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Category Diario di viaggio

Diario di viaggio: 130 persone ritrovano “l’Italia bella” nella notte magica sul fiume Chiese

Bisogna spingersi oltre i selfie biodegrabili per ritrovare i sogni e le utopie in una notte di mezza estate. E non sono di certo le cartoline da catalogo che palleggiano da una bacheca all’altra di Facebook; non sono di certo i noiosi splash che illudono tanti di avere la stazza da viaggiatore.

Ci sono luoghi segreti che vanno riscoperti nell’ottica del vagabondaggio che fa dei nostri territori il pozzo dell’anima di ciò che eravamo, come l’Italia in bianco e nero di matrice contadina che impugnava la socialità.
Possiamo fare a meno dei gruppi Facebook si sono detti ad Acquafredda, il paesino sulla striscia di frontiera tra le province di Brescia e di Mantova, affinché una serata in compagnia di pochi amici diventasse nel raggio di un decennio una notte magica di mezza estate sul fiume Chiese con 130 persone: la parola d’ordine è rispetto per l’Ambiente, perché ognuno può fare del suo senza arzigogolare.

Piatti e stoviglie portate da casa, niente plastica; prodotti culinari a chilometro zero; un trattore trasformato in un palco per un chitarrista ed un armonicista; tutto il resto ce lo mette il plenilunio, quello cercato dai barcaioli mantovani nelle notti sul Mincio, e un gruppo di testardi volontari capace di creare un set dal sapore felliniano attraverso il passaparola, che per l’ennesima volta ha smosso tanti a condividere questo banchetto.

Mi sembra di essere tornato in Patagonia, quando osservavo gli argentini sul lago di Neuquén alle prese con la voglia di stare assieme e non di certo assuefatti dalla grande abbuffata di una serata di mezza estate. Possibile che piazzare una tenda accanto ad un fiume, lasciare musica fino a notte fonda, conoscere belle persone, sorseggiare un bicchiere di vino, riesca ancora a materializzare sogni e utopie?
Sì, perché come ci ricorda Giorgio Gaber “senza utopia c’è la morte”.

Ovunque continueranno a riunirsi uomini e donne nel comune segno denominatore del non arrendersi ai ricatti dell’omologazione che vorrebbero stemperare le nostre radici, ci saranno sempre zolle di terra dove qualcosa cambierà in meglio.

Provate ad andare di notte lungo la sponda del fiume Chiese e ascolterete l’evaporazione di questi versi di Giovanni Caproni.

 

L’amore finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

Diario di Viaggio: Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco

Giri e rigiri per ritornare in Umbria, la cui bellezza non è stata screpolata dal furore del terremoto guardingo. Mi giunge voce da Norcia che laggiù si sentono dispersi, dimenticati e questo sgomento è amplificato dal quel che resta della cattedrale di San Benedetto.

Adoro tornare a Perugia prima dei rintocchi della mezzanotte, per strada il brusio degli studenti, nel silenzio di metà settimana, non siamo ancora entrati nel tunnel dei bagordi degli universitari parcheggiati nel capoluogo umbro.
Scappiamo dall’Italia abbagliati dalla frenesia esterofila senza captare l’anima del nostro Paese. L’Umbria è l’anima dell’Italia che si rintana tra arte, cultura, spiritualità per mollare la nostra quotidianità che saccheggia l’essere autentici.

Tutte le strade portano a Francesco, il fraticello d’Assisi che ci ha lasciato in eredità un grande patrimonio che va oltre l’essere stato il giullare di Dio. Questo patrimonio si snocciola nella severità dei francescani, che in un certo senso si sbarazza del cliché che li vorrebbe come quelli disegnati e raccontati sui calendari di Frate Indovino.

Padre Giovanni, sull’ottantina, si affaccia dal suo studiolo all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli. Ti guarda di sbieco dagli occhiali di metallo come per dire che un frate non è l’interlocutore pronto a dirti ciò che vorresti sentirti dire. Un frate è altro, ti guida, ti ascolta, ti legge dentro, ti scuote e non è scontato il lieto fine. Anzi, meglio prepararsi al peggio – al meglio secondo il punto di vista – perché ci vuole coraggio e fatica per ritrovare la strada di Francesco.

Assisi lascia al pellegrino innumerevoli suggestioni, ma non sono quelle che maturano il cambiamento, l’evoluzione, la crescita. Nel silenzio della Porziuncola, la chiesetta all’interno di Santa Maria degli Angeli in cui San Francesco sostava in preghiera, risuona il monito verso cui ciascun uomo non può mostrare sordità: “Fallire nell’amore è fallire nella vita”.

Quando termina il viaggio tanti si accontentano di tornare a casa con un selfie, un tau, un souvenir. I più testardi, coloro che sono caduti e provano a rialzarsi, ripartono con il desiderio di ritornarci per vederci chiaro una volta e per tutte.
La morte non può farti paura quando ammetti con te stesso di essere circondato da zombie, che frullano la routine sottomessi dai ricatti dei legami consumistici.

Il viaggiatore si guarda allo specchio dell’anima e non vuole più rimanere paralizzato. Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco perché “un raggio di sole è sufficiente per spazzare via molte ombre”.

Cartolina da Montevideo: l’Uruguay nel tramonto del Rio de la Plata

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rosario_pipolo_blog_2La sera non è calata ancora in Uruguay. La navigazione sul Rio de la Plata l’avevo condivisa con Pablo, il fisico argentino in esilio in Europa negli anni della dittatura. Il resto delle ore di sole le avevo dissipate bighellonando a Colonia del Sacramento, zolla della memoria colonialista in Sudamerica scippata dagli spagnoli ai portoghesi: sole, vento tra i capelli, un piatto di chorizo e del buon vino, le onde ribelli del mare come in un romanzo iniziato e mai finito.

È bastato un filo di vento per guidarmi fino a Montevideo. C’è ancora luce, quella sufficiente per una traversata di quattro chilometri lungo l’avenida che si distende nell’abbraccio di Placa Indipendencia. Quando mi davano per disperso nelle storie di Corto Maltese disegnate da Hugo Pratt, avevo imparato che le traversate non finiscono mai, l’arrivo è inaspettato punto di partenza.

Montevideo è una traversata continua, nelle stradine della città vecchia, abusivo tra una coppia di sposini uscita dal municipio, mangiando carne al mercato coperto, provando una coppola uruguaiana per quando sarebbe arrivato l’inverno, e poi la lunga camminata sulla Rambla.
Niente a che fare con i nostri lungomare, a parte che non si tratta di acque salate bensì delle acque meticce del Rio de Plata. La Rambla sembra non finire mai tra i bambini che giocano, i ragazzi che hanno marinato la scuola accovacciati sugli scogli, i palazzoni che delineano il mio percorso all’atteso tramonto insieme ai pescatori. Il silenzio non mi spaventa perché i singhiozzi delle onde del Rio de la Plata fanno di questo estuario il punto di raccolta dei sogni di chi è venuto a vivere qui da altri paesi limitrofi o lontani

L’Uruguay è terra di tutti, anche di Luca, compagno di classe di mio cugino che a fine anni ’90 mi ospitò una notte a Milano. La napoletanità di Luca ha seminato nella nuova vita uruguaiana quel seme di libertà che fa di noi viaggiatori persone nuove. I ricordi condivisi con Luca in una notte stellata a Montevideo mi hanno assuefatto: la vita li redime i viaggiatori come noi, perché la ricerca di noi stessi mette in dubbio quelle maledette certezze che fanno della routine l’agglomerato urbano della nostra anima.

Quando riparto la colonna sonora di questa tappa mescola e rimescola le sonorità del candombe di Ruben Rada con le canzoni dell’album Mediocampo di Jaime Roos e gli sputi musicali contemporanei dei Notevagustar.
In piena notte, durante la traversata di ritorno sul Rio De La Plata, mi fa compagnia Rosa, anziana uruguaiana di origini italiane, che mi racconta dei suoi cani e del suo compleanno che sta andando a festeggiare con il fratello rimasto solo a Buenos Aires. Dice che festeggiare il compleanno anche con un napoletano porta bene e così mi offre una colazione senza candeline.

Rosa scompare nel buio della notte così come Luca, Montevideo, ma davanti a me c’è la luce di una nuova terra ferma e di questo viaggio in Sudamerica che disegna gli argini del mio cambiamento e della mia rinascita.

Cartolina da Alta Gracia: l’umanità dell’icona Che Guevara

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rosario_pipolo_blog_2C’era un sole diverso ad Alta Gracia, nella provincia di Cordoba, in quella zolla di Argentina che ha fatto del mio on the road in Sudamerica un’altra tappa di un viaggio indimenticabile. Il sole è diverso, perché con la sua luce accecante riapre la porta socchiusa della storia e restituisce umanità all’icona di Ernesto Che Guevara. 

Al numero 501 di Nicolas Avellaneda c’è la casa in cui il guerrigliero rivoluzionario venne a vivere da bimbo per problemi di asma. Le case museo tendono a mummificare la memoria storica, a farne polvere folcloristica per i turisti avidi di selfie e scatti fotografici. Qui è diverso, il tempo catalizza l’infanzia e la proietta nel futuro dell’uomo, del medico, dello scrittore, prima che del guerrigliero e rivoluzionario.

Per tanti il Che è rimasto l’icona delle piccole utopie adolescenziali nel volto stampato di una tshirt; per altri il personaggio che fu strumentalizzato dell’Occidente e tradito dagli stessi compagni di un tragitto utopico.

Nella calligrafia ventilata del Che ci sono pensieri che disegnano il mare dei naviganti per remare verso una vita più giusta, più equa, per far sentire la voce a chi è stata scippata la ragione. Nel mobilio della casa così come nella motocicletta, simbolo del viaggio supremo dei diari, si sente il profumo di giorni vissuti senza i tarli della routine che ci sottomette come soldatini di piombo agli ordini degli altri.

Dio ha fatto i santi, la vita ha fatto i peccatori deliranti. Ernesto Che Guevara, partorito nell’Argentina radicale, commise “il peccato” di farsi guerrigliero per abbattere la cortina di ferro delle ingiustizie sociali.

Mi stendo sull’erba, mangio un paio di empanados, osservo la rincorsa sfrenata delle nuvole con il vento tra i capelli e il sole che mi fa il solletico sulla pelle. Socchiudo gli occhi. Torno a sentirmi libero.


Cartolina da Santiago del Cile: come un esiliato tra gli spettri dell’11 settembre

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rosario_pipolo_blog_2È ancora buio. Sulle spalle ho la stanchezza della traversata notturna della cordigliera delle Ande. Ho perso il conto dei giorni in viaggio. Butto la coda dell’occhio sull’orologio: è il 1 dicembre. Sono arrivato a Santiago del Cile.
Cammino lungo l’avenida Libertador ‘O Higgins a passo sostenuto, prima che il sole sorga nella capitale del Paese che l’11 settembre 1973 finì in mano ai golpisti militari. La mia alba è davanti il palazzo della Moneda. Rivedo la sommossa, l’edificio in fiamme, rivivo la fine del Cile di Salvador Allende. C’è un poliziotto che marcia su e giù con quell’aria insidiosa di “pinochetismo”, quel solco di nostalgia seppellita.

Comincia un’altra tappa del mio viaggio della memoria, l’ho atteso a lungo, prima che vedessi al Festival del Cinema di Venezia Garage Olimpo di Marco Bechis; prima ancora di vederci chiaro sull’ascesa al potere dell’orco in divisa Augusto Pinochet, appoggiato dall’allegra brigata occidentale; prima ancora di cercare documenti e dossier sul genocidio dei desaparecidos, di cui tutti siamo stati complici, chi più, chi meno.

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Il mio è un rancore storico distillato nel distacco dei cileni, che evitano di rispondere sull’argomento senza prendersi la briga di manifestare una posizione netta. Per quanti l’11 settembre è sparito nel tunnel dell’indifferenza?
I cileni in esilio conosciuti nella mia vita, incluso il gruppo musicale degli Intillimani intervistati a Milano più di dieci anni fa, mi hanno dimostrato il contrario.

Una fioraia mi regala un garofano bianco ed io la ringrazio in uno spagnolo maccheronico: “Sono un italiano con lo stato d’animo di un cileno in esilio che fa ritorno a casa”. Sì, mi sento così lungo i viali del Cimitero Generale di Santiago con lo sguardo abbassato sulla zolla di deserto di croci senza nomi e fosse scavate nella terra prosciugata dalle lacrime di mamme, figli, fidanzate che non videro tornare più i propri cari, “scomparsi”, in uno dei genocidi sibilanti più crudeli del XX secolo.

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Poi il garofano bianco finisce sulla tomba di Salvador Allende (1908-1973), nel silenzio di un venerdì mattina e tra i pensieri di una profonda riflessione che si chiude in una conversazione tra me e   i titolari della libreria de Luis Rivano, in cui trovo per il mio archivio due pubblicazioni degli anni ’60 dei discorsi del presidente cileno ammazzato dal potere militare. Volevo sentire il profumo della carta prima della dittatura, scorrere l’inchiostro delle parole che sognavano un Cile diverso.

È un’ascia che fa  pezzetti i miei 40 anni l’impatto emotivo con il Museo della Memoria dei Diritti Umani. Un viaggio nel viaggio tra testimonianze, filmanti, documenti, custodite oggi nell’unica riserva della memoria cilena e degli orrori di quella dittatura.

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Continuo a sentirmi un cileno in esilio che ha fatto ritorno a casa, ma senza aver trovato le persone lasciate. Mi perdo tra le vie di Santiago del Cile, ascoltando le canzoni di Los Prisoneros, ostili al regime di Pinochet, il cui album Pateando Piedras resterà la colonna sonora di questa tappa indimenticabile.

Di ritorno da Santiago, siamo fermi in piena notte tra le Ande per i controlli alla frontiera argentina. Azzanno un panino, fa freddino, punto gli occhi al cielo. Le stelle stanno a guardare: sono lo sguardo di coloro a cui è stata spezzata la vita, facendoci credere che fossero dispersi. Ci abbiamo voluto credere. Sono i rimorsi della nostra coscienza.

[Il 31 gennaio 2017 questo diario di viaggio scritto in inglese è stato pubblicato dal quotidiano indipendente cilento The Santiago Times.]

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Diario di viaggio: Parigi non può essere più la stessa con un Ground Zero

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Bataclan, 6 gennaio 2017 (In memoria di Valeria Solesin e di tutte le vittime del 13.11.2015)

rosario_pipolo_blog_2Nel 1996 arrivai la prima volta a Parigi su un treno della SNFC francese. In vent’anni il mio via vai ha sigillato un legame continuativo con la capitale francese. Ci sono ritornato on the road con Ouibus, sentendomi per metà francese appena vi ho messo piede con le dovute distanze dal solito tam tam dell’Epifania e dello slogan deplorevole di “La Befana tutte le feste porta via”.

I controlli alla frontiera sono certosini, l’aria è tesa, vanno e vengono passaporti. Anche io, che sono italiano, sono sottoposto ad un mini interrogatorio, mi sento straniero in direzione di una Francia che invece mi appartiene.
La mia alba è a Place de la Bastille, il luogo in cui Parigi diede all’Europa la più grande lezione di civiltà, ghigliottinando una monarchia incapace, facendo soffiare sul vecchio continente i venti di Liberté, Égalité, Fraternité.

A pochi passi da lì il primo Ground Zero parigino, la vecchia redazione di Charlie Hebdo messa a ferro e fuoco dal terrorismo che il 7 gennaio 2015 spezzò la matita della libertà d’espressione. Mi incammino verso il numero 50 di Boulevard Voltaire. Davanti il Bataclan, la sala concerto che subì uno degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015, resto pietrificato ripensando agli angeli che vi morirono, inclusa la nostra connazionale Valeria Solesin. Qui c’è la seconda fossa del Ground Zero Parisien, oltre la gelida lapide di marmo.

Entrando in Place de la Republique si scorge il memoriale corner con i fiori dedicato ai morti del terrorismo infame. Parigi ha smesso di essere acquerellata tra Torre Eiffel, Arco di Trionfo, Louvre – triangolo sopravvissuto soltanto nell’immaginario del turismo di massa distratto – e perde i suoi simboli da cartolina.
Il Ground Zero spezzettato sul cuore ferito della Ville Lumière scatena in ciascuno un indomabile sospetto: chiunque, a pochi passi da noi, potrebbe essere il terrorista del prossimo turno: l’uomo barbuto che legge il giornale; la donna minuta col burqa al forno per la solita baguette; il ragazzo che bivacca sulla panchina.

Questo “sospetto” mette a repentaglio il Nous somme unis, facendo correre ai francesi il rischio di risvegliarsi gli uni contro gli altri, come accenna tra le righe il meraviglioso film Tour De France diretto da Rachid Djaïdani, visto in anteprima insieme a Depardieu all’ultimo Festival France Odeon di Firenze.

Chi voleva ammirare Parigi dall’alto è andato sulla Torre Eiffel, senza rendersi conto che la foschia in una domenica di gennaio ne avrebbe impedito la vista.
Parigi non si lascia più guardare dall’alto, ma dal di dentro. Questo può avvenire soltanto dal basso e con lo sguardo diritto verso un Ground Zero che ci appartiene.

Cartolina da Parigi: Je suis Charlie, 7 gennaio ore 11.30

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rosario_pipolo_blog_2Una fuga a Parigi, per giunta senza preavviso, può essere anche defilarsi nel silenzio di rue Nicolas Appert. Ci sono due gradi sotto zero e alle 11.30, l’ora esatta dell’attentato terroristico a Charlie Hebdo, siamo poche anime davanti l’ex redazione del periodico satirico francese.

L’artista francese Christophe Verdon sale su uno scaletto e appiccica al muro l’insegna “Piazza della Libertà d’espressione”; ci sono alcuni fedeli lettori che lasciano commossi un fiore; poi arriva un gruppo di uomini e donne in divisa che lascia una preghiera per il collega poliziotto morto nell’attentato. È una commemorazione fatta di gesti spontanei.

Una fuga a Parigi, lontano dai “luoghi comuni” per il turismo di massa, può essere anche ribadire una riflessione messa nero su bianco due anni fa: “La libertà di una matita vale quanto quella di una penna”. Perciò oggi sono venuto qui a condividere con questo gruppo di francesi un momento toccante.

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Una fuga a Parigi può essere il pretesto per ammettere una volta e per sempre che questa città non è più la stessa e chi la conosce bene sa di cosa parlo, di cosa si prova. “Je suis Charlie” non è soltanto  lo slogan di un tragico giorno da non dimenticare, ma è soprattutto l’amara consapevolezza che c’è sempre un attentatore dietro l’angolo – mi riferisco alla nostra quotidianità – pronto a mettere in pericolo la nostra libertà di pensiero e di espressione. Questo non vale soltanto per chi fa il mio mestiere, ma per chiunque, ogni santissimo giorno, lotta affinché l’idea di libertà di pensiero non sia schiacciata dal becero qualunquismo dei giorni nostri.

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Per la prima volta, nel mio legame ventennale e privilegiato con la capitale francese, ho scalato l’anima segreta di una Parigi che mostra con dignità le proprie ferite aperte e lascia al tremolio della paura la chance per guardare avanti con gli occhi sulla schiena rivolta verso piazza della Bastiglia, da cui partì l’urlo di libertà che l’Europa mai dimenticò.

Oggi siamo qui anche perché non vogliamo permettere al terrorismo di cambiare le nostre abitudini, continuando a vivere Parigi con i valori che “la Ville Lumière” ci ha lasciato in eredità.

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Sentirsi “Charlie” non è un capriccio né una vendetta, è un mutamento interiore dell’essere parte attiva di una società civile. L’ho capito stamattina alle 11.30 al numero 10 di Rue Nicolas Appert.

Il mio Capodanno 2017 nell’alba della Patagonia

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rosario_pipolo_blog_2Mi stropiccio gli occhi. Apro le tendine dell’autobus. Fuori c’è una distesa immensa di deserto. La Patagonia fila l’alba ed è subito un sussulto. L’Argentina prende la mia anima e la scaraventa tra le persone, lungo la strada principale che attraversa Neuquén.
I viaggi sono fatti prima di tutto di persone, di incontri, di abbracci inattesi che mettono insieme i pezzi della nostra vita, lontani dai bagordi rituali e banali della Notte di San Silvestro.

Ho un tetto in Patagonia, la casa di Beti. Non è un bed & breakfast o un ostello, è l’abitazione a due piani che mi riporta nel Sud della mia Italia. Negli occhi di Beti c’è la Patagonia con le sue mille sfumature e la voglia di stare ad ascoltare le storie di noi viaggiatori che abbiamo percorso più di 1.500 chilometri da Buenos Aires.
Il sole picchia forte a Neuquén e mi fermo in un piccolo bar di una stazione di rifornimento carburante. Daniel mi offre una bottiglia d’acqua, mi fa festa, è colombiano e conoscitore del mio Sud, sua sorella ha sposato un ragazzo di Bari. Squilla il telefono, è la voce della sorella di Daniel, mi sembra di essere tornato a casa.

Sì, sono tornato a casa a Neuquén con questa gente che non è diversa da me: negli occhi di Veronica c’è il taglio della luna di Buenos Aires che restituisce al viaggiatore le sopracciglia dell’amore custodito in sordina; nel sorriso di Lujan c’è il sole della Patagonia che danza liberamente senza afferrare i ritmi del cielo sopra di noi; nella generosità di Victitor, che mi offre un passaggio in auto, c’è il ritrovamento della strada come luogo privilegiato di incontro e della costruzione di un’amicizia come si deve.

Sbuco nella parte alta di Neuquén, sotto chilometri di steppa, sopra di me c’è un Cristo in croce che volge lo sguardo verso il nord della Patagonia, mi sembra di essere finito in Terra Santa.

C’è una strada sotto il deserto della Patagonia, quella che fila diritto in Argentina, lontano dal rumore dei tappi di spumante; dal frastuono dei botti che vorrebbero dare il benvenuto all’anno nuovo; dal fondotinta e dai cappellini rossi che ingombrano selfie a destra e sinistra; da tavole strapiene di cibi e bevande. E’ la strada dell’essenzialità, mappata dalla barba incolta sulla mia pelle da viaggiatore, illuminata da una delle albe più belle della mia vita.

La mia rinascita. E’ già Capodanno in Patagonia, il mio.

Natale, lettera dal Sudamerica per Mimmo Palanza

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rosario_pipolo_blog_2Le mie feste natalizie le ho lasciate in Sudamerica. Di passaggio a Firenze qualche mese fa  ho avuto la tentazione di portarti un fiore. Ho desistito, perchè la voce dell’anima mi ha assicurato che tu mi avresti aspettato lì. Questo è il viaggio che avremmo dovuto fare insieme, lo abbiamo fatto, in questo vagabondaggio on the road di 7.000 chilometri tra Argentina, Cile e Uruguay.

Ti ho ritrovato per le vie di Buenos Aires con tuo padre Camillo che leggeva il giornale agli analfabeti del paese nella Manoppello del secondo dopoguerra; ti ho ritrovato nelle albe indefinite della Patagonia ripensando alle nostre lunghe passeggiate al parco delle Cascine con il tuo cagnolone; ti ho ritrovato a Santiago del Cile sulla tomba di Salvador Allende e al museo dei Desaparecidos, perchè il tavolo della tua cucina diventò la scrivania dei miei vent’anni dove cominciai a documentarmi sulle dittature sudamericane.

Ti ho ritrovato tra Mendoza e Cordoba in mezzo al profumo dei vigneti, ripensando a quando davanti ad un buon bicchiere di vino rosso mi  raccontavi del trasferimento in Brasile con tuo fratello Roberto; ti ho ritrovato sulla nave che mi portava verso l’Uruguay negli occhi di Pablo, il fisico universitario di Buenos Aires che, negli anni della dittatura, scappò in esilio in Europa.

Eppure in questo errare indefinito ho ritrovato il nostro legame, ripensando a come tu sia riuscito a non farmi sentire mai ospite né a casa tua né nella tua vita. La prima cartolina te la mandai da Londra nel 1988, l’ultima te la mando dalla rambla di Montevideo: un tramonto condiviso con un pescatore sul Rio de la Plata.

Tra gi ultimi fili di luceti ho ritrovato alla stessa maniera di Manolin con Santiago in Il vecchio e il mare di Hemingway. Un giorno ci ritroveremo non come zio e nipote, ma come due esseri che hanno condiviso sogni e utopie di generazioni diverse. Tutto ciò ti ha reso uno dei punti cardinali della mia crescita, della mia esistenza.

Buon Natale, ovunque tu sia.

Cartolina da Buenos Aires

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rosario_pipolo_blog_2A Buenos Aires tira un forte vento di italianità. L’ho capito subito, appena messo il piede in Argentina. Si va oltre il cantico di Ivano Fossati dedicato agli “italiani in Argentina”. Lo capisci come ti guardano, come hanno voglia di condividere con te perché sanno che negli occhi di noi viaggiatori troveranno il ricordo di un papà, di un nonno, di uno zio, arrivati qui con la valigia da emigrante e rimasti per il resto della vita con la dignità di un argentino.

Buenos Aires si è staccata di dosso l’etichetta che l’avrebbe voluta sposa della Guerra sucia, ovvero quella “guerra sporca” che l’infame dittatura degli anni ’70 adottò come sanguinaria repressione.
Buenos Aires è una principessa scalza, come le donne argentine ancelle di bellezza e anima latina, che con disinvoltura sa come farsi rincorrere, afferrare, stringere in un abbraccio lungo quanto l’affacciata sul Rio della Plata.

Ogni quartiere vive una vita propria senza calcare la mano sulla smania di essere cosmopoliti a qualsiasi costo. Buenos Aires è anche l’eleganza latina di Recoleta, il vezzo naif di Palermo, la popolarità di La Boca, il palleggio della memoria di Placa de Mayo, il brusio del mercato di San Telmo, il pugno nello stomaco dell’Espacio de la Memoria che rende giustizia ai desaparecidos.

Ha un mantello che si chiama tango perché, come scriveva Carlos Gavito, “non è una danza ma una ossessione. Erotica e appassionata, inquietante e malinconica, che coinvolge non solo il corpo ma anche l’anima”.  Buenos Aires non smetterà mai di tirare calci ad un pallone, proprio come i bambini incrociati sotto lo stadio di La Boca. Questo è il riscatto della strada che può trasformare uno scugnizzo come il piccolo Diego in un dio del pallone chiamato Maradona.

Buenos Aires sa come mettere a tacere il turista invadente lungo i dock di Puerto Madero, sa trasportare il viaggiatore verso nuovi incontri nello scantinato di una milonga, sa come sorprenderti in quel sussurro appassionato che fa di “pace, amore e libertà” la lunga avenida che la attraversa in diagonale i vari strati sociali.
La napoletanità veste bene la capitale argentina, perciò il mio primo viaggio in Sudamerica è partito da qui.