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Category Diario di viaggio

Sudafrica on the road: African Cream Music, la mia colonna sonora sulle orme della libertà

Quando Alex Agulnik fondò l’etichetta discografica indipendente African Cream Music, era consapevole che la musica restava una scorciatoia per arrivare diritti al cuore della storia di un Paese. Negli oltre 3 mila chilometri on the road in Sudafrica alcuni album fondamentali pubblicati dalla label con sede a Johannesburg hanno fatto da colonna sonora al mio viaggio.

Il sorriso di Nelson Mandela che illumina la copertina del doppio cd The Winds of Change altro non è che l’apripista di un viaggio musicale nel viaggio. Questa è la mia compilation preferita perché, grazie ad una selezione certosina, ci sono le tappe dei cambiamenti del Sufadrica che marciò verso la libertà, schiacciando il letame della politica che aveva alimentato l’Apartheid: Windows of Change di MacMillann, Asimbonanga di Johnny Clegg, Papa Stop the War di Chicco o Power of Africa di Chaka Chaka sono gemme che cospargono di letteratura le sonorità sudafricane.

Non posso che associare il mio vagabondaggio sudafricano a queste canzoni, ai loro vezzi letterari, a quella loro forza di essere cartoline da spedire senza francobollo con gli slogan che cicatrizzano le ferite di una terra: Freedom Songs, Voice from Mother Africa o Songs and Stories of Africa sono compilation che mettono a tacere il silenzio e l’omertà che hanno aperto buchi e trasfori nelle nostre coscienze.

Attraversando la provincia del Mpumalanga che mi porta tra le braccia del Parco Nazionale del Kruger, l’ascolto dell’album Singabantu di Skipper Shabalala mi ricorda che gli immigrati di altri stati confinanti hanno dato una nuova linfa alle sonorità sudafricane, che spesso sfuggono agli odiosi turisti distratti e attratti dai luoghi comuni.

 

Non importa se sei ricco o povero, dobbiamo essere uniti per essere una nazione compatta. Siamo tutti essere umani. (Skipper Shabalala)

Sudafrica on the road: testimonianze ritrovate nella piccola libreria di Chris Steyn ad Hermanus

Ad Hermanus, scorazzando on the road nel Western Cape del Sudafrica, c’è il tempo per godersi l’oceano e il panorama frastagliato, mangiare un buon hamburger di carne locale con il vento tra i capelli. Mi sposto fuori dal perimetro turistico, passeggio, mi guardo intorno, la gente esce dal supermercato con le borse della spesa, faccio il ficcanaso con la reflex, butto l’occhio nella vetrina di The Book Collector.

Ci entro, scorro gli scaffali e vecchi libri di storia locale. La libreria gestita da Chris Steyn sembra una piccola biblioteca, dove sono rintanate le memorie del Sudafrica. Chris mi fa da guida, intuisce che il mio viaggio in Sudafrica ha come scopo quello di mettere le mani nel fango dell’Apartheid: c’è un meraviglioso libro dedicato al District Six di Città del Capo, un diario illustrato degli anni ’60 che ne racconta la quotidianità.

Da uno scaffale in fondo alla libreria escono fuori dei mini dossier stampati nell’Inghilterra dei primi anni ’80 che testimoniano quanto le lobby politiche degli ex-colonialisti abbiamo alimentato l’infame sistema, castigo per i neri africani.

Dopo aver pagato il conto, Chris mi regala il libro Published and be Damned: Two Decades of Scandals di cui è l’autrice. Scopro così che la proprietaria di The Book Collector è una giornalista, che ha firmato tante inchieste sui quotidiani sudafricani a cavallo tra gli anni ’80 e  ’90.

La mia instancabile andatura da giornalista viaggiatore mi ha condotto, senza saperlo, verso una collega con cui, pur avendo avuto approcci lavorativi diversi, continuiamo a spartirci la passione per un mestiere che, in qualsiasi angolo del pianeta, non deve mai perdere la ricerca della verità.

 

Non conosci niente, ragazzina. Niente. Dovevi pur cominciare a fare questo mestiere… (Johnny Johnson, direttore del quotidiano The Citizen)

Sudafrica on the road: il mio Freedom Day con il pinguino Madiba

La mattina del 27 aprile Città del Capo è deserta. E’ festa nazionale, è il Freedom Day, la ricorrenza che celebra le prime elezioni democratiche tenute in Sudafrica negli anni post-apartheid. In tanti fanno di questa giornata il pretesto per un gita fuori porta.
Tento invano di raggiungere Simon’s Town, sulla penisola del Capo, con un treno locale, ma è inutile. Si accumulano ritardi in partenza e lo sciopero generale del trasporto pubblico di questi giorni continua a destabilizzare gli spostamenti.

Mi muovo con un taxi, le nuvole rincorrono sprazzi di sole, a prima mattina le strade sono vuote. A Kalk Bay c’è un fish & chips sul porticciolo e si sente già quell’odore di pesce fritto che vorresti evitare a prima mattina.
La signora all’entrata mi fa cenno che sono ancora chiusi e per pranzo mi consiglia di prenotare perchè i tavoli si riempiranno. La ringrazio, sono solo di passaggio, la mia meta è Boulder’s Beach per trascorrere questo giorno solenne con i pinguini africani.

Ci arrivo quando la spiaggia è deserta ancora, lontano dai flash indiscreti dei turisti ammassati, ci siamo solo io e loro. Osservare i pinguini a Boulder’s nella loro quotidianità è uno spettacolo senza precedenti, ti riappropri dello scorrere della vita fatta di piccole attenzioni, della fedeltà che ogni pinguino ha per la sua compagna, di quella camminata buffa, di quella eleganza impettita e mi ricorda nonna Lucia la prima volta che mi vide in smoking per il Festival del Cinema di Venezia: “Sembri proprio un pinguino”.

Appena arrivano i primi turisti, mi sposto su una spiaggetta poco distante da lì. Non c’è nessuno. In riva all’oceano un bmbo che gioca con la madre. Mi sento picchiettare al ginocchio. E’ un pinguino e a pochi passi da lui c’è la compagna. Non posso crederci, quando mi ricapiterà mai un’occasione del genere? Mi presento, gli parlo e lo battezzo Madiba, come Nelson Mandela, perché si è staccato dalla ciurma dei suoi compagni di avventura ed è venuto impavido verso di me.

Madiba il pinguino mi ha ricordato che staccarsi dal gruppo per irrobustire il senso di libertà del singolo è il primo passo per conquistare la libertà collettiva. Chi mi crederà mai che ho condiviso il mio primo Freedom Day in Sudafrica con un pinguino?  Mi metto in posa, il piccolo Madiba segue la mia andatura, siamo entrambi pronti per uno dei selfie più emozionanti dei miei viaggi in giro per il mondo.

Il pinguino picchia di nuovo sotto il mio ginocchio, prende per mano la sua compagna e scompare tra i cespugli. Resto a guardare l’oceano e mi torna in mente una dichiarazione di Nelson Mandela:

Il compito più difficile nella vita è quello di cambiare sé stessi.

Il Sudafrica ha restituito anche a me il Freedom Day.

Sudafrica on the road: Cartolina da Città del Capo

Non sono arrivato in Sudafrica dopo aver visto foto paesaggistiche su un catalogo turistico o per assecondare mode o tendenze di viaggio popolate da decine e decine di selfie che ammiccano ad organizzare la prossima vacanza qui. La mia prima volta in Africa sarebbe stata qui, in Sudafrica: lo promisi a me stesso sui banchi delle scuole medie quando mi vomitarono addosso il dramma dell’apartheid.

Mi sembra di essere tornato a New Orleans prima dello sfacelo dell’uragano Kathrina. Così mi appare a prima mattina Città del Capo, dopo 10 mila chilometri in volo sul continente africano.  Scivolo su Long Street fino al Waterfront, dove sono ormeggiate le barche.

Cape Town sembra una scorza di terra afro-americana e in quell’imbuto protettivo capeggiato dalla Table Mountain, una delle sette bellezze naturalistiche del mondo, è rinchiuso il piccolo mondo antico del colonialismo europeo. Di inglesi e olandesi ce ne sono a quantità industriale, la memoria evapora e le nuove generazioni venute a godersi la perla sudafricana forse neanche sanno degli orrori dei loro antenati.

A Greenmarket square converso con gli ambulanti dell’atmosfera del mercato, che mi riporta a quello della Duchesca della mia Napoli. Lungo il viale del parco che costeggia il Parlamento mi soffermo ad ascoltare i musicisti da strada e quelle incursioni jazzate che vorrebbero fare di Città del Capo la New Orleans musicale africana.

Il meteo è decisamente dalla mia parte, perché se arrivano i nuvoloni bastardi la Table Mountain te la sei giocata. Salgo in cima in cabinovia, vagabondo da un punto all’altro di questa zolla di parco nazionale. Il panorama è davvero mozzafiato. Da lì intravedo già le spiagge di Camps Bay che fanno di Cape Town l’amaca sull’oceano su cui chiunque vorrebbe crogiolarsi. Butto via le scarpe, al mio fianco c’è una famiglia di colore sudafricana che si gode le onde dell’oceano. Metto i piedi nell’acqua, è ghiacciata, faccio amicizia con i ragazzi: “Veniamo in spiaggia quando possiamo. Ci piacerebbe restare a dormire in una di queste belle case. Roba da ricchi, non certo per noi”.

Il luogo simbolo della Cape Town nera non è di certo Camps Bay, piuttosto il District Six da dove nel ’66 cominciò la deportazione forzata di tutta la gente di colore. Vi giro in lungo e largo per racimolare testimonianze come quella di queste ragazze del quartiere nel selfie con me, i cui genitori appartengono alla generazione che ha vissuto quei giorni drammatici.
La nascita di bar e locali deturpa la memoria  in contrasto con ciò che resta dell’archivio dell’Apartheid: il piccolo District Six Museum nella vecchia chiesa metodista del quartiere.

Il mio primo tramonto in Sudafrica è tra le vecchie case del District Six e il mio viaggio dedicato alla memoria di Nelson e Winnie Mandela parte proprio da questo pezzo di spugna di Città del Capo, che ha assorbito litri e litri di lacrime.

 

Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni.

(Nelson Mandela)

Diario di viaggio: Neve a Napoli e la spalata di ricordi di Burian

“Chi tene ‘o mare nun tene ‘a neve” non è la rivisitazione di un verso di Pino Daniele quanto la consapevolezza di chi una nevicata l’ha vista di rado nei luoghi in cui è cresciuto. Nel lontano 1985 Napoli e provincia furono totalmente imbiancate ed io, insieme ad alcuni compagni di classe delle scuole medie, rischiai una sospensione per essere scappato in cortile.

I meno audaci tra noi si accontentarono di guardarla dalla finestra, noi no, ci chiedevamo cosa si provasse ad avere quella coltre bianca tra i capelli. Noi quattr’occhi alzammo gli occhi al cielo e ci ritrovammo gli occhiali appannati. L’effetto della neve che si scioglieva sule lenti sembrava una magia bella e pronta. Quel pomeriggio dell’85 volevamo non finisse mai.

Dopo 33 anni esatti Burian, il gelido vento siberiano, fa visita a Napoli nello stesso giorno in cui mi trovo io di passaggio: questa nevicata intensa da una parte seppellisce strade, tetti delle case, o nasconde macchine, dall’altra spala i ricordi. In questo lasso di tempo della mia vita fatta di viaggi e vagabondaggi ne ho vista tanta di neve, ma non è la stessa che si appoggia nei posti in cui sei cresciuto.

La neve non prende forma, piuttosto dà forma ai ricordi e produce quella condensa che non fa rumore e si deposita negli angoli più fitti dell’anima: penso all’ultimo fischio del ferroviere Giovanni che se n’è andato per sempre dopo la bufera o al medico di stamattina che ha condiviso con me un fotogramma della fioccata dell’85, vissuta da neolaureato volontario in ospedale, bloccato in un autobus al Vomero.

La neve si ghiaccia sui marciapiedi e il rischio più grande è la scivolata. Io e Pasquale, amico dai tempi dell’adolescenza, siamo scivolati sul ghiaccio dei ricordi con la matura presa di coscienza che rinchiudersi in sé stessi è uno dei morbi più pericolosi di questo tempo.
Burian ha piegato l’Italia nella morsa del gelo e ha restituito alla mia generazione che visse la nevicata dell’85 a Napoli il ritrovarsi nel nome dei sogni comuni difesi a denti stretti come la scorciatoia per tornare ad ascoltare i passi della vita che qualche volta come la neve non fanno il minimo rumore.

Aveva ragione Giovanni il ferroviere quando disse a me e al figlio Antonio, nel cortile di casa sua, che al di là dell’euforia da ventenni l’amicizia con le radici non evapora. “Chi tene ‘o mare nun tene ‘a neve”, ma chi sa dialogare con la propria memoria senza rimorsi e rinnegamenti saprà incantarsi ancora di fronte alla prossima nevicata, a Napoli, nei posti che ti hanno reso l’uomo che sei.

La paura di tornare su un treno Trenord dopo il disastro ferroviario

La nebbia che avvolge questo lunedì mattina nel milanese sembra un frammento di celluloide di Deserto Rosso di Antonioni. Torno a viaggiare su questi binari ed è la prima volta dopo il disastro ferroviario di Pioltello.
Salgo su un treno Trenord in direzione Milano e vedo meno gente del solito all’ora di punta. Guardo gli altri passeggeri uno per uno, alcuni assorti, altri storditi dallo smartphone, qualcuno con lo sguardo perso nel riflesso del finestrino.

Pendolare è chi viaggia nella stessa direttrice, viaggiatore è chi attraversa il territorio toccando tutti i punti cardinali. Faccio due conti: dal 2009, anno della nascita della società Trenord, ho percorso con il trasporto locale almeno 250.000 chilometri su e giù per la Lombardia.

I treni locali erano il mezzo delle mie esplorazioni adolescenziali – a 12 anni la fuga solitaria dalla periferia per andare in autonomia dai miei nonni a Napoli – e lo sono ancora tutt’ora. Ho imparato a conoscere la Lombardia percorrendo i chilometri di tutte le linee ferroviarie, principali e secondarie, dalla Valcamonica alla Valtellina, dal pavese alla bergamasca, dal mantovano al bresciano, raccogliendo storie della gente del posto.

Ho visto macchinisti portarci a casa sotto le nevicate, ho chiacchierato con capotreni, incluse le donne lontane da figli e famiglia nelle ore maledette dei turni serali. Persino su quelle tratte da vecchio West come Cremona-Treviglio o Brescia-Piadena ho avuto modo di fare scorribande indietro nel tempo e ritrovarmi nella Lombardia in bianco e nero.

Nell’ultimo anno mi sono trovato spesso a Cremona prima dell’alba. E se ci fossi stato anche io sul maledetto treno che il 25 gennaio ha ferito un centinaio di passeggeri e ammazzato tre donne? Mi vien voglia di prendere la tessera da abbonato annuale e strapparla in mille pezzi. Non si può morire andando a lavoro.

Non è un inizio di settimana qualunque e non voglio far finta di niente. Mi guardo intorno e cerco i volti di Giuseppina, Pierangela e Ida, mai uscite vive dalla lamiera di quel treno. Mentre sto scrivendo questo diario di viaggio, ci sono quattro manager nel registro degli indagati. La rabbia non serve, produce solo altra rabbia, ma la giustizia dovrà dare un segnale efficace.

Ho paura di risalire sul treno che prendo ogni mattina, perchè la sicurezza, diritto inespugnabile di ogni cittadino, si è ridotta alla solita barzelletta all’italiana. C’è gente senza scrupoli che senza abbaiare morde più di quanto non facciano i brutti ceffi o i vandali che tentano di spaventarci nelle ore notturne.

Giuseppina, Pierangela e Ida non hanno fatto più ritorno a casa. Non possiamo fingere che non sia accaduto niente, soffocati dalla rete dei rassegnati e fatalisti.

La mia traversata del 2018 sciolta in 30 anni di viaggi all’estero

Il passaggio verso l’anno nuovo l’ho vissuto con totale estraneità nei confronti del rituale brindisi. Pensavo fossero i rimasugli dell’ultimo viaggio in India, in realtà con il toc toc di questo 2018 ha bussato alla porta della mia vita una ricorrenza speciale: 30 anni di viaggi all’estero a budget ridotto.

Per un adolescente della mia generazione sbarcare in Inghilterra alla fine degli anni ’80 era come mettere il piede sulla luna. I costi erano esorbitanti anche per una vacanza studio e questa non era una concessione per un figlio di un operaio e una casalinga, a meno che non si scegliesse di andarci alla pari.
A distanza di anni sorrido ripensando alla ciurma di professori in paese che si affannavano per spedire i pargoli oltre Manica, ammalati della tipica illusione provinciale per cui l’Inghilterra glieli avrebbe restituiti tutti anglofoni in un paio di settimane. Si presero una gran bella fregatura a non tenerli sotto gli ombrelloni del litorale domitio.

Nell’estate del 1988 l’Inghilterra diventò inconsapevolmente l’isola che mi fece viaggiatore e, nelle estati successive, girarla in lungo e largo segnò i punti cardinali della mia crescita, lontana anni luce dai tempi in cui i viaggi possono stritolarsi in un’accozzaglia di selfie.

Londra si trasformò nel mio ombelico del mondo, determinando scelte future, in cui studi e passioni lavorati ad un uncinetto avrebbero tracciato lo stile di vita di un viaggiatore.
Non avevo compiuto ancora quindici anni, quando da una cabina di Westminster telefonai mamma a carico del destinatario per dirle che avevo mollato il gruppo, ero da solo alla ricerca della casa di Charles Dickens, lo scrittore vittoriano che ci accomunava nella letture.

Con quel gesto audace e incosciente feci del viaggio l’arma per esplorare me stesso e il mondo che mi circondava: sputai in faccia al timido bullismo di cui potevano essere vittime quelli della mia età nei viaggi di gruppo all’estero e staccarmi dal branco si rivelò una scelta di vita.

Rivedermi adolescente a piedi nudi sulle strisce pedonali di Abbey Road a Londra, oltre a farmi ritrovare il beatlesiano che da sempre è in me, è l’occasione per essere riconoscente a questi 30 anni di viaggi: mi hanno dato la forza per non abbassare mai la guardia e dire no a tutti coloro che avrebbero voluto farmi indossare le proprie scarpe per entrare nelle tribù matriarcali e patriarcali che mortificano il sano individualismo.

Al ritorno da ogni viaggio pensavo che gli altri fossero cambiati. In realtà ero io ad essere cambiato, rimanendo me stesso, ed oggi con i capelli brizzolati riconosco di aver avuto dalla vita la sfera di cristallo: era il mappamondo regalatomi da mia madre in un’epifania dell’infanzia, su cui erano segnati i 46 Paesi stranieri che hanno raggomitolato la mia anima di sognatore ribelle negli ultimi trent’anni.

 

Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo. (Albert Einstein)

Diario di viaggio: perché ho lasciato le mie camicie in riva al Gange

Quando ho messo nel bagaglio le mie camicie con il collo consumato, mi sono detto chissà in quanti penseranno che una camicia vecchia non va conservata per tanti anni. C’è chi le camicie se le fa cucire su misura, i fricchettoni si fanno appiccicare le iniziali, i modaioli vestono le grandi firme.

Le mie sono camicie anonime che mi hanno accompagnato negli ultimi vent’anni in giro per il mondo. Tra queste ce n’era persino una che mi aveva regalato nonna Lucia, presa al mercatino di Fuorigrotta. Queste camicie non appartenevano alle grandi marche, sono appartenute soltanto a me, hanno preso la forma del mio torace, del mio corpo, hanno vestito la mia anima di viaggiatore, hanno visto la sua crescita ed evoluzione.

Queste camicie hanno fatto l’ultimo viaggio in India con me, non sono più tornate indietro, sono rimaste lì, le ho lasciate in riva al Gange. Qualcuno ha pensato fosse un rito religioso induista. No, è stato il mio desiderio di lasciarle in riva al fiume sacro dell’India per rendere omaggio alle persone defunte che hanno vestito la mia vita.

I grandi affetti non possono essere rimpiazzati, restano per sempre e sfidano il muro di gomma della morte. I morti non mi fanno paura, mi spaventano piuttosto i vivi affannati tra le loro inguaribili mediocrità. In una mattinata ho percorso quattro chilometri lungo il Gange a Varanasi e le ho abbandonate un po’ qui, un po’ là.

Sono convinto che saranno passati a prendersele, le avranno indossate e così un giorno lì riconoscerò perchè da bambino pensavo che gli angeli avessero un viso fatto di luce abbagliante.
Queste camicie mi faranno da bussola per ritrovarli: il nonno con quella celeste, la nonna con quella blu scuro che le piaceva tanto, la professoressa rivoluzionaria con quella bianca, lo zio militare con quella a righe, la migliore amica con quella a pois come le sue lentiggini che mi divertivano da bambino.

La sera, prima di partire da Varanasi, ho visto le mie camicie volare sul Gange al chiaro di luna. La profezia si è avverata. Mi sono sentito più leggero, sgombro dal peso delle paure umane. Lasciamoli andare i nostri morti, liberi, un giorno li ritroveremo e indosseranno una camicia.

 

Non ce ne siamo andati del tutto,

nessuno se ne va del tutto,

lo so perchè a volte torno

in un profumo,

in un suono,

in un colore

o in un sogno che poi dimentico.

(Patricia Monica Vena)

Cartolina dall’India: a casa della Missionarie della Carità di Madre Teresa

Le lancette dell’orologio segnano le otto e mezzo. A passi lenti avanzo in una stradina stretta nei pressi del ghat Shivala di Varanasi. L’insegna “Missionarie della Carità di Madre Teresa” mi indica l’arrivo. Un uomo sulla settantina sull’uscio mi annuncia. Sbuca una suorina e mi fa cenno di entrare: “Sapevamo della sua visita. La stavamo aspettando”.

Comincia così il mio viaggio nel viaggio nella casa di Varanasi fondata da Madre Teresa, la più importante dopo quella principale di Calcutta. “Ci conosceva una per una – mi racconta la suora – e passava in ciascuna delle sue case per guardare negli occhi le persone che accoglievamo”.
Scendiamo una rampa di scale, attraversiamo un corridoio, entriamo in una lunga camerata. Un uomo in pigiama mi sorride, una donna anziana farfuglia qualcosa e mi saluta con un cenno del capo.

In questa casa ci sono soprattutto malati con disturbi mentali. Poi entriamo in uno studio con una piccola scrivania al centro.
A lato campeggia un ritratto di Madre Teresa di Calcutta con un sorrise raggiante. La suora mi chiede del mio viaggio in India ed io le racconto di quando sui banchi di una scuola media di periferia mi impressionò l’operato di Santa Teresa di Calcutta. Esce nel cortiletto, stende il bucato.

Io resto immobile con lo sguardo fisso sulla finestra e mi convinco che dovremmo cercare la santità nell’operato che uomini e donne straordinari hanno lasciato qui in terra, e non sugli altari o nelle processioni.
Dovrebbe passare nella casa delle Missionarie della Carità tutta la stampa becera che ha ridotto la vita di Madre Teresa ad un’effimera operazione mediatica.

Mi incammino verso l’uscita. Dal cortile decine e decine di occhi luminosi mi salutano in coro così: “Goodbye and thank you for coming from Italy”.
E’ il buongiorno in India che mi accarezza il cuore, mi spoglia l’anima.

 

Sono come una piccola matita
nelle Sue mani, nient’altro.
È Lui che pensa.
È Lui che scrive.
La matita non ha nulla
a che fare con tutto questo.
La matita deve solo
poter essere usata.

Madre Teresa (1910-1997)

Cartolina da Varanasi: sul sacro Gange ho sentito le sue mani tra vita e morte

Rahul mi accompagna nel mio alloggio che affaccia sul Gange. Sono arrivato a Varanasi dopo una nottata di treno.  Indicandomi la scrivania, mi fa cenno come per dire “le sarà utile per scrivere”.
La mia vicina è Amita, figlia di una coppia indiana trasferitasi a Londra. Chiacchieriamo, le racconto del mio on the road in India e lei del ritorno al suo Paese d’origine.

Prima del tramonto, l’autista mi porta dal barcaiolo. Gli ultimi scorci di sole, in un tramonto di pastelli  che non potrò cancellare, accompagnano la mia navigazione sul Gange. Tra una remata  e l’altra sento in lontananza i canti provenienti dal Dasaswamedh Ghat che tutte le sere mettono a letto il fiume sacro dell’India.

Scende la sera, di fronte a me lampeggiano dei falò incandescenti. La barca si accosta alla riva, all’altezza del gath della cremazione. I corpi vengono bruciati, il tanfo di cadavere si mischia ad uno strano odore che non saprei descrivere. Un branco di cani mette la testa nel Gange all’altezza dei corpi bruciati. Tre grosse mucche si spostano lentamente avanti e indietro.

La foschia del fiume avvolge il bagliore del fuoco. Faccio cenno al barcaiolo di riprendere a remare. Sono sconvolto. Comincio a pensare intensamente a lei, perchè perdere la tua migliore amica quarantenne è l’affronto peggiore che il dolore possa farti.
Mi alzo in piedi sulla barca, lancio nel Gange una coroncina di fiori con una fiammella accesa. Man mano che il cuscino di fiori si allontana, sento due mani sulle spalle. Le riconosco, sono le sue.

Provo a voltarmi indietro, le sue mani bloccano il mio capo come per dire non girarti, non serve, “sono qui, ti aspettavo, sapevo che saresti venuto perché questo viaggio lo hai fatto anche per me”. Singhiozzo, si appannano gli occhiali e le sue mani arrivano all’altezza dei miei occhi, provando ad asciugare la colata delle mie lacrime.

Quella notte mi butto giù dal letto per riaffacciarmi sul fiume Gange dal mio balcone. Avevo capito che non avevo sognato, perchè i morti ci restano accanto per sempre.
Nel silenzio di quella notte di dicembre mi è stato svelato il motivo di questo viaggio: ritrovarla sulle acque del fiume sacro dell’India senza tempo.

 

Chi ha un vero amico, non ha bisogno di uno specchio. (Proverbio indù)