di “Te recuerdo Amanda” di Victor Jara

8-marzo-festa-donne

rosario_pipolo_blog_2Quintali di mimose che profumano l’8 marzo e sotterrano il tanfo della memoria. Ripenso al mio ultimo viaggio a Santiago del Cile e alla violenza sulle donne negli anni bui della dittatura di Augusto Pinochet. Ritrovo i versi della poesia musicata Te recuerdo Amanda di Victor Jara, cantautore cileno ammazzato pochi giorni dopo la caduta di Salvador Allende.

Te recuerdo Amanda
la calle mojada
corriendo a la fábrica
donde trabajaba Manuel.

Di buon mattino, in Italia, lei sulla strada verso il lavoro intravede diversi ambulanti che dispensano mazzetti di mimose. Sul posto di lavoro le regalano un bel bouquet di fiori, ma del mio neanche l’ombra. Non se lo aspetta dopo tutto questo tempo. Nel frattempo, io sono in viaggio appuntando la traduzione della canzone di Victor.

Ti ricordo, Amanda,
nella strada bagnata
mentre correvi alla fabbrica
dove lavorava Manuel.
Col tuo largo sorriso,
la pioggia nei capelli
non t’importava niente
correvi a trovarti con lui,
con lui, con lui.

Inciampando in questi versi ripenso alle ragazze cilene che non fecero più ritorno dai loro cari.
Intanto, lei torna a casa, mette il bouquet in un vaso e lo depone in soggiorno, a centro tavola. Si accosta alla finestra e di sbieco vede un uomo che regala un pacco di cioccolatini alla sua donna. Sbuffa. Poi si prepara per la serata insieme alle amiche.

Sono cinque minuti,
la vita è eterna
in cinque minuti.

Termino la traduzione. L’aereo è arrivato in ritardo. In auto sono invaso da migliaia di batuffoli di mimose che hanno riempito le botole storiche lasciate alle spalle, convinti che l’8 marzo sia il risciacquo delle nostre coscienze.
Lei, dopo la serata con le amiche, bivacca sul lettone. Un’ultima occhiata al PC. Scioglie i  capelli e lancia il fermaglio sulla cassettiera. Spegne la luce e sprofonda con la guancia sinistra sul cuscino.

Suona la sirena,
di nuovo al lavoro,
e tu, camminando,
illumini tutto.
Quei cinque minuti
ti hanno fatto fiorire.

Pochi minuti prima della mezzanotte, arrivo fuori casa sua. Citofono, non sente. Ci riprovo, niente. Mi sposto oltre il cancello e provo a ripetere sottovoce queste parole:

Correvi a trovarti con lui,
che partì per la sierra,
che mai fece male a nessuno,
che partì per la sierra
e in cinque minuti
fu trucidato.

Mi riconosce. Viene ad aprire in camicia da notte. I soliti capelli scompigliati. Sembra infastidita vista l’ora tarda e senza preavviso. La prendo per mano e ci incamminiamo nella sua stradina. Non è scorbutica come mi sarei aspettato. Dimentica persino di avere le ciabatte ai piedi. Le anticipo che non ho mimose con me, ma soltanto dei versi tradotti per lei. Che sbadato ho perso il foglietto, niente più traduzione, tanta fatica per nulla durante il viaggio.

Te recuerdo Amanda
la calle mojada
corriendo a la fábrica
donde trabajaba Manuel.

Canticchio questi versi, gli unici che ronzano nella mia mente. Nelle pozzanghere a terra galleggiano mimose sprecate e appassite tra i soliti luoghi comuni della ricorrenza.
Il rumore dei nostri passi ci fa ritrovare, come se fossimo a Santiago del Cile, io stremato da un viaggio intercontinentale, lei in tenuta da nottambuli, con una comune convinzione: nessuna dittatura potrà mai cancellare gli orrori della violenza sulle donne, lasciando che il tempo sorvoli sui dettagli di quello che oggi trasuda di maschilismo, annidatosi sotto false spoglie nel quotidiano.