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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

L’ultima estate di Leopold, nona puntata

La fine di settembre si portò via l’estate, ma restituì tranquillità all’isola di Fehmarn. La casetta della famiglia di Beatrice era in centro, con vista mare, a pochi passi dall’hotel Ulysse. Beatrice non fece in tempo a mettere le chiavi nella porta quando sentì una mano appoggiarsi sulla spalla. “Mamma, cosa ci fai qui?”, sussultò voltandosi di scatto. “Sono venuta a portarti questa lettera. Te l’ha spedita Leopold Muller. Perchè non me ne hai parlato?”, rispose l’anziana signora.
“Mi avresti giudicata una sgualdrina – continuò Beatrice – perchè agli occhi nostri sei sempre stata la madre che si è sacrificata per la famiglia. E pensi che io non ti abbia vista piangere quando papà rincasava tardi e tu mandavi giù brutti rospi per amor nostro?”.
La signora von Bernstein abbassò la testa e si voltò verso la finestra. “Mi sono sempre chiesta perchè papà non abbia mai acquistato questa casa – aggiunse Beatrice – In trent’anni d’affitto c’è costata un occhio della testa. Forse perchè voleva sentirsi inquilino a vita e non avere vincoli”.
“E questo cosa c’entra con il tuo amore per Leopold?”,
replicò la madre. “C’entra, mamma. Tu e qualcun’altro mi avete sempre fatta sentire affittuaria della mia vita. Ho 34 anni e non sono più una bambina. Voglio essere padrona delle mie scelte. Mamma, non voglio più vivere, adesso voglio volere, voglio esistere”, concluse Beatrice.
Uscì fuori sul terrazzino e, mentre Klaudia giocava, aprì la lettera di Leopold. Ogni parola galleggiò sulle sue lacrime perchè mai nessun’altro le aveva scritto parole così dense. Leopold le confessò della sua malattia rara che lo portò a dimenticare tutto in brevissimo tempo, ma anche della sua permanenza all’hotel Ulysse a Fehmarn . Era lì che aveva vissuto l’ultimo mese e mezzo di vita, osservando i quadri di Beatrice e il terrazzino della sua casa. La brezza marina le accarezzò i capelli e Beatrice lasciò che gli occhi inzuppati di lacrime si alzassero verso il mare. All’orizzonte trovò depositata la quiete. Questa volta niente sarebbe stato più come prima. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, sesta puntata

Beatrice era al settimo cielo perché quei biglietti erano il regalo più bello che avesse mai ricevuto: non aveva visto mai un concerto di Eros Ramazzotti. Le venne in mente di quando ancora studentessa, prima del crollo della cortina di ferro, ricevette in dono da un’amica il primo disco del cantante italiano. Leopold la convinse ad arrivare all’arena O2 World con largo anticipo perché voleva farle respirare l’atmosfera. Lì a Mildred-Harnack-Straße, nell’area del nuovo palazzetto dello sport, mangiarono un invitante panino al wustel bianco, prima che le canzoni diventassero il miglior pretesto per coccolarsi con le tipiche tenerezze da innamorati.
“Leopold, mi hai regalato la serata più bella della mia vita. Non la dimenticherò mai!”, esclamò Beatrice, guardandolo diritto negli occhi e sforzandosi di superare la sua incalzante timidezza. Poi Leopold la portò a Friedrichshain, a passeggiare lungo gli ultimi chilometri di Muro che sopravvivevano in città. Era la notte di San Lorenzo. Mano nella mano trovarono la loro stella cadente ed espressero un desiderio. Poco dopo la mezzanotte, Leopold guardò Beatrice e un fitta di rabbia attraversò il suo sguardo. Le sussurrò con determinazione: “Tesoro, non ne posso più di questa sopensione. Fuggiamo, andiamo via. Portami a vedere il mare dal terrazzino della casa delle tue vacanze. Vivremo felici lì e poi il resto verrà da sé”. E Beatrice rispose con un tono velato di rassegnazione: “Leopold, una fuga così precoce porterebbe alla distruzione di tutto ciò che c’è intorno a me. Ah, se ci fossimo conosciuti prima del mio matrimonio o magari ai tempi del liceo…”. E lui replicò adirato: “Saremmo nella stessa condizione perchè questo maledetto muro su cui sei appoggiata ci avrebbe separati comunque, tu da una parte ed io dall’altra”.
Beatrice singhiozzò e lui la strinse forte a sè. Si sentirono avvolti da un silenzio profondo attraverso cui Leopold le disse tutta la verità, quello che sarebbe successo. Quel silenzio parlò più di quanto non avrebbero mai fatto le parole. Beatrice prese un taxi e corse a casa. Si voltò indietro e Leopold era diventato già un minuscolo puntino nero, risucchiato dal buio luminoso della notte del 10 agosto . (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, quarta puntata

Ai primi di luglio Leopold l’accarezzò con tenerezza e le disse: “Ho avuto un permesso a lavoro. Il pomeriggio è tutto nostro”. Beatrice non se lo fece ripetere due volte, lo stinse forte a sé e dimenticò tutti i suoi impegni. Lei stava per chiamare un taxi, ma lui fece in tempo a bloccare un autobus. “E’ una vita – esclamò Beatrice – che non prendo un mezzo pubblico”. Il respiro di Leopold inciampò tra i suoi occhi castani e mai come in quel percorso Berlino sembrò tutt’altra città. Un’anziana signora bisbigliò al nipotino: “Guarda che bella coppia. Lo capirebbe chiunque che sono due sposi innamorati”. I due sentirono e si donarono un bacio fuggiasco, quello tipico dei due fidanzatini adolescenti che hanno marinato la scuola.
Scesero alla fermata di Alexanderplatz. Si incamminarono fino al numero 12 della Max-Beer-Straße. Al terzo piano, di un tipico edificio della vecchia Berlino Est, Leopold aveva il suo regno, un delizioso monolocale di cui andava fiero. “Scusa il disordine, ma io convivo con le cianfrusaglie”. C’era un piccolo cucinotto, un arredamento minimalista, un letto con una seggiola accanto. Tra i tanti libri sparsi qui e lì a Beatrice balzò all’occhio Casa di bambola. “E’ un testo teatrale di Ibsen. Lo adoro – precisò Leopold – Te lo regalo con la speranza che la tua vita non finisca mai come quella di Nora”.
Bevvero una tazza di caffè caldo e poi il più audace fu lui: la strinse con galanteria, cominciò ad accarezzarla e le baciò i seni. Le lenzuola di quel letto si trasformarono nell’inquietudine di un oceano e la passione straripò in un atto d’amore. Si amarono come non era mai successo prima ad entrambi e si scambiarono vicendevolmente tante promesse: nessuno li avrebbe mai separati e non ci sarebbe stato un giorno che non avrebbero passato assieme.
Restarono a letto fino al tramonto, guancia contro guancia, abbracciati, finché Beatrice interruppe il silenzio: “Quando ho paura, ho un posto segreto dove rifugiarmi. La casa al mare dove vado in vacanza fin da piccola. C’è un terrazzino. Mi siedo, sorseggio un caffè e volano via le mie insicurezze”. Leopold annuì e si sentì assalito dalla paura quando il suo sguardo finì sul post-it che gli ricordava l’appuntamento dell’indomani. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, prima puntata

Stranamente l’aereo era stato puntuale. Berlino non era cambiata dall’ultima volta che c’ero stato. Questa volta era diverso. Ritornavo per lavoro, dopo essere riuscito a strappare a quel taccagno del mio editore un servizio da piazzare sulla nostra rivista d’arte. Non erano neanche le nove quando il taxi mi fermò nei pressi del Volkspark Friedrichshain. Mi guardai intorno e nell’immenso parco verde c’erano solo pochi mattinieri.
La città sbadigliava ancora, ma io non mi smentivo mai. Ero in anticipo come al solito. I miei pregi si contavano sulla punta delle dita e la puntualità era uno di questi. Allungai lo sguardo fino alla fontana Märchenbrunnen e sulla terza panchina la intravidi. Aveva un vestito di raso bianco a pois, un cappello celeste che le copriva il capo e un paio d’occhiali da sole che avrebbero impedito a chiunque di riconoscerla.
Mi avvicinai, ma lei mi colse di sorpresa: “Signor Martino, un bravo giornalista italiano dovrebbe arrivare sempre qualche minuto dopo”, mi ammonì. Ed io, quasi imbarazzato, replicai: “E lei la signora Beatrice von Bernstein? Preferisco anticiparmi quando fisso un’intervista”. Mi sedetti accanto a lei che mi rassicurò: “Punti di vista. Leopold non avrebbe mai fatto così. Li ha visti i dipinti?”. “Sì – risposi – e mi hanno particolarmente colpito. E come se nell’insieme ci fosse la vita di una persona”. Restammo alcuni minuti in silenzio. Non avevo mai incontrato una donna che mi mettesse in soggezione. Tirai fuori il taccuino e la penna. Lei si lanciò in un lungo racconto e io mi smarrii nella mia scrittura. Il tempo si paralizzò. (CONTINUA)

La stanza di Niccolò Fabi: l’ultimo canto per Lulù

Non so se sia la solita beffa che il destino gioca pure a coloro che vivono ammantati dalla notorietà: la settimana scorsa la piccola Sophie, figlia di Pietro Taricone, è rimasta orfana; domenica scorsa un giovane papà, Niccolò Fabi, ha perso la sua piccola Lulù, all’anagrafe Olivia. E’ come se Sophie e Niccolò, nella suddivisione del rovescio dello stesso dolore, si ritrovassero a condividere con il mondo che li circonda una frattura molto intima, delicata, personale a tal punto da non immaginare che diventi pubblica, nella sfacciataggine del virtuale.
Facebook, da social network che era, è diventato l’agorà del dolore, l’anticamera dove poter lasciare sostare il proprio stato d’animo finché non trovi la sua naturale consistenza. Per Taricone sono nati diversi gruppi su Facebook in segno di cordoglio alla famiglia, mentre per Lulù, l’ultimo canto non è stato sussurrato attraverso una canzone, ma in una lucida confessione che Niccolò Fabi ha voluto lanciare attraverso la sua pagina di Facebook. Non dalle colonne di un giornale, non dai microfoni di una radio, non da un sito web, ma nell’hula-hoop virtuale della socializzazione per l’appunto: “Il dolore devastante che mi attanaglia la gola è la conseguenza dell’esperienza più…inaccettabile orrida ingiusta e innaturale che un essere umano può vivere – scrive il cantautore romano – Inutile dirvi che fino a quando non avrò trovato un modo per trasformare questo dolore e dare un senso costruttivo a questo incubo, il palcoscenico sarà l’ultimo posto in cui desidererò stare”.
Quando Fabi ha citato “un senso costruttivo a questo incubo” ho pensato a Nanni Moretti imprigionato dalla macchina da presa nel toccante film La stanza del figlio e a come il dolore ci renda tutti uguali, senza distinzione di niente. Il dolore per la perdita di qualcuno ci restituisce all’attendibilità dell’esistenza, anche se di mezzo c’è il virtuale?

Federico e la Cicogna, in viaggio verso la vita

La cicogna uscì di buon mattino quella domenica di giugno. Venne giù dalle Dolomiti e il tempo era poco propizio. Il suo viaggio iniziò tra fulmini, temporali e acquazzoni. Appena il bambino le starnutì in faccia, lei sorrise: “Non preoccuparti Federico, entro le nove di domani mattina sarai tra le braccia di tua mamma”. Fino alla Toscana tutto filò liscio, ma il primo contrattempo spuntò ad Orvieto dove fu fermata dai carabinieri per aver bevuto un bicchierino di troppo. E la mamma da Napoli replicò: “Azz !!! Alza pure il gomito ‘sta cicogna! Speriamo che non arrivi tutta ‘mbriaca”. Alle porte del Lazio, la cicogna e il bimbo dovettero fare un atterraggio di emergenza perché pioveva a dirotto. E la mamma tirò un sospiro di sollievo: “Meno male, va’! Così mi dà il tempo di organizzare le ultime cosette”.
Dopo aver ripreso la sua missione, nei paraggi del raccordo anulare di Roma, la cicogna fu multata per eccessi di velocità. E il papà di Federico urlò, facendosi sentire da tutto il palazzo: “Non mi mandate le multe, che io non le pago!”. Arrivata in Campania, cambiò direzione improvvisamente, dirigendosi verso Mondragone. Si fece afferrare per pazza: “Prima della consegna, una mozzarella di bufala non me la toglie nessuno”. Pochi istanti dopo, si fece consigliare dalla ragione, facendo un’inversione verso Sessa Aurunca: “E se mi viene il cagotto dopo tutta ‘sta burrata che ho mangiato stamattina prima di partire? – disse tra sé e sé – Rinuncio alla mozzarella”.
Dopo una luna sosta al passaggio a livello di Villa Literno – era incazzata nera perché il treno locale Roma-Napoli l’aveva superata – sorvolò il litorale domitio e svolazzò beata tra Cuma e Pozzuoli. Anzi, per fargliela pagare a quel maledetto autista indisciplinato, lasciò che il bimbo gli facesse addosso una piccola “cacatella”.
Giunta sul Vesuvio, dopo esserci incantata planando sul Golfo di Napoli, trascorse  lì l’ultima notte assieme a Federico. Poi gli sussurrò: “Ricorda che non sarà il posto dove nascerai a fare la tua persona. Al di là dell’amore delle persone vere che ti saranno accanto, sarai sommerso da tante ipocrisie. Ti sbaciucchieranno in tanti che si credono poeti e invece sono dei miserabili; o quelli che si fanno chiamare Maestro e invece sono dei sepolcri imbiancati; quelli che avranno la presunzione di dirti cosa devi fare. Tu ascolta solo la voce del tuo cuore, della tua coscienza. Viaggia e conosci. E spero che questo viaggio condiviso ti resti addosso, anche quando ti affaccerai alla vita. Caro Federico, questo è il mio ultimo viaggio, vado in pensione. Sono invecchiata anche’io. Non ti dimenticherò mai. E spero che quando un giorno diventerai papà e la tua amata aspetterà la cicogna, ti ricorderai della tua Rosilde. Sì, io mi chiamo Rosilde ed ho portato a destinazione centinaia di bimbi”.
Dicendo queste bellissime parole, la cicogna fece il passaggio di consegna, affidando il bimbo a Martin, il suo angelo custode. Poi, alzand0 lo sguardo al cielo, disse: “Signore, il mio ultimo viaggio è stato compiuto. Dona alla mamma di questo bimbo la forza per allevarlo, consegna nella mani del papà la costanza di sostenerlo in qualsiasi momento. E a me,cicogna da una vita, fammi ritrovare sulla via del ritorno tutti quei bimbi che in questi 32 anni ho consegnato”. La cicogna ripartì e il buon Dio ordinò all’angelo custode: “Vai Martin, è giunta l’ora. Spingilo verso la vita e fallo diventare un bambino vero. E’ lui Federico!”. Martin Rispose: “Signore, l’anestesista è in ritardo. Cosa faccio?”. E il Signore irritato replicò: “A Napoli mi fanno sempre diventare furibondo. Negli ospedali è sempre la stessa storia”. Federico è nato il 21 giugno poco dopo le 10 e sul viso aveva il sorriso dell’estate. Mentre la cicogna Rosilde era in fila all’Inps per verificare i suoi contributi, il buon Dio la fermò: “Non puoi andare in pensione, cara Rosilde. Ho scoperto che sei la stessa cicogna che il 12 aprile di tanti anni fa consegnò Ada, la mamma di Federico, ai suoi genitori. C’è un incantesimo in atto che passa di generazione in generazione. E deve continuare”*.

(*) La fiaba è stata scritta da R. Pipolo in maniera estemporanea e pubblicata a puntate sulla bacheca di Facebook della mamma di Federico Luigi dalle 19.43 del 18 giugno alle 10.15 del 21 giugno 2010.

Io piango: Josè Saramago lo scrittore che volle farsi “blogger”

O lo amavi, o lo detestavi. Non c’erano vie di mezzo. Io sono stato sempre un lettore volubile e scapestrato. Una volta mi è capitato tra le mani Il bagaglio del viaggiatore. L’ho letto con avidità – non perché portasse la firma di Josè Saramago –per la data di pubblicazione: il 1973,  anno della mia nascita. Saramago è scomparso alla veneranda età di 87 anni e a lui devo una cosa, molto prima che mi mettessi lo zaino in spalla per andarmene a zonzo in Europa. Uno spudorato amore per i portoghesi e per la loro terra, che da Porto verso Lisbona, continua a suggerirmi fugaci suggestioni del mio Sud. Quando vado in Portogallo non parlo né in inglese né in italiano, ma in napoletano.  Riesco sempre a farmi capire.
Ho avuto la fortuna di conoscere di persona l’altro grande portoghese, il regista Manoel de Oliveira, ma dello “scrittore scomodo” mi rimane il ricordo di quel libro e, soprattutto, gli interventi da blogger nel marasma della rete. O caderno de Saramago è l’ultimo atto coraggioso del Premio Nobel alla letteratura: un irregolare e poetico diario on line che non risparmia nessuno, neanche il premier italiano Silvio Berlusconi definito “una cosa pericolosamente simile a un essere umano”. Nessuno più di José è riuscito a somministrare una galanteria letteraria su più fronti, dalla poesia al teatro, coinvolgendo a suo fianco i grandi nomi del pianeta, da Chomsky a Pinter, quando c’era da gridare a voce alta.
E’ stato lo scrittore “polemico” per eccellenza, in esilio volontario alla Canarie, ma sempre voce di quel Portogallo che oggi deve riconoscergli un merito: aver innalzato la liricità della lingua portoghese, oggi più di ieri, ad arma di denucia delle balbuzie di questo tempo tenebroso.

Cinque anni con YouTube: sbarazziamoci della tv!

Una parte della televisione ha investito sotto banco su mezzi e risorse per ridurre le insidie di Internet, che portava la brutta nomea di sottrarre l’attenzione popolare per la  fruizione dei contenuti. Poi è arrivata la sorpresa impertinente, destinata ad avverarsi cinque anni fa, nel maggio del 2005,  sotto il fantomatico nome di YouTube. Adesso il tubo catodico siamo noi utenti e, quella che sembrava una bravata di tre ragazzotti californiani destinata a durare poco, è diventata la più grande piattaforma di video del pianeta.  Ci vorrebbero più di 1.500 anni per rivederli ad uno ad uno! Mentre si diffonde alla velocità della luce  il Vangelo della rete, sotto la massima  “Condividete e moltiplicatevi”, persino gli analfabeti del web esclamano con nonchalance: “Lo hai visto su YouTube?”. La popolarità non si misura più in passaggi televisivi, ma a fil di video-sharing; il giornalismo televisivo se la dà a gambe dal piccolo schermo (vedi Michele Santoro che molla la Rai e potrebbe andare in onda dal web); e persino la didattica ha avuto i suoi risvolti: il mio amico Mario ha imparato a stirare prendendo lezioni da una casalinga su YouTube e chi voleva diventare da un giorno all’altro latin lover di professione si è affidato ai nuovi rubacuori della rete.  Il nostro voyeurismo si è esteso come un muro di gomma che ci fa essere “spettatori” e “protagonisti” di questo reality globale. E noi possiamo fare a meno delle tv? Sì, perchè c’è YouTube, ma paradossalmente la televisione non può fare a meno di YouTube per far veicolare i suoi contenuti. Peccato che ci sia ancora chi si ostina a rimuoverli. La mia amica parigina Françoise mi ha chiesto il link del video dell’esibizione di Carmen Masola, la vincitrice di Italia’s got Talent. Era già stato rimosso, perchè violava il copyright o perchè in Italia barcolliamo tra le ombre del Medioevo tecnologico? 

Ciao Berselli, mi mancherà il tuo giornalismo ironico

Chi vuole fare il giornalista con i tempi che corrono, deve essere prima di tutto un lettore arguto. Non ho incrociato Edmondo Berselli, scomparso ieri in sordina, né nei corridoi di una redazione né nei soliti salotti letterari. L’ho incontrato diversi anni fa sulle pagine del settimanale L’Espresso. La sua penna ironica girava come una trottola, passando con nonchalance dalla politica alla cronaca, dal costume alla televisione. Berselli, classe 1951, è stato un giornalista intelligente, che si è saputo adattare ai tempi e agli spazi: lui era a suo agio anche quando le misure della pagina era di pochi centimetri quadrati. E’ stato tra i pochi ad anticipare sulla carta stampata un appassionato stile da blogger perchè “la passione” è l’unica ancora di salvezza dall’arroganza degli editori. Mi mancherà Edmondo Berselli perchè Internet sta cementificando e omologando questo mestiere, che diventa sempre più amorfo sotto le ascelle dell’improvvisazione. Il cinema non è fatto solo di grandi attori e registi, ma anche di produttori, così come il giornalismo anche di editori, a volte distratti, spesso incapaci di varcare, nella giusta misura, i confini del cambiamento. La scrittura di Berselli è una gran bella lezione di stile e oggi, da lettore, non posso che rimpiangerla.

Elezioni, il popolo ha fame dategli le brioches

La grande disfatta. Sì, proprio così perchè in uno stato di ordinaria confusione non si capisce chi siano i vinti o i vincitori. I numeri parlano a favore del PDL , ma non penso che queste elezioni siano davvero un test per capire quale sia il giudizio degli italiani nei confronti del Governo. In Francia l’avanzata dei Socialisti sta facendo tremare Sarkozy, in Italia l’innegabile sorpasso della Lega non rappresenta la consacrazione del Centrodestra, bensì uno sfogatoio di protesta. Proprio in Piemonte, Lombardia e Veneto, le problematiche relative all’integrazione degli stranieri fuori e nelle grandi città diventano sempre più complesse.  La via più semplice? Barricarsi nel proprio bunker tra folclore e tradizioni locali  perchè sentirsi “lumbard” è più sicuro che essere un anonimo italiano. Il Lazio finisce nella mani di una donna, la cui vittoria manda a casa definitivamente i fantasmi di Marrazzo e della sua combriccola. Neanche i santini della Bonino sono serviti a fare miracoli. In Campania avrebbe vinto chiunque si trovasse sulla sponda opposta di  Antonio Bassolino. E così è stato, nonostante la controfigura di Caldoro avesse dalla sua parte l’Italia della Prima Repubblica, quella era l’unica via d’uscita dal lungo regno del Vicerè. E la Puglia? Quella non è andata al PD, ma semplicemte ad un cane sciolto come Vendola, abile a far tremare i palazzi del potere romano, mandando in tilt persino il “Baffo di ferro di Gallipoli”. Bersani dà la colpa a Beppe Grillo per la dispersione dei voti, senza rendersi conto che è al timone di una nave che non sa più che pesci prendere. Il popolo si lamenta e pure troppo, ma poi al momento della “scelta” il chiasso da cortile finisce nell’omertà, nella rassegnazione del vigliacco astensionismo, nel vittimismo del tiriamo a campà, nel chiacchiericcio dei social network, aggrovigliati dai soliti luoghi comuni.  Aspettando la nuova ondata di riforme annunciate da Silvio Berlusconi, mi torna in mente l’orribile frase di Maria Antonietta di Francia, che però può starci bene adesso: Il popolo ha fame, dategli le brioches. E’ quello che si merita e nessuno si lamenti!