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Category Diario di viaggio

Cartolina da San Paolo del Brasile: la domenica specialmente sulla Paulista

L’incontro con il cantautore brasiliano Carlinhos Vergueiro e il suo concerto sull’avenida Paulista,  ha contribuito a farmi vivere una domenica speciale in una delle arterie principali di San Paolo del Brasile. Nello stato di San Paolo ci sono arrivato per una promessa fatta ad Elvira, la moglie del fratello di zio mimmo, in una sera d’estate abruzzese di una vita fa: lei era originaria di qui e ci raccontò della sua città che, nonostante godesse della pessima nomea di “città frenetica per essere capitale economica”, era l’ombelico del Sudamerica.

Le grandi città brasiliane si svuotano la domenica, ma il brio che invade  l’avenida Paulista nel “dì di festa” ti travolge all’insegna del calore sudamericano: mamme e papà che portano a passeggio i bimbi, artisti da strada assiepati ovunque, podisti che vanno su e giù, c’è chi pedala o chi entra negli spazi culturali dove cultura e arte sono a disposizione di tutti e ad ingresso gratuito.
Gli artigiani e le bancarelle con i loro manufatti fanno da perimetro ad un mercatino che fronteggia il MASP, il Museo d’Arte di San Paolo nel quale sarei rimasto volentieri in ostaggio non solo per le preziose collezioni, ma per l’allestimento e per il modo in cui chi ci lavora ti coinvolge nella scelta dei percorsi.

Nel primo pomeriggio osservare la Paulista da un grattacielo vuol dire incrociare lo sguardo con una fiumana di giovani, il cui “struscio domenicale” mi ricorda quello praticato nei paesotti del mio Sud per fare “acchiappanza”.
Tornando a Carlinhos e al suo canzoniere, la sua musica dal vivo su un palco piazzato tra le fermate della metropolitana Consolaçao e Trianon è una molla che fa scattare un feeling tra ritagli di vita e ritmi brasiliani e la brama del viaggiatore in solitaria di far parte di questa comunità: ripenso alla chiacchierata con un musicista alla Livraria Cultura fino a tarda sera.

I Brasiliani sono espressione di generosità, proprio come Vergueiro che dona la sua storia cantautoriale ai passanti: ripenso al cassiere di Starbucks che mi offre il dolcetto e il cappuccino perché la mia carta non va; l’agente di viaggio Mauro che, dopo avermi procurato autista e auto per tornare in aeroporto, mi saluta con quel “Dio ti benedica”, una manna dal cielo per chi vagabonda in giro per il mondo; chi si prodiga per darmi una mano a ritrovare la strada persa alla faccia di chi pensa che Google Maps sia l’unica bussola se perdi la rotta.

Daniel è il simpatico autista che mi riporta in aeroporto. Mi racconta della storia d’amore con la moglie nata sui banchi di scuola, dei figli, del suo lavoro che gli porta a conoscere tante persone. Tra una chiacchiera e l’altra mette come colonna sonora del nostro tragitto Agua Viva, la famosa telenovela che io dall’Italia e lui dal Brasile guardavamo in tv con le nostre mamme.
Io e Daniel ci sentiamo due minuscoli puntini attraversando San Paolo, la città più popolosa del Paese e del Sudamerica, tenendo stretta alle nostre vita una sola speranza, quella che ogni uomo dovrebbe imparare a ritrovare alla fine di ogni viaggio.

Cartolina dalle cascate dell’Iguazù con un piede in Argentina e uno in Brasile

Quale migliore scusa per rimettere piede nell’adorata Argentina se non godendo di una delle sette bellezze naturali del mondo?
Entrando nel Parco delle Cascate dell’Iguazù a Misiones ho la sensazione che da lì a poco avrei vissuto un’esperienza naturalistica al di sopra di ogni previsione. Nonostante il tempo non fosse  dalla mia parte, accetto la sfida di salire su una barca e farmi inebriare sotto litri e litri d’acqua, sotto il tetto  delle cascate più famose del pianeta, spartite da Brasile e Argentina.

Sono letteralmente inzuppato, mi sembra di essere tornato all’estate in cui pensai di affogare a mare ed essere risucchiato dalle onde. Il peso dell’acqua delle cascate più belle  – secondo un americano al mio fianco sono mezzo punto anche sopra le Victoria Falls in Africa – nasconde un messaggio sopra ad ogni altro: la Natura si esprime attraverso un coro di voci e noi uomini, accecati dall’avidità del progresso, ci ostiniamo a non riconoscerne il valore e salvaguardarlo.

Dopo qualche ora di cammino arrivo alla Gola del Diavolo che, con il suo gettito d’acqua giù per 150 metri, è la regina della cascate dell’Iguazù. E’ qui che si manifesta la forza della Natura, il rigurgito del nostro pianeta Terra nella fluidità dell’esistenza umana e nel racconto naturalistico che fa della vita stessa la più grande avventura di cui dovremmo essere orgogliosi protagonisti.

Dopo un’intera giornata in Argentina, eccomi di nuovo in Brasile per ammirare questo spettacolo dall’altra prospettiva, senza sconfinare  nell’odiosa smania sondaggista di chi ti mette spalle al muro con il quesito: “Preferisci il lato argentino o quello brasiliano?”.

Lo show naturalistico è sicuramente in Argentina, ma un’altra giornata nel parco brasiliano è indispensabile per avere una visione super partes. Poi arriva la pioggia – qui bisogna metterlo sempre in conto – ed ecco che mi rintano nel lussuoso Hotel Belmond das Cataratas, scoperta incantevole accanto alle cascate brasiliane dell’Iguazù. E’ possibile visitarlo a qualsiasi ora del giorno, aggirarsi tra gli ambienti pubblici e godersi le atmosfere raffinate e altempo stesso familiari.

All’uscita finisco per sbaglio alle porte dell’antico accesso del Parco. Quattro chiacchiere con uno dei custodi, un caffè e la condivisione di quest’altra grande avventura fatta da una miscela di suggestioni tra la natura e la bellezza del creato, spartite tra Brasile e Argentina.  A malincuore mi tocca dire “Ciao, Iguazù”.

Cartolina dalla favela Rocinha: il cerchio della vita

Non ero convinto se mettere piede nella favela Rocinha, una delle più temute di Rio De Janeiro. Il dubbio principale, oltre alla questione sicurezza, era finire imbrigliato nell’odioso voyeurismo circense.
Mi era tornata in mente la stizza di quando nel ’92, prima che il polso di ferro di Giuliani rivoltasse come un calzino New York, per andare ad Harlem dovevi per forza fiondarti su un van e tirar fuori quasi 100$. I tour locali ci sguazzavano e facevamo quattrini, trasformando la zolla nera di Manhattan in uno show. Mi rifiutai, ci sarei tornato ventitré anni dopo in autonomia.

Tornando a Rio De Jaineiro, non sono leggende metropolitane le app che ti indicano in tempo reale le sparatorie di una delle metropoli brasiliane più pericolose. Se ne contano decine e decine, una dietro l’altra come i counter dei bimbi morti nel mondo per malnutrizione e la favela Rocinha resta uno dei territori da Mezzogiorno di Fuoco.
Andarci guidato da Be a Local non era soddisfare le curiosità del turista che voleva finire su un set cinematografico come fanno i tanti in visita nella mia Napoli, la cui massima aspirazione è vedere con i propri occhi le ambientazioni della serie televisiva di Gomorra.

Il lungo pomeriggio nella favela Rocinha è stato lo sforzo di guardare oltre la colata di fogna che scorre da su a giù come il potere gerarchizzato dei narcotrafficanti e le loro faide criminali. E’ stata una discesa, anche geografica, di quattro ore di “trekking sociale” dall’altro verso il basso a passo svelto in quelle strettoie, accompagnato dal rumore di una pioggia sottile e tagliente, alla ricerca disperata di quotidianità, di vita normale, di uomini, donne e bambini che sfidano il tutto per tutto per difendere a denti stretti la dignità di essere umani.

Qui dove il sole sembra non arrivare mai, le case si restringono in cunicoli in un contorsionismo di cemento che si rinchiude e si isola dal resto del Brasile, ho vissuto una delle esperienze più toccanti del mio arrembaggio da viaggiatore. L’incontro con artisti della favela, la danza con i bambini, i dolci fatti in casa da Maria hanno alleviato il dolore per i morti prematuri di tubercolosi, per le nefandezze di chi si mette di traverso allo Stato, per le armi da fuoco che ci passavano davanti agli occhi.

Prendendo per mano i bambini che ci venivano incontro e ci abbracciavano, ho toccato il cerchio della vita, è scolata ogni paura, i grattacieli di lusso tra Ipanema e Copacabana si sono improvvisamente sbiaditi e gli abitacoli della favela Rocinha hanno invaso l’impermeabilità del pregiudizio: il Brasile era tutto qui, come i calci magici ad un pallone dei Pelè, figli di un dio minore nelle favelas e molla del riscatto sociale sudamericano. La visita agli asili e le scuole per l’infanzia, supportati da organizzazioni umanitaria, mi ha fatto guardare in faccia gli educatori e i volontari che tutti i santi giorni danno qui il loro contributo.

 

Uscito dalla Rocinha, avevo gli occhiali appannati. Pensavo fosse il residuo della pioggia, invece no dovevo imparare a riconoscere le mie lacrime, in un misto di dolore e rabbia, sciolte in un pensiero che mi ero portato al ritorno dal mio viaggio in Cina:

La speranza è come una strada nei campi: non c’è mai stata una strada, ma quando molte persone vi camminano, la strada prende forma.
(Yutang Lin)

Cartolina da Rio De Janeiro: memorie ritrovate

A Rio De Janeiro c’ero arrivato la prima volta nel 1981, attraverso lo schermo del nostro primo televisore a colori: il lungomare di Copacabana, nelle sequenze della telenovela brasiliana Agua Viva seguita da mia madre,  si era messo di sbieco nell’immaginario della mia infanzia. I personaggi, le storie e la colonna sonora ispiravano disegni di quei luoghi che condividevo con mamma e mi ripromettevo di visitare.

Sarà stato il ricordo di quei tempi a capultarmi subito sotto il Cristo Redentore, simbolo del Sudamerica, che mi fa ritrovare quell’estate di quarant’anni prima  su una 500  rossa con la mia famiglia a Maratea per ammirare il Cristo lucano. Rivivo le stesse emozioni con lo sguardo rivolto a Rio e al Brasile attraverso il belvedere mozzafiato dal Corcovado.

Per entrare nell’anima di Rio bighellono per le stradine di Santa Teresa gemellate con quelle dell’omonimo quartiere nell’amata Lisbona salgo e scendo  come un bambino sulla scalinata Sélaron, mi rilasso nel piccolo eden del Giardino Botanico, osservo la città che va a lavoro nel centro storico in largo Carioca, salgo sul convento di Sant’Antonio per godermi il centro dell’alto.

Bivacco a Botafogo, calpesto pagine e pagine di storia calcistica brasiliana sul campo da gioco del Maracanà, sosto in preghiera nella meravgliosa cattedrale di San Sebastiano, una vera perla architettonica controcorrente, volo in alto come se avessi le ali fin sopra il Pan di Zucchero, da dove ammiro la baia e il panorama più suggestivo della mia vita da viaggiatore.

Rio De Janeiro diventa mia lasciandomi andare in una lunga scarpinata di sei chilometri sul lungomare da Ipanema a Copacabana. Le onde dell’oceano sono più alte del solito, la spiaggia non è gremita, nonostante per i Brasiliani sia un luogo sociale e prolungamento della vita di tutti i giorni. I residence e i condomini lussuosi sul lungomare contrastano le forme presepiali delle favelas avvistate in lontananza. come la Rochinha dove vivrò uno dei pomeriggi più toccanti della mia vita da viaggiatore.

A spingermi a Rio de Janeiro è stata anche la devozione per le poesie e le canzoni di Vinicius de Moraes, il cui ricordo galleggia nel bar e ristorante Garota de Ipanema, ritrovo dei padri della Bossa Nova che ispirò l’omonima canzone. Mi siedo, sorseggio un caffè bollente, mi tornano in mente le parole di Toquinho durante l’intervista a Milano: le canzoni di Vinicius evocano luoghi e viceversa.

Me lo conferma anche Carlos Alberto Afonso, gestore del famoso negozio di musica Toca do Vinicius,  con cui chiacchiero piacevolmente e sbircio tra gli scaffali di quello che è oggi è diventato un centro culturale della Bossa Nova.

Carlos ritaglia ricordi su misura per me della Rio De Janeiro degli anni ’70 e ’80, mi racconta la passione per il canzoniere del nostro Sergio Endrigo, mi aiuta a ritrovare altre strade per una doccia di memoria e musica che si mescola ai crepuscoli avvistati sulla spiaggia di Ipanema, alla luna piena di Capocabana, mangiucchiando calamari fritti e bevendo caipirinha nei tipici chioschi o aggirandomi nel mercatino serale a caccia di cianfrusaglie artigianali.

Quando il tassista mi accompagna in aeroporto e siamo bloccati nel traffico, mi allontano dal centro con la consapevolezza che Rio e Johannesburg sono state le città che nei miei trent’anni di viaggi all’estero non mi hanno rassicurato in tema di sicurezza.
Nonostante tutto Rio De Janeiro mi è rimasta nel cuore: su un cartellone pubblicitario gigante campeggiano una donna e un bambino, assomigliano a me e mia madre su quel divano di periferia mentre sognavamo il Brasile dentro un tubo catodico .

Cartolina da Bahia de Todos os Santos: non tutte le “rapine” riescono con il buco

Su un barcone hai alle spalle Salvador tra gli ambulanti che ti danno una bottiglietta d’acqua per pochi real e il vocio dei bambini che si incantano davanti all’oceano: navigare la Bahia de Todos os Santos in Brasile ti riporta ai tempi dello sbarco dei portoghesi, quando il colonialismo con la scusa di portare progresso divorò le civiltà di questi luoghi.

Il tragitto fino a Morro de Sao Paulo, una delle isole più assalite dai turisti di Bahia, può superare le due ore. Ho il tempo per fare amicizia con Cata, insegnante cilena di inglese trasferitasi a Rio de Janeiro. Cata mi riporta ai miei giorni a Santiagio, al mio viaggio della memoria nel Cile dei Desaparecidos e alla profonda convinzione, maturata in giro per il mondo, che solo i viaggi possono farti toccare con mano le barriere ostili alzate dai regimi.
Io e la giovane insegnante cilena mettiamo sul piatto le esperienze di vita di generazioni diverse, le frulliamo e mescoliamo quei sogni comuni che ti farebbero superare qualsiasi ostacolo nella vita.

A Morro de Sao Paulo mi ritaglio il tempo per un fritto di gamberi e una capirinha con vista sulla spiaggia per poi andarmene a zonzo alla ricerca di scorci segreti, lontani dai turisti che attirano il sole per l’abbronzatura. Il vero cuore dell’isolotto è la parte dove abita la gente del posto, pacifica. Ci sono salite e discese, strettoie che fanno gola agli amanti del trekking, panorami fatti da collane di insenature.

Da lì non si avvista l’Ilha dos Frades, la vera meraviglia di Bahia che avrei visitato nei giorni successivi. Ci vogliono quattro ore su un catamarano per raggiungere quest’ultima da Salvador: l’acqua qui è così limpida che, grazie ai giochi di luce della sabbia, sembra di aver trovato un tesoretto. L’ilha dos Frades è semideserta e i ragazzi sul pontile, che mi indicano la scorciatoia per oltrepassare la scogliera, mi ricordano che siamo in bassa stagione.
Pousade e ristoranti chiusi mi fanno rinascere nel giro di una mattinata con il temperamento di Robinson Crusoe. L’incanto della passeggiata solitaria ti fa ritrovare te stesso distante dai luoghi comuni di chi lo ripete e poi, sotto lo schiaffo del rientro alla routine, lo rinnega con disinvoltura.

Itaparica invece resta una miniatura di Salvador in versione isolana. La attraverso su e giù in un paio d’ore di autobus, incantato dai suo sbalzi di vegetazione brasiliana tra zolle di foresta tropicale, gli ambulanti che vendono cocco e mango, case periferiche sparse lungo l’isola le cui finestre sono racconti sospesi di quotidianità. Poi finisco a mangiare in un ristorante alla buona accampato sulla spiaggia: un buffet, una birra ghiacciata, quattro chiacchiere con alcuni europei e poi all’uscita quattro passi sulla spiaggia.
La zona è isolata, a pochi metri da me ci sono due sbarbatelli ventenni che parlano in riva al mare. In Brasile mai abbassare la guardia, il pericolo sbuca quando meno te lo aspetti. Si avvicinano, farfugliano qualcosa in portoghese, faccio finta di non capire, vogliono derubarmi. Li guardo dalla testa ai piedi, indossano soltanto il costume, non hanno armi e non c’è nessuno che  faccia loro da “palo”, le case sono lontane. L’istinto mi suggerisce di pronunciare “Napoli”, la mia città natale,  e fare un gestaccio come per dire “non mi hanno fregato nella terra mia, vuoi vedere che adesso…”

Metto lo sgambetto, cadono a terra e io corro sulla spiaggia. La security fuori il ristorante nota la scena e si attiva. I due ragazzotti intanto se la sono già date a gambe perché, come sostengono due buttafuori, ci provano comunque. L’episodio increscioso non mi rovina lo spettacolare tramonto in barca sulla via del ritorno.

Cartolina da Salvador de Bahia: il Brasile dalla finestra della pousada del cugino Giovanni

Dalla finestra della pousada Suites do Pelo intravedo i colori di Salvador de Bahia: mi sento a casa. Giovanni, il proprietario della mia pousada preferita in Brasile, ha lo stesso cognome mio. Il papà era emigrato in Sudamerica da Salerno dopo il secondo Dopoguerra con un mucchio di sogni in groppa.
Io e Giovanni condividiamo le nostre storie private, è scintilla al di là del cognome Pipolo che ci spartiamo.  Ci inventiamo “una cuginanza” italo-brasiliana e quando gli altri ce lo chiedono, sorridendo sotto i baffi, noi riconosciamo una lontana parentela. Giovanni fa gli onori di un cugino maggiore e mi dà consigli utili, perché sa che degli itinerari dei turisti non me frega niente.

La mia perlustrazione di Salvador comincia con una scarpinata fino a giù a Barroquinha, dove di turisti non c’è neanche l’ombra. Gli occhi sempre aperti, mi raccomanda il parroco della chiesa della zona, perché i pericoli a Salvador ci sono, soprattuto quando dopo il tramonto le strade di quest’area si svuotano. Mi guardo intorno tra i meravigliosi edifici fatiscenti, le corriere piene di ragazzi al ritorno da scuola, scolandomi una bottiglia d’acqua gelata presa in una bottega che assomiglia ai rivenditori di bibite della mia Napoli.

Sì, Salvador ha tanti tratti comuni alla città che  mi ha dato i natali: mi arrampico tra le viuzze del Pelourinho, il centro storico della capitale di Bahia, e mi sembra di essere finito nei vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Le facciate colorate delle case si mescolano all’architettura delle chiese, i suoni degli artigiani che fabbricano gli strumenti musicali di Bahia si sciolgono nel vocio della gente, i dipinti degli artisti locali riflettono i colori del cielo, delle nuvole, del tetto che sovrasta Salvador.

Mi fermo nella casa di Jorge Amado e penso che, forse se non avessi letto e amato i suoi romanzi, neanche sarei qui. Assaggio la cucina locale nei ristorantini nascosti dove talvolta la voce e le note di un cantante mi riportano alla musica meticcia di Bahia, quella fatta dall’impasto nero, bianco e indios. Resto ore e ore in un negozietto di musica di Praça da Sè e mi chiedo come farò a portarmi tutti questi chili di musica fatti di cd, vinili, copertine prima che il digitale ci stordisse con i suoi bit e la liquefazione. Del resto Bahia è la terra di Caetano, Gilberto, Maria Bethania e forse senza le loro canzoni non sarei arrivato fin qui.

Prendo l’ascensore panoramico, bighellono sul porto, converso con gli artigiani del vecchio mercato, mi infilo in un autobus pubblico, attraverso Salvador per decine di chilometri, mi passa per un attimo la sottile paura che possa accadermi qualcosa. Sono a ridosso della spiaggia di Rio Vermelho in un sabato pomeriggio tra locali, la brezza, un buon piatto di carne che mi viene servito con gli occhi puntati sull’oceano, le cui onde travolgenti non risparmierebbero gli incauti naviganti.
Poi mi incammino verso Barra, l’altra spiaggia cittadina, mentre uno dei soliti acquazzoni di passaggio mi inonda e mi fa sentire parte dell’oceano. A Barra c’è un faro che solfeggia l’anima del romanzo di Virginia Woolf, le nuvole si mescolano con i colori di un tramonto pazzesco, lo struscio degli innamorati mano nella mano, il cocco venduto dagli ambulanti, mi sembra di esserci nato a Salvador.

Quattro giorni volano a Salvador e in quella pousada Suites do Pelo ci ho fatto la mia seconda casa con l’aiuto di Luciano, Daniele, Paulo e Anderson, i ragazzi che lavorano lì. Quando Giovanni mi riporta in aeroporto nel buio della notte, gli dico che un giorno dovrò ritornarci, magari con la mia futura moglie e i figli che verranno perché su una cosa insisto: noi viaggiatori abbiamo un mattone di una casa in ogni città in cui vi abbiamo lasciato l’anima.

Giovanni mi saluta regalandomi a sorpresa un suo vecchio vinile di Caetano Veloso. Il gesto mi commuove e da quel momento a chiunque mi avrebbe chiesto il perché di questo viaggio in Brasile, avrei risposto bonariamente “per mettermi alla ricerca del cugino italo-brasiliano”. Dopo i litri di musica e i chili di letteratura che mi hanno spinto fino a Salvador, da oggi c’è un amico: “mio cugino” Giovanni Pipolo.

Cartolina da Recife: il Brasile nella quotidianità dell’anima di Dalva e Edson

In Brasile, il 48° Paese del mio giro del Mondo, mi hanno portato le poesie di Vinicius De Moraes, gli acquerelli musicali di Toquinho, le canzoni rivoluzionarie di Caetano, Gilberto Gil, Chico Barque e Maria Bethania, i  romanzi di Jorge Amado, i racconti di vita vissuta di zio Mimmo, le urla inghiottite dal Maracanà, il lungomare di Copacabana sognato con mia mamma guardando una telenovela Brasiliana. Niente cataloghi, niente consigli di viaggio, niente set costruiti.
A Recife, nello stato del Pernambuco, arrivo alle 3 del mattino. Fino a pochi giorni prima della partenza, non avrei immaginato di trovare Edson e Dalva ad accogliermi: quest’ultima aveva vissuto per un lungo periodo alla periferia di Napoli alla fine degli anni ’80.

 

Sonnecchio qualche ora e la prima alba  del mio ritorno in Sudamerica è in un sobborgo di Recife, poco distante dall’aeroporto. Dalva mi racconta che Jardim Jordao non gode di una buona nomea, nella parte alta ci sono “i baby killer”, quei mocciosetti con la pistola che sono la dannazione brasiliana fuori i perimetri delle aree poco sicure. Non trascuriamo la gente onesta e semplice come Dalva e Edson, costruttori di amore e  felicità in tutti questi anni di matrimonio.

Dalva mi mostra vecchie foto stampate su carta Kodak, le brillano gli occhi, il periodo vissuto nel napoletano non si è mai assopito dentro di lei, le persone, i legami dei tempi andati. Nel frattempo Edson mi presenta ai vicini. La signora è nonna di una cucciolata di nipoti a 55 anni, si è sposata a 14. Mi giro intorno, tutti vivono con l’essenziale ma respiro tanta aria di felicità intorno a me. Quanto tempo era che non ne annusavo?

Poi passa a prenderci un’auto e inizia il nostro giro a Recife antica con la guida di Eliane, la sorella di Edson, che collabora con diversi musei della zona. Qui di turisti europei ne arrivano pochi, mi godo la città in un giorno lavorativo qualsiasi, con la spiaggia semideserta, i cavalloni oceanici, i palazzi fatiscenti che profumano di antichità, un centro culturale inaspettato e tassellato di arte.
Io, Dalva ed Eliane sorseggiamo un buon caffè brasiliano in una caffetteria dell’inizio del ‘900 del centro storico, accompagnandolo con una succulenta Coxinha, che può fare invidia agli arancini appuntiti siciliani.

 

Quando il tramonto si accovaccia sulla capitale dello stato del Pernambuco, mi sento già parte di questa comunità e il timore fisiologico del viaggiatore solitario in un nuovo Paese a lui sconosciuto si assottiglia, nonostante sia solo il mio primo giorno in Brasile.
Quando mi giro per salutare tutti prima di ripartire, mi sembra di rivedere nonna Lucia che, prima dell’inizio di ogni mio vagabondaggio, mi ripeteva: “‘A Maronna t’accumpagne”.
Mi stropiccio gli occhi perché ho visto il Brasile nell’anima della quotidianità di Dalva, Edson, Eliane, sua mamma e tutto quel piccolo mondo antico, distante dalle brutture dell’Italia di questo tempo.

So che non sarò solo, nonostante tutto. Sono in volo tra le stelle e le nuvole del Brasile.

 

Cartolina da Johannesburg: ho paura degli orrori dell’Apartheid

Dicono che gli italiani si limitino ad uno stopover a Johannesburg, quella che passa per la città più pericolosa del Sudafrica, per poi dirigersi nel Parco Nazionale del Kruger. In realtà a Joburg – questo il nomignolo dato alla città più grande del Sudafrica – c’è poco da scherzare in centro quando la luce affonda nel buio della sera.

I turisti e gli ospiti li sloggiano nei quartieri residenziali per dare loro la solita minestra riscaldata condita dallo “stiamo tutti bene”. I viaggiatori come me, fuori dal gregge, restano in centro perché è qui che si concentrano le ferite da leccare dell’Apartheid.

Le gang attaccabrighe, che si aggirano sulla De Kort street dopo il tramonto, trovano qualsiasi scusa per coinvolgerti in una rissa. C’è ancora tanta rabbia verso chi ha la pelle bianca, anche se alcuni dei residenti di Johannesburg mettono il dito sul fuoco perché ai criminali non interessa il colore della pelle, ti pisciano proiettili in faccia comunque anche per una manciata di grana addosso.

Il mio viaggio a Joburg inizia all’alba su Constitution Hill, il luogo simbolo degli orrori dell’Apartheid chiusi con il lucchetto nella prigione in cui fu detenuto Nelson Mandela. Roy che lavora in questo complesso mi racconta di quando da piccolo sentiva parlare dell’attivista dei diritti dei neri, destinato a diventare il primo Presidente del Sudafrica “libero”.
La censura governativa non faceva circolare alcuna foto. Il viaggio nell’ex prigione è emozionante, la mano di ferro dell’Apartheid discriminava i detenuti per il colore della pelle, rendendo a Mandela e compagni la vita un inferno.

Poi si vagabonda a Joburg tra le strade del centro per ricostruire le tappe del colonialismo olandese e inglese che sfregiò il volto di questo Paese del continente nero. Il Museo dell’Apartheid raccoglie memorie e ce le sputa in faccia, lasciando l’ennesimo rimorso di non aver fatto abbastanza e non averlo compiuto nel tempo giusto.

Il tramonto si scioglie come la sera su Joburg. Io ho paura degli orrori dell’Apartheid e dei governi criminali che ne sono stati complici.

Sudafrica on the road: anche gli elefanti hanno un’anima

Una mattina avevo tracorso più di un’ora con l’elefantessa Thandi. Il Santuario degli elefanti nell’Eastern Cape è stata una tappa importante per imparare qualcosa sul loro piccolo grande mondo, prima di vivere l’emozione di un’intera mattinata nell’Addo Park in Sudafrica.

Non essere africano significa aver vissuto i traumi dello zoo e del circo. Sì, oggi dico “trauma” perché, finché non li osservi nei loro habitat naturale, non puoi capire cosa hanno dentro. Non è questione di essere animalista sfegatato o non,  è questione di prendere coscienza della loro anima.

Ti segna osservare da vicino una ciurma di elefanti passeggiare, raccogliere nella lentezza dei loro movimenti il senso della vita, oltre la buffa proboscite che ci aveva conquistato guardando Dumbo della Disney negli anni della nostra infanzia.
Quando di sbieco vedi l’elefantino inciampare e non riuscire a rialzarsi, sei abbagliato dalla bellezza suprema della maternità. Resta una delle sequenze più emozionanti di questo mio on the road sulla Garden Route la cucitura di istanti in cui  mamma Elefante fa di tutto per aiutare il suo cucciolo.

Thandi e il suo piccolo grande mondo di elefanti hanno ancora tanto da insegnare a noi uomini assuefatti dalla ferocia. Ci sono gesti, come quello di una mamma che fa rialzare il proprio figlio, che non sono rimasugli degli animali addomesticati di un circo.

In quella parte del Sudafrica ho ascoltato la voce di una natura così armoniosa e di Dio capace di aver fatto dell’amore l’unico senso alla nostra vita.

 

E ricorda… un elefante non dimentica niente. (R. Kipling)

Sudafrica on the road: noi un pezzo di mondo in un van sulla Garden Route

Ci avevano piazzato in un van senza sapere quali fossero i nostri punti di contatto. L’unica cosa che sapevamo erano le nostre provenienze: Italia, Inghilterra, Olanda, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Sudafrica. Quando percorri in lungo e largo la Garden Route, fioriera sudafricana tra Western e Eastern Cape, ti immergi dietro un sipario della natura.

Tra una remata e l’altra in quella canoa lungo uno dei fiumi del Garden Route National Park avevo trovato briciole della storia personale di Gareth, la nostra guida,  infanzia e adolescenza a Port Elizabeth, nonna scozzese, una nuova vita a Città del Capo.
La natura ti fa ritrovare i tuoi simili, perché durante una lunga scarpinata, incantato di fronte a un panorama, ascoltando la voce fragorosa dell’oceano puoi riconoscere chi affronta la quotidianità con quel pizzico di strafottenza e legarti inevitabilmente a lui.

Quei duemila chilometri on the road assieme a  Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah, mi avevano restituito il clima di condivisione tipico dei tempi in cui vai via da casa e ti barcameni in uno stile di vita autonomo.
La casa di Mark a Sedgefield era diventata, nel giro di qualche giorno, il punto di partenza e ritorno dalle nostre scorribande. Mark, nato e cresciuto a Johannesburg, era un perfetto padrone di casa: ospitale, accogliente, capace di preparare ghiottonerie con pochi giochi di prestigio ai fornelli.

Era la sera, dopo cena, sotto le stelle del Western Cape che ci aprivamo sorseggiando un bicchiere di vino, eravamo così lontani geograficamente ma vicini nel nostro modo di essere, frantumando le pareti che, a differenza di tanti, non ci hanno mai sottratti all’essenza di crescere come autentci esploratori della libertà.

Ci sentimmo un pezzetto di mondo, dentro e fuori quel van, guardando diritto negli occhi il crepuscolo oceanico di Jeffreys Bay, sperando che tutto questo non finisse mai. L’ingrata consapevolezza da quarantenne che non avrei rivisto più Gareth, Sue, Eddy, Hanne, Bodhi, Lana e Sarah fece improvviso spazio alla lucida speranza del instancabile viaggiatore: non li avrei dimenticati mai più.

 

Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone. (J. Steinbeck)