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Category Diario di viaggio

Cartolina da Agra: l’amore eterno custodito dal Taj Mahal

C’è ancora una mezza luna che brilla ad Agra. Non manca tanto alle prime luci del sole. Il Rajasthan è ormai alle spalle e nella regione indiana dello Uttar Pradesh sanno bene che bisogna arrivare prima dell’alba al Taj Mahal, affinchè la folla dei visitatori non faccia da gustafeste alla visita di una delle sette meraviglie del mondo.

Quando l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire il mausoleo in memoria della moglie preferita Mumtaz Mahal, l’India del XVII secolo non poteva di certo immaginare che questo sarebbe diventato il simbolo del Paese.
Incamminandomi verso il gioiello UNESCO, che a seconda della luce del sole veste sfumature colori diversi, mi sembra di rivedere le centinaia e centinaia di elefanti impiegati e fatti morire per trasportare il materiale per la costruzione.

Ciascuno di noi in pellegrinaggio in questo luogo si sente custode dell’amore eterno, perché le tombe dell’imperatore e della sua amata non sono altro che la sfida alla nostra esistenza segnata dall’epitaffio “finché morte non ci separi”.

Il Taj Mahal è l’ultimo baluardo dell’umanità convinta che l’amore per la propria donna, nonostante tutto, sia infinito nell’evoluzione che lo conduce a crescere, espandersi in tutte le fasi, dalla giovinezza alla vecchiaia.
Il Taj Mahal, attraverso la sua ala protettiva, libera questo amore eterno dalle convenzioni sociali che hanno affossato l’India sotto i ricatti delle caste.

Le convenzioni sociali non risparmiano nessuno di noi, nella lotta quotidiana ai ricatti degli assurdi e mostruosi riti sociali che vorrebbero dettare legge sulla nostra vita. Il turista se ne va con un mucchio di selfie in tasca, surrogati del narcisismo volgare dei social network.

Il viaggiatore si ritrova accovacciato in silenzio dinanzi al Taj Mahal, perchè l’amore resta un mistero così come la morte.

 

L’amore non bada a caste né il sonno a un letto rotto. Io andai in cerca d’amore e mi persi. (Proverbio indù)

Cartolina da Pushkar: il lago del misticismo per noi pellegrini

Sono arrivato a Pushkar senza sapere a cosa andassi incontro. Qui c’è profumo di sacralità per le stradine della città vecchia, dove l’odore di fogna si mischia con il fango tra la folla dei fastidiosi ambulanti pronti a truffarti.
Il trucco del fiore non può sfuggire all’occhio del viaggiatore: sfruttare le usanze religiose induiste per spillarti i soldi e obbligarti a dare somme spropositate? Sì, senza cedere ai ricatti.

Attraverso una strettoia mi affaccio su un lago. Qui scatta il mistero, lo stupore, perché questo non è un lago qualsiasi, ma una conca d’acqua sacra.
Pushkar, la Varanasi in miniatura del Rajasthan, ha il suo fulcro in questo girotondo di gath, le scalinate che scendono verso le acque e segnano i passi dei riti induisti. Mi fanno cenno di camminare scalzo. Tolgo le scarpe e percorro a piccoli passi il lungolago.

Mi siedo sui gradini di un gath. A pochi passi da me c’è un santone che sussurra parole che hanno il suono di preghiere, schiaffi alla frenesia di noi occidentali orfani del misticismo.
Due grosse vacche, seguite da un asino mendicante, si crogiolano per riflettersi nelle acque mentre il sole intraprende la sua discesa verso il lago, prima che il tramonto diventi fuoco incandescente.

Siamo tutti pellegrini a Pushkar. Mi fermo in un piccolo bar che affaccia sul lago. Sorseggio una tazza di tè indiano mentre in lontananza, come ogni sera, la voce corale e un mantra induista si alzano su tutto il lago della città santa del Rajasthan.
E se ci fosse un sonnifero nel mio tè fumante? Mi addormento steso tra i cuscini di questo bar indiano. Quando mi sveglio, il sole non c’è più, è tutto buio, non c’è luce artificiale, ma solo un quantitativo di stelle che scandscono la veglia notturna su Pushkar.

Mi tornano in mente le parole della donna conosciuta nel tempio:

Fa che sia il tuo cuore a scegliere la destinazione e la ragione a cercare la via del tuo viaggio.

 

Cartolina dal deserto del Rajasthan: tutta colpa del cammello Bablu!

Nel piccolo villaggio di Khuri ad accogliermi c’è Sug. Mi sento un viaggiatore privilegiato a guardare questa zolla dell’India attraverso gli occhi di chi è nato nel deserto e ha radici in un piccolo villaggio del Rajasthan. Qui il tempo sembra essersi fermato.

Girovago nel centro del villaggio e di sbieco osservo le donne che portano sul capo l’acqua o i bambini che vanno verso scuola. Mi sembra di rivedere mio padre, più di settant’anni fa in un paesino del Sud Italia, in quello scenario campestre e contadino che ti trasmetteva un dialogo libero con i posti che ti circondavano.

Sug e i suoi fratelli sono nati qui a Khuri, ad una quarantina di chilometri da Jasailmer. Ci vivono da più di una generazione. Sug mi racconta che il nonno e il papà non avrebbero mollato questa terra arida per tutto l’oro colato.
Loro hanno messo sù degli alloggi – il mio è buffo quanto un trullo – per chi passa qui. Come compagno di quest’avventura mi tocca un cammello. Io su un cammello? Chi lo avrebbe mai detto.

Con il mio nuovo amico Bablu condividiamo una fetta di un pomeriggio assolato nel deserto del Rajasthan. Bablu mastica e mi fa smorfie mentre io mi godo l’ultimo tuffo del sole prima di trasformarsi in un tramonto del deserto. Da lontano si sentono suoni avvolgenti come le composizioni musicali di alcuni cd che mi sono portato dall’India.
In quel silenzio, seduto accanto a Bablu, trovo il coraggio che ogni uomo dovrebbe avere: lasciare il nome della donna che ama scritto sulla sabbia del deserto.

Prima che si assottigli l’ultimo filo di luce, torniamo al villaggio, ci aspettano dei musicisti locali intorno al fuoco. Si fa festa, si mangia, si danza, accanto a me è seduta una famiglia di Bombay. Alzo gli occhi verso il cielo e mi ritrovo faccia a faccia con mille, centomila, un milione di stelle luminose.

L’indomani mattina mi alzo all’alba per godermi lo spettacolo della nascita del sole. Poi metto lo zaino in spalla e mi fiondo in auto per ripartire. Sug mi raggiunge per salutarmi. Gli mostro alcuni miei appunti. Mi mette la mano sulla spalla e mi fa un cenno. A buon intenditore poche parole. Sug non sa leggere.

Dopo qualche chilometro Sug diventa un puntino e scompare nel deserto. Tiro giù il finestrino. Ho il vento tra i capelli e mi rendo conto di aver imparato a voler bene a Sug e ai suoi fratelli.

 

Se tu parli agli animali loro anche ti parleranno, così vi conoscerete. Se non parli agli animali, non li conoscerai mai. E ciò che non conosci lo temerai sempre. Ciò che si teme, si distrugge. (Proverbio indù)

Cartolina da Mandawa: matrimonio in Rajasthan

Quando pensi di essere finito su un set di un film di Bollywood, ti ritrovi ospite di un vero matrimonio in India. Avevo seguito gli allestimenti attraverso la finestra dell’Heritage Mandawa, una meravigliosa Haveli, ovvero un antico palazzo affrescato del vecchio Rajasthan.

Il proprietario dell’hotel di Mandawa aveva intravisto nei miei occhi quel luccichio tipico di chi ha un segreto nascosto nel cuore: “Chi alloggia qui, è anche mio amico”, ci tiene a precisare l’uomo sulla sessantina. La sera sono invitato al matrimonio.
Le donne sono tutte in abito tipico del Rajasthan, mi sento “abusivo” in camicia e jeans. Gli invitati mi guardano, poi rompo il ghiaccio e così per un paio d’ore faccio parte della comunità.

Il matrimonio indù dura più settimane e, in questo caso, il rito religioso delle nozze era avvenuto già diversi giorni prima. Il banchetto a cui ho partecipato è l’ennesima tappa, le tre ore volano in fretta.
Ad accompagnare la festa nunziale musicisti che suonano e un paio di danzatrici indiane; sotto un gazebo variopinto gli sposi, affiancati da amici e parenti stretti. Sono due ragazzi alla mano e lo sposo, l’indomani a colazione, mi concede anche questo selfie.

Niente festeggiamenti ingessati come dalle nostre parti, tutti in piedi, a gustare le pietanze che raccontano il meglio dell’arte culinaria indiana sotto un cielo stellato: ci sono persino le ghiottonerie dello street food di cui noi gente del Sud del mondo non potremmo mai fare a meno.
Alla fine del banchetto mi rendo conto di non aver lasciato nessun regalo. Chissà se mi sono rifatto con questa pagina di diario di viaggio…

La settimana successiva mi sono fatto cucire da un sarto del Rajasthan un abito su misura per non trovarmi impreparato ad un altro eventuale invito. Non si sa mai. Ogni desiderio di un viaggiatore appassionato sia esaudito.

 

Una casa senza una donna diventa alloggio del diavolo. (Proverbio indù)

Cartolina dall’India: il sitar di Rikhi Ram tra i Beatles e Ravi Shankar

A pochi passi da Connaught Place, il cuore pulsante di Nuova Delhi, c’è una tana di strumenti musicali che ha segnato la storia. Rikhi Ram è un ponte che unisce un profondo legame d’amicizia, quello tra il quartetto musicale più famoso del mondo, i Beatles appunto, e il paladino dei suonatori di sitar, Ravi Shankar.

Ci arrivo per caso in questo posto magico, come se l’intuito del viaggiatore, che ha fatto della musica la colonna sonora dei miei vagabondaggi, tracciasse ogni spostamento.
Il nonno di Akhil, insieme a me in questa foto, fece il sitar al Ravi Shankar che a sua volta portò qui i Beatles nel ’66. Suo padre ha realizzato sitar per George Harrison fino al giorno della sua scomparsa.

Il mio primo viaggio in India, fatto di musica e immaginazione, lo tracciò proprio il suono del sitar di George Harrison che mi portò alla scoperta della discografia e delle sonorità del maestro Ravi Shankar. Tra le quattro mura di Rikhi Ram sai di non essere in un posto qualunque, perchè la polvere di stelle della memoria sa farti ritrovare chilometri e chilometri della strada del tempo, come se ci fossi stato anche tu.

Akhil mi mostra la collezione di sitar, apre la scatola di vecchie foto in bianco e nero che ritraggono suo padre e suo nonno con i grandi musicisti, mi fa sentire il suono dello strumento, facendomi scoprire lo stupore dell’impronta dell’artigianalità dentro ogni centimetro quadrato del legno lavorato.

I Beatles e la loro musica hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della mi vita, ispirando tanti miei viaggi. Akhil lo ha capito appena ho messo piede nel suo negozio. C’è qualcosa di me che è rimasto lì. Non sono passato più a riprendermelo.

 

George Harrison è stato come un figlio per me. (Ravi Shankar)

Cartolina da Delhi: sui passi dei Gandhi

Nel bel mezzo della notte mi ritrovo nel centro di Delhi. Mi stropiccio gli occhi, non sto sognando ad occhi aperti. Sono in India, il 46° Paese del mio giro del mondo. Fin dalla prime ore di luce la capitale  è invasa da clacson, da un traffico insopportabile, da uno sciame di motorini e tuk tuk che spuntano da ogni parte.  Rajeev, il mio autista in questo lungo on the road, mi consiglia di farmene una ragione.

Il traffico infernale l’ho mandato giù, ma non di certo quella povertà che fa spettacolo lungo le strade di Delhi. L’India suddivisa in caste continua a produrre povertà, mi sembra di vivere un lungo flashback tra le grinfie del colonialismo britannico.
Invece no, a Delhi le tracce dei colonialisti sono evaporate – l’inglese lo hanno dimenticato in tanti –  ma il battesimo di questo mio lungo on the road deve per forza avvenire sulla tomba di Gandhi.

Il Mahatma è il dono più bello che Dio ci ha inviato nel XX secolo. Ci hai insegnato che le battaglie si vincono senza armi o eserciti. Questo vale anche per sconfiggere lo sfruttamento colonialista.
La non-violenza
è la scorciatoia che permetterebbe all’umanità di godersi la luminosità del volto di Dio.

Le vecchie glorie del Forte Rosso scemano nel chiassoso mercato di Chandni Chowk, nel cuore della vecchia Delhi, nel contrasto di un tempio induista e una moschea islamica, tra i bazar dove si può trattare su qualsiasi articolo e il mercato delle spezie.
La porta dell’India si erge a simbolo come l’Arco di Trionfo parigino, ma Delhi corre ed è troppo indaffarata per accorgersi che il fantasma di Indira Gandhi, il primo ministro assassinato il 31 ottobre 1984, aleggia sulla capitale.

Il sogno dell’altra Gandhi – nessun legame di paretela con il Mahatma – è depositato nella sosta emozionante dell’Indira Gandhi Memorial ed infranto come accadde per il clan dei Kennedy negli USA.
Meglio perdersi tra le orme della storia anziché far finta di niente, tapparsi il naso come fanno i turisti preoccupati a seguire per il filo e per segno il vangelo della guida turistica di turno.

Le guide cartacee non servono a niente in India. Comincia con questa consapevolezza uno dei viaggi di svolta della mia vita da viaggiatore.

 

La semplicità è l’essenza dell’universalità. (Gandhi)

Lettera a un tibetano

Da bambino avevo messo il Tibet nel mio giro del mondo dopo aver visto con mia madre un vecchio film in bianco e nero che davano in televisione.
Mi ero convinto che Dio – nella mia immaginazione un gigante barbuto – utilizzasse la tua terra come divano per sedersi, fumare un buon sigaro e guardarci tutti.

Sul mappamondo in regalo mi rendevo conto che il Tibet era lontano, troppo, tanto che non sarebbe bastato rompere il salvadanaio né chissà quanti stupendi da operaio di mio padre che lavorava nella società nazionale dell’elettricità.
Non avrei immaginato che un giorno ce l’avrei fatta, ma con una tassazione da versare a cui in confronto il denaro è carta straccia: nascondere con sofferenza la propria identità.

Giornalisti e diplomatici sono bannati. Nascere in un Paese come il mio, che ti lascia fare della libertà di pensiero e d’espressione il ramo congiunto della tua crescita, ti serve quando ti guardi intorno e vedi chenon tutti hanno avuto le stesse tue chance.

Sono europeo, occidentale, di matrice religiosa cristiana e non sono di certo arrivato a Lhasa per fare il turista impiccione quanto per guardare diritto negli occhi ciascuno di voi. C’è chi si sente esploratore con l’immaginazione, chi con un libro, chi come me dentro il viaggio.
Girovagando nel mercato di Lhasa fai due conti e cerchi di far capire a chi ti sta di fronte che “gli europei non sono polli da spennare” perché c’è chi è arrivato sotterrando i propri risparmi per far fiorire un albero.

Vedevo con i miei occhi quell’albero trasformarsi in quercia quando salivo ogni gradino del palazzo del Dalai Lama,  quando fuggiasco nei monasteri ero alla ricerca di monaci con cui barattare lo stress inutile di noi occidentali con spiritualità e saggezza.
Nel rallentamento dei movimenti e sfinimento per l’altitudine ho ritrovato quella forza di non voltarmi indietro più, guardando nella direzione del gigante barbuto che domina il tuo Tibet.

Da bambino pensavo che per vedere Dio bisognava morire, invece ne ho un trovato un poco in ciascuno di voi tibetani. Quando il treno ha ripreso il viaggio e tu sei scomparso dietro il finestrino, mi è sembrato di risvegliarmi.  In realtà mi ero appisolato e ci ho messo un po’ per avere la certezza che una parte di me è rimasta lì.

Grazie, Tenzin.

 

Ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Ora sono saggio e voglio cambiare me stesso. (Dalai Lama)

Diario di viaggio: in treno verso il Tibet

In fila alla stazione di X’ian siamo centinaia e centinaia di persone. Ci aspettano 32 ore di treno fino a Lhasa, ma in compenso saliremo sul “tetto del mondo”, il punto più alto della terra riservato ad una linea ferroviara.

VERSO IL TIBET
Il Tibet è ancora lontano e i controlli sono incalzanti. Per chi non è cinese, ci vuole un permesso speciale per mettervi piede, oltre il Visto naturalmente, che si può ottenere soltanto se si fa parte di un gruppo turistico organizzato in loco.
Passo da una carrozza all’altra, mi guardo intorno, sono l’unico europeo, ho gli occhi puntati addosso. Mi aspetta un viaggio faticoso: lo stomaco non ne vuole più saperne di cibo asiatico; le condizioni dei servizi igienici sono davvero pessime; l’odioso rumore dei cinesi che sorseggiano té dal termos; l’odore irritante di quei contenitori di cibo d’asporto.

COMPAGNI DI VIAGGIO
A condividere con me i 2.800 chilometri c’è una famiglia di Xian. Lui è appassionato di foto e, tra uno scatto e l’altro, mi fa da spalla a far la sentinella al finestrino. Insieme alla moglie parla qualche parola d’inglese; la figlia è una graziosa liceale che sembra scappata da un manga giapponese.
Man mano che saliamo di altitudine la stanchezza si fa sentire tanto che a tratti mi attacco a un respiratore per prendere una boccata d’ossigeno.

LA NONNA TIBETANA
La profonda bellezza dei suoi ottant’anni è avvolta dal fascio di luce proveniente dal finestrino. Sulla pelle rugosa dell’anziana tibetana che mi sta di fronte è mappata la storia di un Paese, che a modo suo ha contrastato il regime e i soprusi di Pechino.
I nostri sguardi si incrociano e lei si rende conto che, imbranato come sono con quelle maledette bacchette, il mio pasto non lo comincerò mai. Mi offre un pugno di mandorle e mi sorride. In lei rivedo le vecchie contadine del mio Sud Italia, immobili nei ricordi dell’infanzia con papà che mi portava nelle  masserie a spiluccare memoria e antichità, spalmate sul pane e zucchero offertomi nelle contrade.

LE SPALLE DI DIO ALL’ALBA
Crollo dal sonno. Al risveglio, stropicciando gli occhi, mi accorgo di essere in Tibet. La Cina è lontana. L’alba scontorna l’altopiano, viaggio sul “tetto del mondo”, chi lo avrebbe mai detto. Le riconosco quelle montagne tibetane, sono le spalle del Padreterno. Non sono né in cielo né in terra, sono sospeso a metà nell’unico punto della Terra in cui si può salire sulle spalle di Dio.
Mi torna in mente il film visto con mia madre negli anni dell’infanzia, Orizzonte perduto di Frank Capra, e la promessa che un giorno sarei venuto da queste parti come un esploratore.

Lhasa non è poi così lontana. Mi sembra un sogno. C’era una volta il Tibet, quello che ho vissuto.

 

Se vogliamo costruire la pace nel mondo, costruiamola in primo luogo dentro ciascuno di noi. (Dalai Lama)

Cartolina da Xian: al di là della Via della Seta

All’alba alla stazione di Xi’an sembra mezzogiorno. C’è un via vai di gente spropositato per quell’ora. Nessuno che sputi una cicca d’inglese. Riesco a trovare il bus del servizio urbano per uscire fuori dal centro dall’ex capitale della Cina.
La bigliettaia va avanti e indietro per fare la questua e darci un tagliandino che corrisponde al titolo di viaggio. Sembra essere tornati nell’Italia del dopoguerra, in un fotogramma di un film del Neorealismo.

TERRACOTTA
Si comunica con i gesti e, per fortuna, c’è una parola italiana comprensibile ai cinesi che mi porta a destinazione: Terracotta. Sul bus  c’è gente che scende nei paesini limitrofi per cominciare un’altra giornata di lavoro. Gli sguardi sono puntati su di me, sono l’unico a non avere gli occhi a mandorla. La bigliettaia va a colpo sicuro, mi fa segno di scendere perché ha capito che sono diretto all’esercito di Terracotta.
La gente fa una lunga fila ed è pronta a sborsare la cifra spropositata di  200 RMB (25 euro) per vedere da vicino quello che per me resta una delle meraviglie del mondo.

GLORIA IMPERIALE E PROFITTI
Il primo imperatore cinese Qin Shi Huang non avrebbe immaginato di certo che l’armata di terracotta, fatta costruire su misura per difendersi nell’adilà, sarebbe diventata più di duemila anni dopo una piccola miniera d’oro del turismo.
Nel 1974 un contadino della zona scovò i primi resti di questa meraviglia archeologica, destinata a dispiegarsi in undici file lungo duecento metri.
Oggi questi arcieri e fanti rappresentano la gloria imperiale cinese, abbagliano il viaggiatore e restano l’orgoglio del governo che li usa come messaggeri della nuova frontiera economica dell’Asia.

LANGUORI DA EX CAPITALE
Mi perdo per le vie di Xian e avverto il languorino da ex capitale nel perimetro delle mura cittadine che fortificano il percorso.

C’è chi fa una passeggiata spensierata, c’è chi come me si incammina per osservare dall’alto la città, scorrendo quelle zone fatiscenti che il turista strabico non nota e allungando l’occhio fino all’imperdibile quartiere musulmano.
Quando il sole si spegne, si accendono, tra le mura cittadine, le luci dello spettacolo all’aperto che riesuma vecchie glorie, evoca melodrammi in costumi sfarzeschi come se la colonna sonora facesse del regime comunista di oggi lo spettro burattinaio dei tempi andati.

CHI SI ACCONTENTA, NON GODE
C’è chi si accontenta di un plenilunio, io no. Tiro fuori dal passaporto il permesso speciale che mi ricorda la prossima tappa di questo viaggio complicato e incredibile: il Tibet. Non sono pronto del tutto, mi sembra irreale. Perché dovrei avere timore?
Mi torna in mente il Flaubert degli anni universitari: “La censura qualunque essa sia, mi sembra una mostruosità, una cosa peggiore dell’omicidio: l’attentato al pensiero è un crimine di lesa-anima”.

Ho occhi per vedere e una penna per raccontare.

 

Non abbiamo bisogno di niente. Possediamo già tutto. (Quianlong, Imperatore cinese dal 1735 al 1796)

Cartolina da Pechino a carico del destinatario

Agli arrivi dell’aeroporto di Pechino il tempo sembra essersi fermato, sigillato nell’involucro del comunismo che fa della Cina l’ultimo baluardo di falce e martello. L’unico partito di governo, che fa resistere la Repubblica Popolare Cinese alle intemperie del tempo, fa sventolare la bandiera rossa su piazza Tienanmen.

 

DISTRATTI
I turisti sono troppo indaffarati a fare selfie per guardarsi intorno, per alzare lo sguardo sulle guardie che con la loro stazza fanno da sentinella alla piazza-macelleria della storia.
I nonni tirano dalla tasca 60 rmb, poco meno di 1 euro, per regalare ai bambini una bandierina rossa in ricordo del patriarca Mao Zedong, il cui mausoleo domina Tienanmen.


CENSURE
Mi viene voglia di tirare dalla tasca lo smartphone, scaraventare da YouTube su tutta la piazza quel video del 4 giugno 1989 in cui i carri armati scrissero la pagina crudele della strage di piazza Tienanmen contro gli studenti ribelli al regime. YouTube e gli altri social network non sono accessibili dalla Cina. La censura spettrale del regime mi costringe ad usare un’app VPN per collegarmi su server stranieri e avere accesso a Facebook, Instagram e Twitter.

Meglio non dare nell’occhio. Noi giornalisti siamo costretti a nascondere le nostre identità, perché Pechino sa bene che, anche sotto le spoglie di instancabili viaggiatori, siamo degli impiccioni, vogliamo capirci qualcosa e non ci accontentiamo degli specchietti per le allodole dati in pasto ai turisti europei.

 

CONTRADDIZIONI
Per gli europei mettere piede nella Città Proibita è calcare le orme dell’omonimo film di Zhang Yimou; per l’italiano medio addentrarsi nel set cinematografico di L’ultimo imperatore di Bertolucci.

Per me non è niente di tutto ciò, è piuttosto un tunnel zeppo di contraddizioni che vomita la storia di una civiltà. In quel perimetro tutto sembra lucido, lindo. Basta uscire da un cancello laterale per ritrovarsi nel lercio, nella zolla pechinese riservata alla gente comune: condizioni igieniche lontane anni luce dagli standard europei.

Non basteranno lo splendore abbagliante del Palazzo d’Estate o il raccoglimento del Tempio del Cielo a distogliere il mio sguardo sulla Cina, distante dai noiosi racconti di viaggio patinati che affollano la Rete come un catalogo da turismo di massa.

 

IL VIAGGIO
Mi incammino in piena notte con la consapevolezza che è appena cominciato il viaggio più lungo e faticoso della mia vita da vagabondo. Niente riuscirà a bendarmi gli occhi, perché affronterò ogni chilometro di questo tragitto con un piede nella pozzanghera della memoria e un altro in quel che resta del domani mai giunto a destinazione.

 

Dopo aver cancellato per decenni la propria cultura storica, oggi la Cina ritrova un legame con il proprio passato, anche rispetto al periodo imperiale. L’idea, però, è di raccontarlo attraverso canoni holliwoodiani, uscendo dalla tradizione. (John Woo, regista)