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Category Diario di viaggio

Viaggio al Club Tenco, in quello scalo merci della vecchia ferrovia

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rosario_pipolo_blogA Sanremo improvvisamente gli spifferi autunnali sono diventati miti. Mi sembra di rivedere mia madre quando ne approfittava per ristendere fuori il bucato. Da qualche anno la nuova sede del Club Tenco, fondato da Amilcare Rambaldi nel ’72 insieme a tanti missionari della cultura per la canzone d’autore, è l’ex scalo merci della vecchia stazione ferroviaria sanremese. Preferisco questa a quella nuova con i binari seminterrati, anonima e amorfa.

Entrando in sede senza pass, nessuno mi riconosce da addetto ai lavori. Sono tutti indaffarati con gli incontri del programma del Premio Tenco. Mi fermo nell’angolo dove ci sono un divano e una libreria. Mi sembra di esserci tornato dopo chissà quanto tempo, In realtà è la mia prima volta al Club Tenco.
Quando non esistevano i blog, noi giornalisti chiudevamo a chiave nello sgabuzzino i nostri diari di viaggio, come se articoli o reportage non avessero un backstage. In realtà non è mai stato così, soprattutto per noi che abbiamo scritto di spettacolo. Nei miei archivi inzuppati di carta giacciono interviste e tra foto e locandine appese alla parete del Club Tenco ritrovo gli incontri con Gaber, Vecchioni, Guccini.

Da una parte su un giradischi danza un vinile con le canzoni di Luigi, sugli scaffali della parete opposta ci sono l ultime annate di Il Cantautore, la monografia che da quarant’anni accompagna il programma del Premio dedicato alla memoria del cantautore scomparso il 27 gennaio del ’67.
La carta ingiallisce, ma non va mai a male, come le riflessioni sulla Resistenza in un numero di qualche anno fa. Tutti “partigiani della cultura” gli affiliati al club Tenco perchè hanno fatto della Resistenza una condizione del divenire, a difesa della canzone d’autore in un’Italia smemorata, che spesso dimentica, a volte addirittura rinnega.

In un certo senso lo è stata anche mia madre partigiana di questa Resistenza musicale: Alla fine degli anni ’70 tra profumi di bucato e detersivo aprì nella mia infanzia il varco sul canzoniere di Luigi Tenco, distillando a misura di bambino la rivoluzione di questo cantautore del futuro. Se non fosse stato per lei, le mie stagioni musicali si sarebbero arenate, per questioni anagrafiche, sul pop degli anni ’80 e sugli ingorghi musicali del riflusso.

Dall’altra parte del divano incrocio lo sguardo di Toni, il papà dell’Ala Bianca che salvaguarda il patrimonio musicale del Tenco. Lo ricordo ai tempi dello Smeraldo a Milano – allora un teatro valeva più di un food store destinato alla Milano radical-chic – in camerino che parlottava con Enzo e Paolo Jannacci.
Tra una polaroid e l’altra, mi avvisano che devono chiudere la sede. Il tempo è volato. Mi sarei fatto rinchiudere dentro, avrei continuato a divagare tra letture o chiacchierando con Enrico De Angelis per farmi raccontare per filo e per segno questo viaggio quarantennale.

All’uscita, mi ritrovo fronte mare sulla riviera ligure tra gli ultimi fili di luce. Ci sono tre coppie su una panchina che chiacchierano. Tiro fuori lo smartphone, colgo uno scatto al volo, lo pubblico senza filtri su Instagram. Mi piace questa foto e la titolo “Ho capito che ti amo”, proprio come la canzone di Tenco che veniva fuori dal giradischi nel vecchio magazzino dell’ex stazione ferroviaria di Sanremo.

“Ho capito che ti amo” non è soltanto la consapevolezza di un sentimento longevo e duraturo alle intemperie del tempo, è anche un lucido riconoscimento verso chi ha nutrito amore nei confronti di una cultura musicale che ci ha fatti tutti militanti dell’esistenzialismo, guardandoci dentro senza i filtri fasulli della vita digitale, prima di approdare a quella gaberiana della “libertà è partecipazione”.

Nessuno escluso: “Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma!”

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Rosario PipoloMi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Nel tuo sound e sulla tua pelle è tatuato l’Egitto, la terra di tuo padre e quella che io attraversai da bambino tra le pagine di un sussidiario di storia. Avessi avuto un compagno di banco come te, avremmo fatto comunella senza aspettare l’ora odiosa della merenda.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Ti avrei raccontato dei miei viaggi metropolitani a Napoli con nonno Pasquale e ti avrei portato una pastiera fatta in casa da nonna Lucia, e l’avrei barattata volentieri con i dolcetti fatti da tua nonna in Egitto. A me bastava un biglietto d’autobus per abbracciare la mia, tu non finivi mai di rompere salvadanai per metterti su un volo verso il Cairo.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Muovendo i primi passi nella vita, ad avercelo un amico di infanzia che ti rappava la vera geografia della periferia, perché ognuno ne ha una, dentro e fuori di sé.
Dalle mie parti bisognava accontentarsi di neomelodie, diffuse per radio ad alto volume da un pianerottolo all’altro, i cui drammi d’amore non sempre a lieto fine coprivano gli spari della criminalità organizzata.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Non le voglio più quelle verità nascoste, quando restavo chiuso in casa perché fuori c’era il coprifuoco per il controllo del territorio. Da me i papponi, che a messa intingevano tre volte la mano nell’acquasantiera, la sera se pigliavano ‘o cafè con una delle dita della mano di Don Raffaè.

La verità, Amir? Diventiamo subdolamente brutti, sporchi e razzisti tutte le volte che freniamo la voglia di condividere le nostre storie di periferia con chi è arrivato da una periferia più lontana, quella di una terra straniera, di un altro continente. Da bambino sognavo di fare un viaggio al Cairo. Ho la valigia dietro l’angolo, vorrei farlo in tua compagnia e partendo dalla tua Torpignattara. 

Il tuo rap frena il mio pianto. Mi chiamo Rosario, come la “Cune de la Bandera” argentina,  ma song ‘e Napule.

Cartolina dalla Corea del Sud

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Rosario PipoloNel profondo Sud del Giappone la tentazione è forte e legittima. Tre ore meravigliose di navigazione per arrivare a Busan, la seconda città più grande della Corea del Sud. Meno di due giorni non sono niente per scoprire un posto nuovo, ma bastano per capire i coreani di che pasta sono fatti: accoglienti e chiassosi come noi gente del Sud Italia. Persino quando non parlottano l’inglese, sanno come farsi capire per aiutarti.

Ho smantellato il pregiudizio di tanti che reputano Busan una tappa inutile, città troppo grande secondo alcuni. Busan è fatta di piccoli mondi, raccolti nei quartieri che mi hanno fatto ritrovare Napoli. Dopo una manciata d’ore dall’arrivo mi sento già a casa. Uno studente mi aiuta a trovare l’alloggio e di sera vago nella zona del mercato del pesce come se la conoscessi da sempre.
Niente guida, niente cartine. Tra le bancarelle dello street food ritrovo socialità e voglia di stare insieme, quelle che noi abbiamo svenduto ai social. Quanto vale una strizzata di messaggi su Whatsapp rispetto ad una lunga chiacchierata per strada?

Vale meno della voglia di stare con gli altri e condividere pezzetti di vita. Jeewon è una studentessa, conosce l’inglese, mi dà le dovute indicazioni per non perdermi in metropolitana. Percorriamo un tratto di strada insieme, ci raccontiamo e apprezza questa mia aria da vagabondo che vuole respirare l’Oriente senza i filtri del turista.
Poi la lunga scarpinata in montagna, incantato dalla spiritualità del Tempio di Beomosa. Poco lontano da lì fruscio di ruscelli  e famiglie coreane assiepate per una gita fuori porta estiva.

Il mondo è piccolo. Cosa ci fa Procida in Corea del Sud? Il Gamcheon è un villaggio nella parte alta, nucleo della vecchia Busan tra chioschetti, case dipinte, bucato steso, vicoli stretti. Mi sembra di essere tornato nell’isola campana in cui Elsa Morante narrò le vicende letterarie di Arturo. Su e giù per le stradine e poi mi al tramonto mi spingo nella Busan balneare.

L’atmosfera mi riporta alle estati cilentane della mia infanzia,  la musica, i bagnanti, anche se poi il paesaggio evoca Alicante in Spagna, tana di una vacanza dei miei vent’anni. Mangiucchio pesce fritto nel “coppetiello” – sarò mica passato per Napoli? – poi mi siedo sui gradini che fronteggiano la spiaggia. Il sole è sparito, è sbucata la luna, il mare è orientale, davanti a me un paio di musicisti da strada sulla sabbia che dedicano canzoni a tutti noi, come per dire restate qui e raccontateci di voi.

Prima di risalire sulla nave che mi riporterà in Giappone, faccio amicizia con la piccola Jiyu. La mamma ci fa da  interprete. Le improvviso un buffo disegno e lei apprezza. La bimba coreana mi chiede: “Tu in Italia ce l’hai una casa?”. Io senza esitare replico: “No, non ho una casa. Ogni incontro che faccio nei miei viaggi mette un nuovo mattoncino alla mia casa in costruzione. Grazie Jiyu, il tuo mattoncino la renderà amcora più bella e confortevole”.

Jiyu e la mamma scendono a Fukuoka, in Giappone, trascorerranno le vacanze lì. La bimba mi saluta e mi avverte che vuole essere avvisata quando la casa sarà pronta. La Corea del Sud è dall’altra parte del mare, non la vedo più, scompare dentro il sorriso di Jiyu e gli occhiali di Jeewon.
A Busan ho lasciato un pezzo della mia essenza di uomo del Sud, distante dal meridionalismo che ti vuole per sempre nello stesso posto. A Busan ho lasciato la mia voglia di sentirmi uomo del Sud, in qualsiasi angolo del mondo.

Cartolina da Hiroshima: la bomba del 6 fa ancora un gran male

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Rosario PipoloArrivo all’alba, Hiroshima è semideserta. C’è una leggera frescura, atipica vista l’infernale afa giapponese. Mi torna in mente un ritaglio seppiato della memoria su un banco di scuola alla periferia di Napoli.
Avrò avuto otto anni quando la maestra mi mostrò la foto con il fungo gigante dell’atomica. Alcuni mesi dopo, nel giorno dell’Epifania, i miei mi regalarono il primo mappamondo. Puntai il dito sul Giappone, nella direzione della città nipponica rasa al suolo dall’atomica il 6 agosto 1945.

Ho mantenuto la promessa fatta a me stesso, perchè non era un capriccio infantile. Non ho mai cercato foto della nuova Hiroshima, neanche quando Internet me lo permetteva. Nell’angolo del mio immaginario vi avevo lasciato quel paio di scatti di repertorio in bianco e nero che hanno fatto il giro del mondo.

Il silenzio del Parco della Memoria a prima mattina – le lancette del mio orologio segnano le 7 in punto – ti lascia un tremolio interiore. I miei viaggi tra le tombe dell’orrore di Auschwitz e Sarajevo avevano lacerato il cuore dei miei 30 anni, ma Hiroshima è penetrata nell’anima, a piccole dosi e ha trafitto i miei 40.
Nel Ground Zero nipponico si aggirano angeli dalle ali spezzate: non li vedi, ma li senti ovunque, come se fossero confinati qui. Le facce le intravedi all’interno del museo in contrasto con quelle delle rappresentanze americane in visita per sbiancarsi la coscienza. Uno dei falli della presidenza di Barack Obama è stato non aver formalizzato le scuse per questo genocidio.

La stanchezza del viaggio mi assale. Mi stendo sull’erba e provo a socchiudere gli occhi. Sotto le guance sento l’erba bagnata. Altro che rimasugli dell’umidità notturna, sono le mie lacrime che irrigano il Parco di Hiroshima. Nel frattempo sta calando il sole.
Prima di ripartire dal Giappone, mi sono accorto di aver peso il giubotto, compagno d’avventure in migliaia di chilometri di viaggi. Mi hanno detto che lo hanno visto volare sul Parco della Memoria di Hiroshima perchè ora quel giubotto riveste gli spicchi d’anima che ho lasciato lì.

La bomba del 6 fa ancora troppo male.

Cartolina da Kyoto: lettera sussurrata a Mamechika, una vera Geisha

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rosario_pipolo_blogSono le 8 di sera e il sole è calato da un pezzo. Sono in questa viuzza di Kyoto, città custode della memoria del vecchio Giappone. Ti aspettavo, sapevo che saresti passata prima o poi. I turisti ficcanaso sono dall’altra parte e ti cercano solo per rubare uno scatto e fare gli spavaldi al ritorno, come se poi tu fossi un souvenir.

Io, no. Sono qui per condividere con te un pezzo di questo mio viaggio frastagliato, tra memorie orientali e futuro, tra spiritualità e ricerca di me stesso, tra imprevisti e vagabondaggi che elogiano il tempo dell’interiorità.
Rallenta il passo, cara Mamechika, ti resto accanto così posso sussurrartelo in inglese: i pregiudizi di noi occidentali sono maschere di cemento sul muro delle nostre coscienze. La maschera di trucco bianco, che incarta il viso da geisha, è invece il velo che protegge la tua essenza, ricomponendo la tua radice che ti  riconduce alle origini della vita, il teatro e danza nella mescita che strappa l’eternità all’esistenza terrena.

Nessuno può conoscerti meglio di te stessa, neanche gli occidentali illusi dalle parole di carta di Memorie di una geisha, o gli americani che, per sbiancarsi la coscienza dall’orrore dell’atomica, ti misero ai piedi i geta di una prostituta.
Sei troppo giovane per ricordare, i tuoi vent’anni raccolgono le foglie sparse dal vento e allontanano rancori stantii, perché le bombe della storia fanno ancora un gran male, quanto dolore taciuto, quante lacrime sommerse.

Ho raccolto per te questo fiore in cima al tempio di Otowasan Kiyomizudera. Che fai rincasi senza neanche un cenno di saluto? (Mamechika sorride) Te lo lascio qui sull’uscio di casa. Stai tranquilla, non dirò a nessuno dove abiti.
In questi pochi minuti di passeggiata insieme al chiaro di luna abbiamo sfilacciato qualcosa sepolto dentro di noi, in bilico tra la mia sfrontatezza logorroica e la tua compostezza taciturna.

Nel caso non fossi Mamechika, prima che spunti l’alba a Kyoto, il profumo d’Oriente di questi petali scriverà il nome con cui ti battezzoJunko 笋子, che in giapponese vuol dire piccolo germoglio.

L’estate di nonna Luigina, “mondina” centenaria tra gli angeli sopra Valduggia

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rosario_pipolo_blogMi era piaciuta fin dal primo momento l’idea di farmi adottare da una bisnonna di 101 anni, per giunta invecchiata tra le risaie del vercellese, in quella zolla di Piemonte che tratteggia tanti miei vagabondaggi a corto raggio.
Mi era piaciuta l’idea di poter raccontare una bresciana, adottata dalla piccola comunità di Valduggia, che aveva attraversato il ‘900 ed era stata mondina nelle risaie, proprio come Silvana Mangano nel film di Riso amaro.

Nonna Luigina era entusiasta di questa visita insolita di un ospite che non le era apparso come un curioso ficcanaso, ma come il giornalista pronto a fare quattro chiacchiere per poter tirar fuori un ritratto e raccogliere spunti di riflessione.
Di questi tempi poi, in cui la centrifuga della vita tritura la lentezza necessaria a farci ricchi con la saggezza degli anziani, questi sono spicchi di vita meritevoli di essere raccontati e condivisi.

Nonna Luigina – aveva già prenotato il parrucchiere in vista del mio arrivo – aveva saputo che era una buona forchetta e, non potendo venire al ristorante, si sarebbe presa la briga di invitare a casa sua uno chef tutto per me, che avrebbe cucinato per il lieto evento. La situazione mi commuoveva al solo pensiero, perché avrei ritrovato una “nonna” che si sarebbe preoccupata per me.

In due occasioni, tra fine maggio e giugno scorso, sono stato costretto a rinviare a causa del maltempo, che tra piogge e temporali ha trasformato il nostro territorio di frontiera in una landa tropicale. Sapevo che la bisnonna di Valduggia mi avrebbe aspettato, anche se alla veneranda età della “mondina centenaria” basta un soffio di vento a scompigliare tutto.

Qualche settimana fa non hanno avuto il coraggio di dirmi che non avrei potuto intervistarla più. Alla trisnipotina Ginevra, la piccola che le sorride accanto in questa foto di compleanno, hanno spiegato che ora nonna Luigina è diventata un folletto o forse una fata.

Io sono un po’ all’antica e credo ancora negli angeli. Un giorno se dovessi finire all’Inferno, avrò un buon motivo per farmi spedire in trasferta temporanea in Paradiso e ritrovare così nonna Luigina per intervistarla.
Fino ad allora però non potrò far altro che ringraziare “la mondina centenaria di Valduggia” per avermi fatto sentire di nuovo nipote, nel tempo scandito dalla solitudine cronica che allunga le distanze nei legami.

Voci d’estate: Il cavallino bianco di Lignano Sabbiadoro

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Rosario PipoloL’estate di questa annata è meteopatica, ma conserva quei clamori sottovoce che segnano il viaggio. Il mio ritorno in Friuli-Venezia Giulia, nella zolla di frontiera che fa degli abitanti di Lignano Sabbiadoro dei veneti dal cuore friulano, o friulani dal cuore veneto.
I cataloghi turistici prendono sviste e cantonate: Raccontano Lignano come “la Rimini della riviera friulana”, perfetta per le notte brave e per i bagordi d’estate.

C’è un’altra Lignano, più intima, segreta, discreta come Giorgia e la sua famiglia. Sono stati loro a svelarmi, senza volerlo,  l’altro volto perchè sono le persone a dare l’anima ad un luogo. Lo abbiamo dimenticato da vacanzieri indaffarati, stressati dall’ingordigia del fare più che del vivere.

Giorgia e la sua famiglia mi hanno restituito il paradiso estivo perduto delle villeggiature in cui si stringevano legami con le persone del posto: papà Paolo mi consegna le chiavi della camera come se fossi un parente venuto da lontano; mamma MariaTeresa mi prepara il caffè e mi racconta di Paola, la figlia maggiore; Giorgia invece assomiglia tanto alle mie compagne di giochi d’infanzia, in riva al mare, dove con secchielli e palette costruivamo castelli di sabbia, ovvero l’impasto dei sogni che avremmo voluto far crescere con noi.

Nel raggio temporale di 72 ore, tra una pedalata e l’altra bevo con gli occhi la laguna; attraverso la meravigliosa pineta; mi soffermo sulla darsena; svolazzo girando intorno al faro; inforchetto spaghetti alle vongole e azzanno calamari fritti in riva al mare; incrocio vacanzieri provenienti dall’amato Carso triestino, dove vi ho lasciato il cuore al confine con la Slovenia e la rabbia addolorata in occasione della mia visita a Basovizza.

Al termine di una vacanza dell’infanzia, non potendo salutare la mia compagna di giochi estivi, le lasciai sul ciglio della porta di casa il mio secchiello riempito d’acqua di mare  e una manciata di sassolini raccolti insieme. E’ successo lo stesso con Giorgia, alla quale ritaglio l’ultimo fotogramma di questo diario di viaggio.
Sulla corriera in direzione di Latisana vedo spuntare un signore anziano su un cavallino bianco. Sono per caso finito in una prateria del vecchio West di un film di John Ford? No, si tratta dell’enorme cavallino bianco sulla parete, disegnato un tempo dal nonno di Giorgia, quel Mario che aveva tentato fortuna a Roma come disegnatore di cappelli.

Uno scherzo dell’immaginazione? No, una voce d’estate che mi riporta tra le braccia di nonno Pasquale, nelle sere d’estate in cui mi spalmavo il repellente per le zanzare, mentre fuori c’era il canto della cicala. Sul cavallino bianco oggi galoppano ricordi comuni. L’estate non è finita, è appena cominciata. 

Cartolina da Lignano Sabbiadoro: I fan di Vasco

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Rosario PipoloI fan di Vasco li vedi sbucare all’alba a Lignano Sabbiadoro e pensi che siano lì semplicemente per essere i primi sotto il palco. In realtà sono lì perché si sentono tutti parte di una grande famiglia e il concerto non è un ridotto di un paio d’ore, ma è una sottile linea all’orizzonte che va dall’alba al tramonto: Si raccontano, strizzano ricordi, si conoscono, continuano a crescere insieme.

I fan di Vasco li riconosci. Sono le facce che non rinuncerebbero mai a rivedere il loro capitano. Non hanno il dono dell’ubiquità, ma riescono a saltellare da una città all’altra, ad attraversare l’Italia senza esitazione, ad abbandonarsi allo sfinimento pur di vivere un’altra storia.
Ogni concerto si sa non è clonato, è una storia raccontata, unica ed irripetibile.

I fan di Vasco non sono come quelli degli altri, i fan di Vasco sono di Vasco e basta, punto. Non è questione di questa o quella canzone appiccicata addosso, sfilacciata come un chewing-gum, sono parte di lui, vengono da tutt’Italia, come Simone, Ambra, Maurizio, Elisa, Madda e Remo di Sanremo, ritratti nella foto.
Guerreggiano a denti stretti alla maniera del Blasco perché, come ha ripetuto il capitano alla fine del Live Kom 016 a Lignano, “Non abbiate paura. La paura è il nostro nemico più grande”.

I fan di Vasco hanno ferite, cicatrici, lividi generazionali tra i cinquantenni dell’altro ieri, i quarantenni di ieri, i trentenni di oggi e i ventenni del futuro. I genitori che urlavano Siamo solo noi lo hanno tramandato ai figli che cantano Un senso: Il rock va vissuto senza compromessi, ovunque e comunque, con la radice di provincialismo, che deve battere duro a Zocca prima di scalpitare in ogni angolo della nostra penisola.

I fan di Vasco apparterranno per sempre alle generazioni a venire perché, come ha ribadito Simone di Sanremo, “Vasco ha una canzone per ogni stato d’animo”. A loro non interessa di certo la gloria perché il Blasco, colui che noi all’alba della sua storia musicale chiamavamo Vasco Rossi, riesce ancora a farli volare facendoli stare con i piedi per terra.

“Io che credevo alle favole e non capivo le logiche.” I fan di Vasco sono grandi ormai.

La domenica, l’arbitro e il bambino

Foto di Antonio D'Alessandro

Foto di Antonio D’Alessandro

Rosario PipoloLa mia prima stagione calcistica fu quella 1977-1978. Ero seduto sugli spalti di uno stadio di periferia in una domenica pomeriggio. Agli occhi dei tifosi apparivo come un bimbo strano. Non tifavo per nessuna delle due squadre in campo, ma per l’arbitro.

Il ragazzotto baffuto sulla ventina andava sù e giù per il campo, fischietto alla mano, maglietta e pantaloncino nero. Appena era a pochi metri da me, non perdeva l’occasione per farmi l’occhiolino. I tifosi capirono che tra me e l’arbitro c’era un rapporto di complicità. Al termine della partita, mi spiegarono che l’arbitro sarebbe uscito da tutt’altra parte.
Gli andammo incontro mentre lo scortarono fuori dallo stadio. Appena mi vide, non mancò all’appuntamento: tirò fuori dalla sacca un piccolo snack e l’aranciata in una confezione speciale per la federazione e me li cedette come sempre.

Quella domenica ci fu un premio aggiuntivo. Il mio primo viaggio con l’arbitro. Salimmo sul treno e ci sedemmo. Mi sbottonò il montgomery marroncino e mi aprì l’aranciata. Mentre la sorseggiavo, lui accese una radiolina per ascoltare i risultati delle altre partite. Tirò fuori un taccuino per appuntare.
Poi mi fece divertire scendendo le scale mobili della metropolitana. Ci infilammo nelle gallerie ma quella volta non eravamo all’Edenlandia. Pensando che l’arbitro era diventato papà a vent’anni, scaravento nel tempo i versi di una canzone di oggi: “Un giorno ti dirò che ho rinunciato alla mia felicità per te; un giorno mi dirai che un padre non deve piangere mai”.

Usciti dalla metropolitana, io e l’arbitro attraversammo mano nella mano viale Cavalleggeri d’Aosta. Non c’era nessuno per strada, all’orizzonte, in direzione del mare di Coroglio, gli ultimi fili di luce. Fu la prima volta che lo chiamai per nome, io che lo aveva titolato “zio” con la mia nascita e lui fu il più giovane della famiglia ad esserlo.

Non ho mai creduto nei rapporti di parentela. I parenti sono un’imposizione sociale dell’umanità di cui mi sono disfatto nelle piccole rivoluzioni cosmiche. Credo nei legami che ciascuno di noi costruisce singolarmente con l’altro.

Io e l’arbitro mano nella mano per quarantadue anni, nell’istante di una domenica, nella conquista dell’attimo che ricomincia. Accade ancora oggi che nuota nel mare di Coroglio, alla ricerca del suo canotto a remi ormeggiato a largo del’isolotto di Nisida. Finché il buio non ci separi.

San Valentino: “Per essere felici ci vuole coraggio”

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Rosario PipoloBighellonando nel centro di Cremona, mi ritrovo accanto due ragazze. La più giovane, avrà avuto a malapena vent’anni, chiede all’altra: “Quest’anno ti hanno fatto il regalo più bello per San Valentino. La casa nuova è stata imbiancata e finalmente andate a vivere insieme”.

L’interlocutrice, poco più di trent’anni, replica: “Sono due anni che siamo sposati in comune e, per un motivo o un altro, non abbiamo vissuto mai sotto lo stesso tetto. San Valentino mi ha illuminata. Non è lui l’uomo che vorrei accanto nella vita. Chi glielo dice ai miei?”.  

Senza dare nell’occhio origlio la conversazione e faccio qualche riflessione. L’abito commerciale, con cui è stato vestito il 14 febbraio, si sgualcisce di fronte ai ventenni e i trentenni di oggi, arbitrati dalla mia generazione.
Capita così che una ricorrenza, per tanti ridotta al tiro a sorte dell’aforisma pescato da un Bacio di cioccolato, diventi il momento complicato della resa dei conti, di una scelta.

Da che parte sto io? A fianco della ventenne che, senza peli sulla lingua, chiude così la conversazione: “Il tuo non è un matrimonio, è una firma. Il vero amore è altro”.
Appena va via l’amica, la ragazza non riesce a trattenere le lacrime e dirotta gli occhi bagnati nella vetrina di una pasticceria cremonese, allestita con tante golosità per il 14 febbraio. Un sottile sorriso sboccia dagli occhi lucidi, dopo aver avvistato in vetrina un buffo orologio con la scritta tra le lancette “Più passa il tempo, più ti voglio bene”.

Provando a mettermi nei suoi panni, mi torna in mente una sacrosanta verità. L’aveva messa nero su bianco la scrittrice danese Karen Blixen: “Per essere felici ci vuole coraggio”. E non è questione d’età, aggiungerei.