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Category Diario di viaggio

La Genova di De André nel silenzio della pandemia

Genova per noi nel silenzio della pandemia, come se questo viaggio di ritorno in una delle città che più mi appartiene fosse una soffusa liberazione dalle catene dei lockdown a colori. La mascherina agevola la mescolanza nel flusso di coscienza della comunità e, allo stesso tempo, impedisce alle mandibole e al respiro di muoversi liberamente. Il mondo di Fabrizio De André diventa la tua ombra, passo dopo passo.

DAL LETAME NASCONO I FIOR

In via del Campo – conosco a memoria ormai ogni angolo – di Bocca di Rosa neanche il fantasma e mi chiedo abbassando lo sguardo quanto tempo Faber abbia impiegato per scrivere quella strettoia poetica divenuta patrimonio dell’umanità: “Dai diamanti non nasce niente Dal letame nascono i fior“.
C’è sempre qualcosa che profuma di De André in questo silenzio pandemico e surreale, in questo vuoto dei crocieristi di un tempo sbarcati dalle navi con l’affanno di collezionare selfie: “Come è bello il mare, quanto dura una stanza. È troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male”.

IN UNA MULATTIERA DI MARE

Risponderebbe l’altra anima salva, Ivano Fossati, che “Chi guarda Genova sappia che Genova Si vede solo dal mare Quindi non stia lì ad aspettare Di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più”.
Sì, tutto viene fuori per ritornare nel mare, come quello del viaggio musicale di Faber e Mauro Pagani in Creuza de mä, uno degli album più pittorici della nostra discografia:

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.


STAGLIENO

Tradurre questo genovese è una bestiemma, sembra quasi di sbucciare la poesia: “E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli emigranti della risata con i chiodi negli occhi finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere fratello dei garofani e delle ragazze padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.
Sì, tutto ritorna nel mare, come le ceneri di Faber. E quando mi perdo nel cimitero monumentale di Staglieno, tra il ricordo risorgimentale di Mazzini e l’incontro indimenticabile con Nanda Pivano, mi rendo conto che è una lurida sciocchezza cercare De André oltre una lapide gelida, adesso che le sue ceneri appartengono al mare di Genova, che la difesa del suo patrimonio cantautoriale rimane un faro nella traversata del vuoto di oggi e delle sue strambe ovvietà.

NEL SILENZIO DELLA PANDEMIA

La Genova di De André nel silenzio della pandemia mi appartiene comunque e non occorre essere un genovese di razza per notare le ambulanze senza sosta, che in direzione del Pronto Soccorso del San Martino ci raccontano anche che la guerra contro il Covid è ancora in corso e non bisogna smettere mai di abbassare la guardia. Eppure in questo silenzio struggente, amalgamato al mondo poetico di Fabrizio De André, c’è un mucchio di luride parole che dissacra la memoria delle vittime del Ponte Morandi:

“Io non ci ero mai andato a Genova a vedere questo ponte mi han detto: ‘Fai l’analisi dei rischi catastrofali’. E io: ok”.

Questa intercettazione del 28 marzo 2019, che incastra l’incaricato di classificare il rischio del ponte crollato con 43 vittime, rimbomba nella Genova pandemica e batte l’ennessimo colpo d’ascia alle famiglie delle vittime e a tutti noi che aspettiamo giustizia.

Ciao Fraintesa, buon viaggio nell’eternità!

Per la Rete che l’amava e la seguiva era Fraintesa, per noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerla come persona ed averla come amica era semplicemente Francesca. Prima che la conoscessi professionalmente a Milano una decina d’anni fa, Francesca Barbieri era una ragazza modenese energica e appassionata della vita, della natura, dei viaggi. Amava ripetere:

Si dice “I sogni nel cassetto fanno la muffa.” Io non voglio neanche correre il rischio che prendano la polvere.

Quando in Italia c’è stato il boom del travel blogging, Francesca si è tenuta distante dalle tendenze, spesso evaporate nell’edonismo, e ne ha ha fatto una professione con costante studio, compostezza e sobrietà. L’ Australia era la sua “terra promessa”, ci è ritornata più volte, l’ha raccontata come facevano gli inviati di un tempo, sdoganandola dai luoghi comuni.
Fraintesa è stata una travel blogger impeccabile, Francesca Barbieri è stata l’antropologa del viaggio e, senza l’affannoso raggiungimento della meta a tutti i costi, ha fatto del racconto analitico del tragitto peculiarità e innovazione del suo storytelling.

Ma questo è il bello: basta crederci. E qui in Australia puoi effettivamente credere e dire quello che vuoi, troverai sempre qualcuno che con la cantilena altalenante ti risponderà: «okay, mate».

Attraverso progetti benefici come #GoFraintesa, di cui ho scritto anche su Affaritaliani.it, Francesca ha sostenuto la ricerca sul Cancro e si è fatta instancabile guerriera nella lotta contro il brutto male da cui non si è fatta scoraggiare mai.
Quando le raccontai della mia rocambalesca traversata in treno della Cina, sfidando le invisibili censure di Pechino per raggiungere il Tibet, mi confidò che uno dei sogni da viaggiatrice era trascorrere almeno sei mesi nei monasteri tibetani. Sono convinto che il treno su cui adesso è salita la nostra Fraintesa si fermerà a Lhasa prima di proseguire verso l’eternità. La colonna sonora di questo viaggio, come ci ha ricordato il suo grande amore Andrea, sarà Save Your Tears for Another Day.

Take me back ‘cause I wanna stay
Save your tears for another
Save your tears for another day…

Mi spiace Francesca, non riesco a mantenere la promessa: ho gli occhiali appannati, bagnati di pioggia salata come sanno fare le lacrime umane. “Se si contribuisce alla felicità di altre persone, si trova il vero senso della vita.”, scrisse il Dalai Lama sul tuo cuore. E tu ci sei riuscita, Francesca.

Buon viaggio, Fraintesa. Non ti dimenticheremo!


#GrazieFraintesa è la raccolta fondi a favore dell’AIRC in memoria di Francesca Barbieri. Clicca qui per saperne di più.

Cara Procida, Capitale italiana della Cultura 2022

La bella notizia della nomina di Procida a Capitale italiana della Cultura 2022 mi aveva fatto balzare il cuore in gola. Sarà perché ho iniziato a scrivere sulle pagine di un quotidiano delle isole campane, sarà perché proprio a Procida ci sono ricordi lavorativi che si mescolano all’isola: insieme a Michele, procidano di nascita e di fatto, iniziai a muovere i primi passi nelle produzioni video e vissi i preparativi e le magiche serate del Festival del Mediterraneo.

Ricordo quelle mattine procidane soleggiate davanti al Mac, il panorama mozzafiato che bussava da una finestrella nel nostro ufficio, lo bisbiglio dei gabbiani, i miei arrivi periodici al porticciolo e Michele che veniva a prendermi con la motoretta. Puntualmente c’era un gruppo di pescatori a salutarci che gli ricordava “Miche’, quanto ci manca tuo padre.”

Michele mi nascondeva gli occhi lucidi e poi sgaiattolavamo su e giù per l’isola, con il vento tra i capelli. Mi sembrava di sentire la voce dell’amata Elsa Morante e svolazzare come il bucato appena steso le pagine di L’isola di Arturo, mandato giù durante la mia scapestrata adolescenza mentre marinavo le lezioni nozionistiche al ginnasio.

Da una finestra si affacciava un’anziana signora con i capelli innevati, era la mamma di Michele che ci salutava e tutte le volte che mi riconosceva, avendo dimenticato il mio nome, mi chiamava puntualmente uainé, che in dialetto procidano significa “ragazzo”.

Io conoscevo il corrispettivo napoletano, guaglio’, che mio padre mi aveva insegnato da bimbo stonando i versi di Carosone “Tu si’ guaglione, che t’hê miso ‘ncapa? Va’ a ghiucá ‘o pallone“.

Sì ero ancora guaglione e quando hai poco più di vent’anni fatichi a farti prendere sul serio. Procida mi guardò negli occhi e mi adottò in quelle giornate in cui ogni ora di lavoro al fianco di Michele era un’occasione per imparare, crescere, guardare al futuro con l’ottimismo come i palleggi spensierati tra me e un ragazzotto procidano: anni dopo ho scoperto che era diventato sindaco dell’isola.

La sorella di Michele uscì di corsa e mi offrì dei biscotti fatti in casa. Era di poche parole. Mi sorrise come fanno gli isolani, che all’inizio ti sembrano scorbutici e poi quando li conosci davvero ti danno il cuore.

Michele mi prestò il suo telefono cellulare – sembrava una radio trasmittente di 007 – e mi concessi una chiamata davanti al mare, un lusso ai tempi: “Mamma, sai cosa ti dico che resto qui per un po’, tornerò a Napoli per gli esami… stai tranquilla non la mollo l’università…certo che rientro stasera, è un progetto per il futuro…poi lo diciamo a papà… Sì, hai ragione chissà se si rassegnerà mai a vedermi sempre con la valigia in mano…”.

Quella sera rientrai, eravamo soddisfatti del lavoro di quei giorni, avevamo la lista di alcuni ospiti al Festival del Mediterraneo, tra cui la grande icona della musica folk Matteo Salvatore. Michele mi riaccompagnò al porto, mi mise dei soldi nel taschino della camicia: “Uainé, questo è un piccolo rimborso spese. Vedrai che i tuoi sacrifici saranno ricompensati, hai del talento”. Poi mi diede un biglietto dell’aliscafo, io di solito viaggiavo in traghetto per risparmiare.

Io e Michele appartenevamo a due generazioni diverse: allora io cavalcavo i vant’anni e lui, avendo abbondantemente superato la trentina, era quel fratello maggiore che non avevo mai avuto. Salito sull’aliscafo, mi voltai e balbettai qualcosa tipo “Ah, Michele, grazie… comunque ti voglio bene”.

Lui non mi sentì, era già andato via in motorino e in lontananza mi salutava con la mano sinistra come se sventolasse una bandiera.
Procida era alle mie spalle e, attraversando il golfo di Napoli, intravidi nel mio legame nascente con l’isola di Arturo quella prospettiva custodita nel fiore all’occhiello di Procida capitale italiana della cultura 2022: la cultura non isola, mai, oggi come ieri.

Alaska on the road: Cartolina da Anchorage

Lorena arrivò in Alaska nel 1965 ancora in fasce.  Anchorage, l’ultima città del mio incredibile viaggio nell’ultima frontiera, ha fatto da ponte di collegamento con tutto il Centro e Sudamerica, accogliendo tante famiglie immigrate. Lorena è di origine messicana, è cresciuta qui e oggi fa l’artigiana: veste con pelliccia bambole eschimesi che sono per me un souvenir fatto a mano da portar via da un luogo sempre snobbato, perché considerato poco alaskino.

Io marcio controcorrente e nel piccolo Alaska Heritage Museum, a pochi chilometri fuori dal downtown, trovo tracce di storia locale con cui chiudo il cerchio di un viaggio circolare in cui ciascun luogo ne richiama altri.  Ringrazio Walter per avermi aiutato a raccogliere il meglio di un luogo di memoria non frequentato dai turisti, ma dai tanti studiosi che passano ad Anchorage sulle orme degli indigeni ed eschimesi che hanno dato vita a questa terra.

Anchorage è una città senza troppe pretese, perfetta per il cazzeggio tra gli sguardi dei binari della ferrovia sulla baia di Cook e gli inconciliabili tramonti che si posano sull’acqua oceanica del Pacifico senza troppi clamori.
Ti siedi su una panchina e fai nuove amicizie come è capitato a me. Kate e la sua famiglia sono originari del Sudafrica: tra una chiacchiera e l’altra solleticano la mia memoria con le sensazioni provate laggiù tra i paesaggi meravigliosi di Cape Town e dintorni in contrasto con le ferite mai socchiuse dell’Apartheid a Johannesburg.

Una birra all’Hard Rock Cafè, il primo aperto in Alaska, che spalma sulla pelle da viaggiatore quella crema vintage, che va oltre i memorabilia appartenuti ai giganti della musica.

Il Martin Luther King Memorial nel parco di Anchorage, costruito negli anni ’90 con una raccolta di fondi, testimonia il forte legame con i neri d’America e la voglia di mantenere viva la memoria della lotta per la conquista dei diritti civili.

Il cielo si annuvola. Mi avvio in aeroporto, è ora di ripartire. C’è qualcosa di inspiegabile che mi trattiene qui ancora mentre una pioggia sottilissima pizzica la mia pelle senza far venire fuori la stanchezza di questo lungo on the road.
L’Alaska mi è rimasta nel cuore, non c’è il tempo di urlarlo, sono in volo, il tramonto sputa raggi di luce sulle nubi, è tempo di andare.

In Alaska sulle spalle di Dio al Circolo Polare Artico in memoria di mio padre

Quando mamma mi regalò nel 1981 il mappamondo sul quale avrei annotato tutte le tappe del mio giro del mondo, aggiunsi il Circolo Polare Artico in Alaska: ero convinto che “l’ultima frontiera” era fatta dalle spalle di Dio e, salendoci sopra, avrei visto tutto ciò invisibile agli occhi.

Da Fairbanks ci vogliono 16 ore andata e ritorno per percorrere la mitica Dalton Highway, ovvero l’Alaska Route 11, che porta tutta diritto al Circolo Polare Artico. Il mio driver mi anticipa che il viaggio è lungo, ma ne vale la pena. A bordo siamo equipaggiati con le radio trasmittenti perché lungo il percorso non c’è corrente elettrica e segnale telefonico.
Basta uscire da Fairbanks per rendersi conto che stiamo per vivere l’impagabile sensazione di essere finiti su  un altro pianeta.

Di tanto in tanto facciamo delle soste per respirare l’atmosfera e trattenere sulla pelle quelle punte di gelo che preannunciano la meta, la più lontana verso il Nord del mondo. Un camionista ci avverte attraverso la radio di aver avvistato un paio di lupi poco lontano dalla Dalton, li rincorriamo, ma ormai sono due minuscule sagome per fare una bella foto.

A far da colonna sonora non ci sono canzoni ma il silenzio spirituale del paesaggio.  Quando ci fermiamo sul fiume Yukon, ormai una lastra di ghiaccio, il sussurro dell’acqua tocca l’anima e ti prepara al momento più emozionante. Prima però una rifocillata allo Yukon River Camp prima di proseguire. Questo è l’unico luogo in questo recinto di deserto del Nord del mondo in cui c’è vita umana.

Non mi ero sbagliato, non era stata una svista infantile quella di credere che il Circolo Polare Articolo si trovasse sulle spalle di Dio. Alle 17.50 ci sono, il sole è ancora alto, mi sembra di vedere la fessura della porta che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Il soffio del silenzio della spiritualità mi fa guardare il mondo dall’alto ed è come se le spalle di Dio fossero improvvisamente diventate quelle di mio padre. Non sento più quel freddo fatto di disperazione dell’istante in cui vidi con i miei occhi che non respirava più.

Una parte di me è rimasta lassù insieme al ricordo di mio padre. Da qualche parte sulla neve ho scritto:Tra la neve del Circolo Polare Artico, il punto più alto della mia vita da vaggiatore, ti ho lasciato la sua foto perché questa meta è a lui dedicata. Custodisci qui, nella preghiera del silenzio e per sempre, il ricordo di mio padre. Ciao Alaska e grazie di tutto. Non ti dimenticherò.”

Mio padre mi ha fatto il più bel regalo che qualcuno poteva fare a un’altra persona: ha creduto in me. (Jim Valvano)

Alaska on the road: Cartolina da Fairbanks

La mia mattinata a Fairbanks comincia con una colazione insieme a Jerry che, oltre ad essere il Public Relation Manager di Explore Fairbanks, è anche un appassionato di teatro.  Davanti a caffè americano, uova e bacon, mi racconta del suo documentario in fase di ultimazione sugli attori e la nuova drammaturgia in Alaska. Jerry mi fa da cicerone, è di buona compaagnia, mi porta a zonzo alla scoperta di quelle città che per tanti è  soltanto di passaggio.

Fairbanks è una tappa obbligatoria per chi vuole entrare nel vivo della vita della comunità alaskina. Non è una città che abbonda di attrazioni, ma è il modo per osservarla nella sua quotidianità con quelle abitudini che, nel raggio di pochi chilometri, ci rendono diversi gli uni dagli altri.
La buona birra artigianale, servita alla birreria HooDoo, è un buon pretesto per conrinuare a parlare con Jerry della vita di tutti i giorni, della famiglia, dei progetti futuri, del figlio che gli sta dando tante soddisfazioni.

Fairbanks ti sorprende proprio per la sua sobrietà, in questo centro che nel tardo pomeriggio assomiglia ad un set da film del vecchio Western, anche se poi assaggiando la cucina locale ammetti che sono tutte impressioni gettonate.

Il salmone ben cucinato da Lavelle’s bistrot resta uno dei piatti rappresentativi di questa zolla staccata d’America, l’ultima frontiera di nome e di fatto. Fairbanks sa esaudire i tuoi desideri in un periodo  dell’anno in cui intravedere l’aurora boreale è quasi impossibile, perché le ore di luce sono di più rispetto a quelle notturne.

Intorno alle 2 del mattino eccola spuntare nella sua raggiante bellezza: io vi attacco sulla coda un bottone, che assomiglia al legittimo desiderio di rivedere un dì mio padre.

Lettera dall’Alaska a Mary Shields, prima donna americana a partecipare ad una gara con i cani da slitta

Cara Mary Shields, in un ritaglio di un giornale americano lessi la tua incredibile  storia. Non avevo terminato ancora il liceo. Dissi a me stesso: “Un giorno voglio andare in Alaska ed intervistarla.” Per me non eri soltanto la prima donna americana ad aver partecipato e concluso una gara con i cani da slitta. Eri il simbolo femminile di chi aveva schiaffeggiato il becero maschilismo d’oltreoceano nelle mille miglia del percorso da Anchorage a Nome.

Quando sono passato a casa tua a Fairbanks, mi è sembrato di entrare in un luogo fatato e non perché la tua tana scodinzoli gnomi e fatine. E’ magica perché c’è l’anima appassionata e determinata di chi, a mio modesto parere, è diventata senza saperlo uno dei simboli dell’emancipazione femminile americana. Nella tua valigia di cartone di ragazza di provincia venuta in Alaska nel 1965 c’erano i sogni di una donna qualsiasi, pronta a difenderli a denti stretti.

Mentre sorseggiavo il caffè americano guardandoti diritta negli occhi, pensavo che quando sei arrivata in mezzo ai cani da slitta, l’American Dream era già evaporato con i proiettili conficcati a John F. Kennedy e che di lì a poco, dentro il pantano della sanguinosa guerra del Vietnam, sarebbero state confiscate persino le utopie agli americani che avevano riposto fede nelle urla antirazziali di Martin Luther King.

Cara Mary, non è che i tuoi bellissimi cani hanno segreti poteri da “stregoni”? Sono riusciti a farmi vedere davanti agli occhi i momenti cruciali di quella gara, la tua conquista di aver liberato i cani da slitta dal pregiudizio della schiavitù, rendendoli copratogonisti della tua vittoria per la libertà.
La nostra chiacchierata mi ha fatto ritrovare la bellezza di tutte le donne libere come te, libere di pensare e sognare, libere di essere sé stesse, anche quando temi di essere finita tra una banda di bifolchi.

Cara Mary, mi hai fatto felice e quando me ne sono andato, senza fartene accorgere, ho inghiottito il magone della prima e ultima volta insieme alla signora che dall’Alaska schiaffeggiò il becero maschilsmo americano.

Ti voglio bene.

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita. (William Shakespeare)

Cartolina dall’Alaska: Paws for Adventure con Leslie, Chase e i cani da slitta

Leslie era arrivata in Alaska per fare l’insegnante, ma poi col tempo si era resa conto che la sua vera passione i famosi cani da slitta che hanno imposto l’ultima frontiera nell’immaginario collettivo. Oggi la Paws School For Adventure è uno dei centri più noti di Fairbanks e dintorni per chi vuole avvicinarsi a questo mondo affascinante.

I cambiamenti climatici non sono di certo dalla mia parte e non c’è abbastanza neve. Leslie e Chase mi mettono nelle condizioni di vivere al meglio l’esperienza, rendendo questa tappa uno dei momenti più emozionanti del viaggio in Alaska.
Il workshop di Chase mi porta alla scoperta di un emisfero per me nuovo, catapultandomi tra le pagine di il Richiamo della Foresta di Jack London: la preparazione della slitta, il nutrimento dei cani, la fase delicata dell’addestramento, le gare e tutto ciò che c’è dietro la vita di un musher, ovvero chi conduce la muta dei cani da slitta.

 Chase me li presenta uno ad uno, raccontandomi le storie che danno al cane la peculiarità di essere l’amico più fedele dell’uomo. Poi si parte, i cani da slitta della Paws for Adventure School sono furie, inizia un mini viaggio in un paesaggio fatto di misteri e segreti, sembra una contorsione temporale nell’antropologia dell’Alaska quando i cani da slitta facilitavano gli spostamenti, permettendo ai agli alaskini di sopravvivere ovunque.

Leslie e Chase, in questa mattinata speciale alla Paws School for Adventure, mi hanno ricordato che i pregiudizi offendono le opportunità di esplorare mondi lontanissimi che non ci appartengono, ma abbiamo sognato leggendo un libro o guardando un bel film. Da quella slitta ho vissuto in prima persona una nuova prospettiva, quella che fa di un cane e di un uomo la contaminazione del creato perché dopotutto se non ci fossero i nostri amici a quattro zampe saremmo così infelici da rimproverare il Padreterno per averci negato un amico fedele.

In Paradiso si entra per favoritismo. Se si entrasse per merito, tu resteresti fuori ed il tuo cane entrerebbe al posto tuo.
(Mark Twain)

Alaska on the road: Cartolina da Talkeetna

Talkeetna era finita sulla bocca del mondo per aver avuto un gatto buffo come sindaco (la protesta degli alaskini può smuovere le corde della surrealtà). I primi due giorni in Alaska si concentrano in questo villaggio da pagina del romanzo Little House on the Prairie di Laura Ingalls.

Alloggio in una dimora storica, Talkeetna Roadhouse, e me lo conferma il libro ad essa dedicata pubblicato da un editore locale. Si tratta di una costruzione dei primi del ‘900, che mantiene le atmosfere dei tempi. Melissa, uno dei gestori, mi fa sentire a mio agio, qui si respira familiarità, sul pianoforte in un angolo del soggiorno ci sono ammassati degli spartiti che stuzzicano la voglia di suonare.

A Talkeetna si conoscono tutti o quasi e chi si sosta qui è in viaggio verso il Parco del Denali, la vetta più alta del Nordamerica. Fa freddo ma non troppo, il cielo è limpidissimo e il sole colora tutte le foglie degli alberi. Mi dicono che sono un vagabondo fortunato, perché solo pochi eletti riescono ad avvistare da qui il mitico Denali. L’acqua dei ruscelli, il ghiaccio che si scioglie, la neve superstite mi ricordano che il mio viaggio nell’ultima frontiera è la grande opportunità per esplorare “il mondo fuori dal mondo.”

Cammino a lungo, attraverso un ponte, avvisto i binari della ferrovia: ripenso alle mattine in cui nonno Pasquale mi accompagnava da bimbo ad aspettare i treni, li adoravo nel loro andamento di beffeggiare l’infinito. Mi affaccio nel Nagley’s store, il classico negozio americo dell’alba del secolo scorso in cui trovi tutto, anche le cianfrusaglie più improbabili.

A Talkeetna non ci sono muri separatori, avverto un senso di libertà che un territorio come questo sa darti senza pregiudizio. Mangio un piatto di carne con delle patate bollite, bevo una pinta i birra locale, il sole è calato. Mi tuffo a letto, mi addormento, smaltisco la stanchezza., fuori c’è un cielo stellato che non ha precedenti. Ripenso a mio padre, che mi guarda da lassù e mi ricorda le notti stellate condivise insieme.

L’indomani mi sveglio all’alba, fuori fa un freddo cade, mi infilo un cappello e la sciarpa. Dormono tutti, il villaggio è semideserto, mi godo le prime luci del sole mentre raccolgo ogni dettaglio in direzione della cima del Denali. Il vocio del fiume e il silenzio orchestrano un concertino di strumenti naturali che fanno bene all’anima e allo spirito.

Resterei ancora a Talkeetna, ma il viaggio mi chiama. Mentre mi allontano, mi ronza in mente un passaggio di On the Road di Kerouac:

“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo.”

Alaska on the road: L’ultima frontiera

L’Alaska è stato uno dei sogni da viaggiatori fin dai tempi dell’infanzia. Negli Stati Uniti sono di casa ormai – dopo l’estate del 1992, l’on the road di un mese del 2005 dalla California alla Louisiana, il Ringraziamento del 2015 tra New York e Tennessee – e “l’ultima frontiera” resta la tappa speciale insieme al Tibet del mio giro del mondo. Otto ore di volo da Toronto e poi il batticuore dopo l’arrivo all’aeroporto di Anchorage.

Aspetto l’alba, fuori ci sono una manciata di gradi. Avvisto finalmente il van con cui percorrerò 1.200 chilometri andata e ritorno nel giro di una settimana tra Anchorage e Fairbanks. I miei compagni di viaggio sono alcuni ragazzi provenienti dalla Louisiana, Missouri e North Carolina che trascorreranno i prossimi mesi a lavorare come stagionali nel Parco del Denali.
La simpatica Shandricka di New Orleans mi riporta laggiù sul Mississippi dove coronai il sogno di incontrare B. B. King e Allen Toussaint.

Paul, il driver, è sbarcato in Alaska quando era piccolo per seguire insieme alla famiglia suo padre militare dell’aviazione americana: ha visto nascere il primo McDonald’s, il primo Hard Rock Cafe. Gli Alaskiani possono risultare scontrosi e scorbutici al primo impatto, ma quando si aprono diventano delle persone delizione.
Man mano che i chilometri aumentano, mi sembra di conoscere Paul da sempre, lui che per una vita ha lavorato anche come pescatore nel Golfo di Alaska. Ha una voce radiofonica e mi racconta di quando aveva lavorato in una piccola radio locale.

A guidarmi per 300 chilometri c’è Valery, arzilla driver di 70 anni che nel 1989 aveva creato insieme al defunto marito  questa piccola società, grazie alla quale tutti i giorni auto e mini van si spostano lungo una parte dell’Alaska per trasportare persone. Mi sembra di essere finito su un altro pianeta, il paesaggio cambia sfumature e contorni e tutte queste storie raccolte mi preparano ad affrontare una delle tappe più avvincenti del mio giro del mondo.

I racconti di Valery al volante mi fanno compagnia in questa lungo giro e, quando attraversiamo il piccolo villaggio di Nenana, mi sembra di essere finito in una zolla del vecchio West. L’immaginazione non avrebbe potuto raccontare ciò che ho vissuto e visto con i miei occhi. Il mio viaggio è appena cominciato, qui dove c’è l’ultima frontiera del Nordamerica.

Per l’amante della natura selvaggia, l’Alaska è uno dei più bei paesi al mondo. (John Muir)