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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Parole di rabbia: Dieci anni senza Pierangelo Bertoli

L’Italia ha bisogno di anniversari per offuscare la lucida smemoratezza che la rende insopportabile. Le mie sono “parole di rabbia” oggi, in una puntualità che assomiglia a quella di un orologio svizzero. Sono dieci anni esatti senza Pierangelo Bertoli, uno dei cantautori più dimenticati dal Belpaese. Al diavolo gli anniversari, le belle parole dell’Italietta che storse il naso quando vide “il poeta musicista” in carrozzella al Festival di Sanremo, in contrasto con i filantropi dell’estetica e delle veline dell’Ariston. I più cafoni pensarono che il duetto con i Tazenda fosse un esordio; i più arguti si commossero a rivederlo, perchè sapevano la lunga strada discografica di Periangelo Bertoli.

Nei dieci anni senza il cantautore di Sassuolo, l’Italia non è cambiata. Continua a mentire, ad essere più corrotta di prima. Bertoli lo urlò a squarciagola venti anni fa, con “Italia d’oro”, pochi mesi prima che annegassimo nel letamaio di Tangentopoli. Intanto gli intellettuali di carta pesta si ostinavano a politicizzare musica e canzoni: Fabrizio De Andrè era di Sinistra; Lucio Battisti era di Destra. Il pregiudizio è la malattia cronica del Belpaese, incapace nel tempo debito di valorizzare – tranne qualche rara eccezione – colui che seminò senza fronzoli la ballata folk nella terra modenese, che lo aveva allevato e nutrito.
Pierangelo Bertoli aveva capito che la canzone, per restare “popolare”, non dovesse essere “musica leggera”, ma entrare nel cuore della gente con uno stile intimo. Bertoli impastò storie di vita vissuta e paesaggi sfuggiti alle nostre distrazioni; riabilitò riflessioni sociali sfuggite dal qualunquismo degli anni del riflusso; scaraventò “a muso duro” la verità in faccia ai bugiardi per cui i deboli, gli emarginati, gli ultimi potessero essere gettati nel fuoco del dimenticatoio. Il coro di voci amiche che lo ha ricordato a Campo Volo lo scorso 22 settembre impugni una promessa: incidere nel prossimo album una canzone di Bertoli per far conoscere il suo verbo tra le giovani generazioni.

Venticinque anni fa, in una sera d’inverno, giravo per Napoli con cinquemila lire in tasca. Le spesi tutte per acquistare un vecchio disco di Bertoli: l’Album. Lo aprii, c’erano foto in bianco e nero di lui assieme alla sua famiglia. Mi venne voglia di marinare la scuola, fuggire a Sassuolo, bussare al campanello e farmi raccontare altre storie, come quelle infilate in quel vinile del 1981. Non l’ho mai fatto. Voglio farlo. Restare in silenzio a casa sua e farmi raccontare dai figli il significato di aver avuto un papà straordinario.

In questa notte guerriera, rispunterà la luna dal monte. E’ la luna di Pierangelo, che continua a farci sognare e sperare.

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50 anni con i Beatles oggi: Perchè un minorenne scappò a Liverpool

Non c’è nessuna icona della musica contemporanea che sia legata ai luoghi natali come i Beatles. In giro ci sono tante città-santuario, come la Graceland di Elvis Presley, ma non fanno altro che imbalsamare il mito. Per Liverpool invece è tutt’altra storia: quei posti sono vivi, Penny Lane o Strawberry Fields concimano nel territorio urbano la working-class di un tempo, tra dock e “ red bricks on the wall”.
Almeno lo erano fino a vent’anni fa, prima dell’invasione dei pellegrini del low cost di Ryan-air, prima che il comune optasse per la scelta infelice di cambiare alcune strade, di abbattere edifici fatiscenti, di dedicare ai Beatles tributi kitch qui e lì.

Io mi sono perso invece proprio tra quegli edifici fatiscenti, nell’estate del 1990, ancora minorenne, alla ricerca di posti e persone che avevano ruotato attorno ai quattro ragazzotti di provincia anglosassone: dalla vicina di casa di Paul alla birra con Williams, il primo manager; dall’abbraccio con un fantomatico zio di John alla passeggiata assieme ad una donna, figlia di una Anne che in gioventù aveva pomiciato con Pete Best.
Mezzo secolo fa, proprio oggi con il singolo “Love me do”, i Beatles entrarono nella storia personale di più generazioni; venticinque anni fa bussarono alla porta della mia adolescenza: ci sono entrati, ci sono rimasti per sempre, con costanza.

Sono stati la colonna sonora di gran parte della mia vita, ma non mi sono bastate le canzoni, gli album, i cimeli racolti nel tempo. Volevo guardarli da vicino, da giovanotti grezzi di periferia, prima che la Londra di Abbey Road li risucchiasse, trasformandoli in quattro baronetti metropolitani e sofisticati.
Mi accaparrai una mappa e scovai una cinquantina di posti, anche minori, che spesso parlavano più di quanto magari facessero Menlove avenue o il Cavern Club: una scalinata dove John e George si era fermati; il letto di un ospedale pubblico dov’era nato Ringo; un incrocio qualunque che aveva strappato via a John la madre Julia.

Le canzoni dei Beatles sono venute prima e dopo. Giusto in mezzo però c’è Liverpool, quella di vent’anni fa, che aveva raccontato un miracolo avvenuto nella Gran Bretagna del secondo dopo guerra: la classe operaria andò in paradiso con quattro sbarbatelli, cresciuti nell’Inghilterra “cafona”, che mischiarono sogni, poesia e musica come se fosse un gran bel gioco, destinato per volontà degli dei a non finire mai.

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Diario d’estate: “Si’ vo’ Ddio” perchè il Padreterno ha voglia di folk!

Non si sa bene perché il folk nelle notti d’estate se la dia a gambe e arrivi al di là delle montagne. Eccomi nell’ennesimo viaggio per acchiappare ad oltranza i Terrasonora, band campana prodigiosa, in un paese montanaro della provincia di Benevento. Ci risiamo con i soliti ed immancabili luoghi comuni: il folk è la musica da consumare in compagnia di un panino e birra nella cornice di una sagra. La gente mormora, mostra diffidenza all’inizio – si aspetta magari il solito neomelodico da piazza – e poi invece si lascia prendere dalla tribalità e sensualità di quel ritmo. Quello è l’unico sound con “i piedi per terra”, attaccato ai sogni delle radici.
Eppure finita la sagra paesana, si torna con nonchalance sui propri passi, senza capire che il folk andrebbe vissuto anche alla fine del concerto: spiando da un angolo i musicisti che mettono via gli strumenti, parlottano tra di loro, adocchiano il fonico per capire se qualcosa sia andato storto.

Ne vale la pena fare tanti chilometri per corteggiare la musica popolare, soprattutto in un viaggio che vorresti fosse solo d’andata. Ed ecco che ti capita un viandante. Mi ferma, mi riconosce. Piuttosto, avrei dovuto riconoscerlo io: il musicista è lui, io sono solo uno scrivano. Sebastiano “Miciariello” Ciccarelli entrò nella mia vita attraverso un vinile di ‘E Zezi, il gruppo operaio folk che tatuò nella mia adolescenza un’altra mappa per raggiungere gli scantinati dell’eternità popolare.
Allora mi è tornata in mente quella vecchia canaglia indiavolata di Marcello Colasurdo, che all’ombra del Vesuvio, portò il folk sopra gli altari, facendo ballare preti e suorine. E così gli stessi sacerdoti che mezz’ora prima sussurravano l’Alleluja, appena potevano se la svignavano di nascosto ad ascoltare la musica di ‘E Zezi.

E poi diciamoci la verità. Persino il Padreterno sbadiglia appena sente il pop parrocchiale alla maniera di Giuseppe Cionfoli – ve lo ricordate il finto prete cantautore dei primi anni ’80? – perché dopo tutto l’arte cantautoriale non sta né in terra né in cielo, ma per la strada, nei vicoli. “Si vvo’ Ddio”, come recita il titolo dell’ultimo album dei Terrasonora: Perciò nei miei viaggi c’è sempre il raggiro della speranza. Diamo alla memoria ciò che è della memoria, diamo a Dio ciò che è di Dio: il folk, appunto, perchè questa musica il Padreterno vorrebbe ascoltare.

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Diario di viaggio: “Senza pregiudizi, così vorrei amare”

Sono arrivato nel loro studio alla periferia d Napoli in un lunedì d’estate. Sarà stata la scusa di chiedere ad una psicologa ed un’educatrice come si può fare a cancellare la sindrome per cui, nel primo giorno della settimana, sono assalito dall’ipocondria. Scherzi a parte, il motivo della mia visita era un altro. Anna Riva ed Eugenia Russo trasformano storie di vita vera in fiabe.
Lo slogan “Una fiaba per te” è una sorta di provocazione terapeutica che potrebbe aiutarci a raccontare i legami intensi che ci fanno affrontare meglio il quotidiano. Sappiamo bene che un legame è in continua trasformazione e una fiaba invece lo coglie nella sua sospensione.

Senza far passare la nostra conversazione per un’intervista, ho chiesto in modo sfrontato: “Cosa impedisce ad una fiaba di staccarsi dal ramo della sospensione e tornare ad essere una foglia di vita vera?”. Anna ed Eugenia tengono a precisare che non danno risposte attraverso i loro racconti, ma provano a guidare il lettore. Allora mi è venuto in mente il pregiudizio di chi continua ad alimentare la diceria che una fiaba sia robetta per bambini.

A questo punto ho fatto una riflessione: sono proprio i pregiudizi a privare una fiaba di tornare ad essere uno stralcio di vita vera, di quotidianità vissuta, perché sono loro che impediscono a qualsiasi legame di crescere. Il pregiudizio che chi ci sta di fronte non sarà mai capace di cambiar rotta con l’aiuto dell’altro; il pregiudizio che la diversità non sia lo stimolo dell’arricchimento reciproco; il pregiudizio che nel rapporto di coppia uno dei due debba per forza finire sul banco degli imputati.

Lasciando lo studio di Anna ed Eugenia, mi è tornata in mente una canzone di Giorgio Gaber. L’ascoltai per la prima volta nel ’94 in occasione del teatro-canzone E pensare che c’era il pensiero. Da allora non ho mai smesso di riascoltala al buio, fissando gli occhi sulla lucina rossa del mio giradischi: “Quando sarò capace d’amare mi piacerebbe un amore che non avesse alcun appuntamento col dovere; un amore senza sensi di colpa, senza alcun rimorso, egoista e naturale come un fiume che fa il suo corso”.
In camerino con il Signor G parlai proprio di questo brano, Quando sarò capace di amare per l’appunto. E forse oggi mi lascerebbe chiudere questa meraviglia a modo mio: “Senza pregiudizi, così vorrei amare”.

50 anni di Rolling Stones: da un’audiocassetta al concertone con 15 euro!

Negli anni ’60 o stavi con i Beatles o con i Rolling Stones. Non esistono le mezze stagioni, nella musica come nella vita. Per la mia generazione è stato diverso. I Beatles si erano sciolti da un bel pezzo, mentre Mick Jagger e compagni con alti bassi continuavano a darci dentro, anche in maniera pesante.
I Rolling Stones festeggiano 50 anni in questo afoso 12 luglio. Per me questo non è il solito anniversario nostalgico, annacquato dal marketing della discografia musicale, ma la solita scusa per propagandare che certi brani balzano di striscio nella nostra vita e ci cambiano dentro.

Ho conosciuto gli Stones attraverso un’audiocassetta Maxell 60 che mi fece ascoltare Bob Bridger nel 1988. Succedeva proprio in questi giorni: era il mio primo viaggio in Inghilterra, a Ramsgate nel Kent. Sul lato A c’erano i Beatles e su lato B gli Stones. Ero un adolescente irrequieto e romantico, mi attaccai alla gonnella delle canzoni dei baronetti di Liverpool. Eppure Mick Jagger e compagni non mollarono mai la presa, me li ritrovavo sempre, soprattutto quelli degli anni ’70, che nel mio ciclo universitario fecero da scudo a chi invece, tifando per il rock grezzo e potete del Vasco di Zocca, diceva che le canzoni andavano ascoltate in italiano.
Cavolo, figurati se uno studente come me di Lingue Straniere si sarebbe sottomesso ai ricatti linguistici. Io la pensavo in tutt’altro modo: anche se non conoscevi l’inglese, certe canzoni aggressive dei Rolling Stones si scioglievano dentro di noi come l’acido. Per loro rischiai l’ultimo esame di Inglese all’Università: dinanzi ad una mini partitura tra le prime pagine dell’Ulisse di Joyce, me ne uscii con questa affermazione: “Se Joyce fosse venuto parecchi decenni dopo, forse qui ci avrebbe piazzato una canzone dei Rolling Stones per esprimere lo smarrimento di Leopold”.

Forse il prof. fece finta di non sentire e non mi buttò fuori dall’aula. Quando li ho visti dal vivo a Milano l’11 luglio del 2006, acquistando il biglietto a 15 euro e beffeggiando chi voleva far passare la musica live come roba da ricchi – scrissi alla fine della recensione: “Fuochi d’artificio, lapilli di luce, schegge irrazionali per dirci che l’incantesimo è finito, che per una volta ci siamo sentiti invincibili perché abbiamo varcato la soglia dell’eternità. E se questo è stato un sogno, un sogno collettivo adesso appartiene a tutti. Teniamocelo stretto”. Mezzo secolo ce lo siamo fatto scivolare dalle dita con errori e mostruosità. I sogni e le canzoni però teniamoceli stretti e non solo nel giorno di un compleanno.

Heineken Jammin’ Festival, quando la musica accorcia le distanze tra le utopie

Diversi anni fa avevo scritto che l’Heineken Jammin’ Festival non stava bene a Venezia, doveva traslocare altrove, magari nella cornice paesaggistica dell’Oltrepo pavese. Nella peggiore estate musicale che Milano abbia mai avuto – ci resterà soltanto l’instagram del mega concerto di Springsteen a San Siro – è stato davvero un atto generoso portare questo raduno in quella che Mecca musicale non è più da un pezzo.

Pardon, parlo di “raduno” perchè ormai tutti fanno abuso della parola Festival, pensando che ammucchiare qualche big su un cartellone metta in piedi un happening. Al di là della Manica e dell’Oceano Pacifico ci hanno sempre dato tante lezioni in materia (smettiamola di rifugiarci solo nella tana woodstockiana),  ma noi abbiamo fatto orecchie da mercante: il Festival non è l’esibizione live, ma è anche quello che accade prima, durante, dopo. E’ l’esplosione della socialità, della condivisione, dell’incontro in un fazzoletto di terra che fa ritrovare persone così diverse da convincersi che la musica sa fare ancora miracoli.

Quando ho visto con i miei occhi che l’Heineken Jammin’ Festival ha trasformato la giungla d’asfalto della Fiera di Rho, relitto futurista del traballante Expo che chissà mai se arriverà, in un prato fiorito, mi sono detto: quanto fanno davvero le istituzioni per tutelare eventi come questo? E i fiori che ho visto io non erano rose, margherite o violette, ma gli steli e i petali di più generazioni che denudavano su un tappeto quelle concessioni emotive a cui tutti abbiamo diritto.

Le tre ore dal vivo dei Cure resteranno nella storia perchè sono accadute in quel contesto, perché il bagno di folla – e se n’è accorto anche Robert Smith – non era lì per mettersi a caccia del riverbero remoto del post-punk, ma per spodestare dai troni chiunque si ostini a non credere che la musica unisca e accorci le distanze tra le utopie. Del resto più di trent’anni fa in pochi notarono che il punk rabbioso di Smith e compagni schiaffeggiò per primo il Thatcherismo, una tra le età peggiori della politica anglosassone. Questo per dire che ad un festival si può spingere l’acceleratore al di là della cortina emotiva del brano che ci smuove dentro.

Qualche inverno fa bussò il postino alla porta di casa mia e mi consegnò un pacco. Era un regalo di una cara amica, allevata dal mio stesso Sud.  Conteneva una bottiglia gonfiabile di una birra, l’Heineken per l’appunto, il cui sapore mi solleticava stravaganze di gioventù nella mia Napoli. Quel gesto non l’ho mai dimenticato, perché è vero che il gusto di una birra intinge le dita nella memoria proustiana – e in questo il buongustaio Alfredo Pratolongo potrebbe concordare con me – ma è anche vero che bisogna riconoscere il merito a chi tutti i giorni si sforza di trasformare un brand in un luogo di socialità sotto il mantello della musica.

Addio a Donna Summer che si porta via il sorriso della ragazza occhialuta

Vorrei aver fatto un brutto sogno. Mi sveglio e la regina della Disco si è dissolta dietro il sipario. Donna Summer ha perso la battaglia contro una brutta malattia che l’ha portata via a 63 anni. Speravamo di rivederla dal vivo, con quel suo charme e quell’energia black. Non glielo toglie nessuno il trono di Lady of the Night, come si intitolava una celebre canzone, perché le sue hit continueranno a smuovere le chiappe e le gambe di tante altre generazioni.

Me la ricordo nel piccolo televisore in bianco e nero che avevamo in cucina al tramonto degli anni ’70: sorriso raggiante, voce suadente, bucava lo schermo. E nonostante quelli della mia età fossero condannati ad ascoltare canzoncine per bambini, a me Donna Summer piaceva da matti.
Quando scoprii il significato della parola “razzismo”, mi sembrava tutto così assurdo perché per me gli uomini e le donne di colore avevano le voci più belle del mondo.

Donna Summer ha accompagnato casualmente un recente viaggio on the road. Mentre solcavo in auto la pianura padana con l’andamento di un lumacone, chiesi a bruciapelo alla mia compagna di viaggio: “Sei felice?”. E lei replicò: “Sì”. Prendemmo la rincorsa su una canzone della Summer che usciva dall’autoradio e fuggimmo via verso casa.
Adesso che la regina della Disco se n’è andata, forse si è portata via anche il sorriso della ragazza occhialuta. Le canzoni di Donna Summer continueranno a svolazzare dal mio autoradio così come quello sguardo disciolto in un paio di occhiali  costeggerà la mia vita per sempre.

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4 marzo 2012: Smisurata preghiera per Lucio

Vorrei non arrivasse mai il 4 marzo 2012.
Era lo stesso a cui lanciarono sassate, perché faceva le smorfie da scimpanzé, ma l’unico zingaro musicante a sapere che le stelle sono più di un miliardo.
Dovrebbero fermarsi pure i russi e gli americani, perché “Te voglio bene assaje” fu grido d’amore per Mosca come per New York.

Vorrei non arrivasse mai il 4 marzo 2012,
per non vederlo andar via con Anna e Marco, chissà su quale treno, su una saetta come nuvolari, aspettando l’anno che (mai) verrà, perché lui ci rivelò come è profondo il mare.
Sarà forse la sera dei miracoli serigrafata sulle ali di una farfalla o tutta la vita dello sfacciato che osserva dentro l’anima con canzoni e ti chiede tu com’eri.

Vorrei non arrivasse mai il 4 marzo 2012,
per non sentire il vuoto a piazza Grande senza che Henna se ne accorga: gli uomini vanno via, proprio come Ayrton, che non fece in tempo ad imparare che un vincitore vale quanto un vinto.

Come il vento poi arriverà Lunedì e lui sarà negli angoli del cielo a dirci ciao.
Gesù bambino, lo riconoscerai in mezzo ai ladri e alle puttane con gli occhialini tondi e un cappellino in testa. Non avrà l’aria del brutto anatroccolo, ma dello zingaro felice più bello dell’universo. Se io fossi un angelo me lo riprenderei, ma angelo non sono. Sono un povero diventato ricco grazie al suo canzoniere ereditato. Finisce così il primo tempo della mia vita, per lui comincia il secondo.
Perciò, Gesù bambino, lascialo giocare a carte, cantare e bere vino, perchè per la gente del porto lui sarà Lucio Dalla per sempre.

Non è fottuta nostalgia: Addio a Lucio Dalla, nelle tue canzoni la vita mia

Mamma, non si fa così. E’ morto Lucio Dalla. Era la voce che cantava, mentre tu facevi le faccende domestiche nei bei pomeriggi della fine degli anni ’70. Non è fottuta nostalgia, no. Sono le canzoni che ci accomunano, sono le “Storie di casa mia” a tornare vive attraverso le sue canzoni.

Avevamo il mangianastri che ti aveva regalato papà per fidanzamento, ma io volevo il vinile. La solita storia, la solita cresta sulla tua spesa. Andai a comprare un disco di Dalla sotto etichetta RCA in un negozietto di periferia. Spiegai al titolare che non avevo abbastanza soldi e me lo mise da parte.

Mamma, ricordi quanto odiassi il cappello di lana che mi infilavi tutte le mattine prima di andare a scuola? Poi un bel dì decisi che mi calzava a pennello, perché lo avevo visto sul capo di Dalla. Attraverso i suoi brani ho imparato ad osservare le storie di periferia, quelle che nascono e finiscono nella quotidianità, che fosse un sogno collettivo come Piazza Grande; una preghiera blasfema come 4/3/1943; un visionario disincanto come La notte dei miracoli; l’amore di Anna e Marco che premia i diversi; lo stupore per ciò che sarà di Felicità; la potenza della lirica fuori dai luoghi d’èlite di Caruso.
Ho trovato le radici della mia laicità imparando a memoria Se io fossi un angelo; ho imparato a suonare la chitarra con gli accordi di L’anno che verrà; i miei 30 giorni di servizio militare sono finiti sulle note di Ciao.

L’ho conosciuto e incontrato così tante volte che, autografando i miei dischi, cambiò la dedica da “A Rosario” in a “A Rosario, amico mio”. Disse bonariamente che ero stato uno sfaccendato a buttare i miei risparmi per comprare i suoi dischi. Il ricordo più bello che mi lega a Lucio risale ad una sera d’inverno, al termine di una conferenza da Feltrinelli a Milano. Restai a parlottare con lui e la poetessa Alda Merini. Mi convinsi che si poteva essere grandi rimanendo piccoli.

A distanza di tempo, riesco ancora a sentirmi ciò che sono, perchè in tutti i miei traslochi c’erano gli album di Lucio Dalla a ricordarmelo. Sono felice di saper leggere l’italiano perchè senza il filtro di una traduzione posso arrivare nell’anima del suo canzoniere.

Un pallone di Samuele Bersani e la leva calcistica del 2012

Peccato che “Un pallone”, quello di Samuele Bersani, sia finito in calcio d’angolo all’ultimo Festival di Sanremo. E non perché fosse il solito inno da tifoso, di cui ogni italiano medio che si rispetti non potrebbe fare a meno. Se avesse segnato goal, come il pallone che calciò Francesco De Gregori in La leva calcistica della classe ’68, ci saremmo accorti che il brano di Bersani era il più “impegnato” di Sanremo 2012, seguendo la trafila dei toni scanzonati.

Accecati dalla sindrome del “Talent Show”, sul podio non potevamo che piazzarci “una di noi”. Nei social, in rete e per strada ho sentito o letto la solita affermazione: “Emma è vera”. Chi si è soffermato a commentare la canzone? A Sanremo vola ad alta quota il nostro riscatto nazional-popolare: chiunque di noi ce la può fare. Il festival di Sanremo non è un talent show, almeno non lo era fino a pochi anni prima che i Carta e gli Scanu facessero da apripista al nuovo travestimento della macchina festivaliera.

“Un pallone sgonfio” non poteva farci vincere la partita, ma perlomeno incoraggia i pochi convinti che in giro ci sia ancora qualcuno capace di scrivere una canzone. Non una canzoncina qualunque, ma una filastrocca musicata che scioglie in un acquarello l’Italia di questi giorni. Samuele Bersani ha saputo denunciare – più di quanto non abbia fatto Celentano nei suoi sermoni apocrifi -la decadenza di questa Italia, i cui vertici predicano che “il posto fisso è un’illusione”, ma razzolano male. Di fatti, i loro pargoli hanno il culo al sicuro.

Il pallone sgonfio di Samuele Bersani è la scultura musicata che ritrae la leva calcistica del 2012: la faccia dell’Italia presa a pugni e schiaffi. Da ragazzino, nel campetto che fronteggiava casa mia, andavo alla ricerca di palloni bucati. Li recuperavo perchè avevo capito che il mondo non è sempre tondo, proprio come il pallone di Samuele Bersani. Sarebbe una vigliaccata far finta di niente. E se il Festival è ancora lo specchio del Belpaese, allora saranno questi versi a restare indelebili per sempre: “Ci vuole molto coraggio a ricercare la felicità in un miraggio che presto svanirà e a mantenere la calma adesso per non sentirsi un pallone perso”.

 Samuele Bersani & Paolo Rossi