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No, Vasco, no! Il rocker di Zocca vuole ritirarsi ed è rivolta su i social network

Un vero fan dovrebbe mettere da parte l’emotività e dire le cose come stanno. Mentre su Twitter lo slogan di questo lunedì è “Vasco, come faremo senza di te?”, fa discutere la notizia a sorpresa: Vasco si ritira e non farà più concerti dal vivo. Uno scherzetto dei primi giorni d’estate o il rocker italiano fa sul serio?
Dicevo che un vero fan dovrebbe mettere da parte la sfera emotiva: nell’ultimo tour abbiamo visto Vasco sottotono. Certo non è più quello di una volta da un bel pezzo, ma Morgan c’è andato giù troppo pesante a farlo morire artisticamente a 27 anni. Se l’ex Bluevertigo voleva fare il maestrino in cattedra, avrebbe dovuto allungargli la vita almeno fino ai 38, quando in classifica impazzava Liberi Liberi, l’ultimo album prima di un altro cambio di stagione. Il popolo di Facebook vascolizzato è troppo giovane per ricordare il battito del rock grezzo dei primi tempi.
Tuttavia, mi piace ribadire che un rocker è il vero “poeta maledetto” della musica e, pure senza l’auspicio degli dei, dovrebbe continuare a salire sul palco fino allo sfinimento. Un musicista ha il diritto di andare in pensione e allo stesso tempo il dovere di stare zitto se non ha più niente da dire.
Vasco è poco credibile quando si mette a fare il predicatore – il sermone a San Siro sugli ubriachi del sabato sera è stato fischiato – ma continua a far furore quando impugna il microfono, perché il fan è disposto a perdonargli la nota stonata di turno, il corpo affaticato, la voce sempre più roca.
“E già” sarà pure eletto motivetto della stagione calda, ma tra le sillabe di “sono ancora qua” nasconde un sibillino campanello d’allarme: la consapevolezza di chi non vuole tirare a campare. E il fan vascolizzato, scalciando l’emotività, lo avrebbe dovuto già capire da un pezzo che questo è lo stato d’animo di una rockstar di mezza età.

Caro Francesco, c’eri pure tu quella sera in cui Baccini cantava Tenco?

C’è una foto del mio album che mi piace particolarmente: è quella che ci ritrae assieme cinque anni fa, quando hai trasformato un’intervista in interminabile e intelligente divagazione. Entrambi eravamo emigrati a Milano da due città di mare, Genova e Napoli, in tempi diversi, eppure in modalità simili. E’ stato per questo motivo che sei riuscito a farmi sentire come un tuo ex compagno di merenda?
Ricordo il nostro dibattito sui soliti cliché e pregiudizi che inquinano l’immaginario collettivo dai toni nazional-popolari. E spesso si mettono pure le scelte infelici dell’industria discografica. Osservandoti sul palco dello Smeraldo di Milano a cantare Tenco e a riportare in vita una vittima di quei pregiudizi, ho fatto una riflessione : sei stato così testardo in tutti questi anni da reinventarti ogni giorno, anche quando c’era chi voleva associare Francesco Baccini a un repertorio scanzonato, che invece era tutt’altro. Del resto quella targa Tenco che ha tenuto a battesimo Cartoons dovrebbe dirci tutt’altro.
C’è chi vuole ostinatamente definire un cantautore per “contorni”, mentre sono i suoi “dintorni” a distinguerlo dai tanti canzonettari che si spacciano per musicisti o cantastorie. Quante coincidenze ti legano a Luigi Tenco, ma queste non sarebbero bastate a creare una serata musicale emozionante se non si fosse fatto avanti ciò che sei veramente: il genovese strafottente dei luoghi comuni, dell’establishment, delle formalità idiote, curioso e appassionato, sentimentale e intelligente, con quella punta di istrionismo clownesco che avrebbe amato Federico Fellini.
Che strane coincidenze. Hai cantato Luigi Tenco nel giorno del sessantacinquesimo compleanno di mia madre, che purtroppo era lontana. Mi hai permesso di soffiare assieme a lei le candeline attraverso quelle canzoni. E’ stata lei più di trenta anni fa a farmi conoscere il repertorio di Luigi, spiegandomi che “i tempi non erano maturi per capirlo”. Forse i tempi non sono mai maturi per nessuno, ma lo diventano quando ci ritroviamo a condividere. Allora diamoci appuntamento a Genova: tu porti la chitarra e noi che eravamo l’altra sera lì portiamo birra e foccaccia genovese. Sarà un modo per continuare a raccontare Luigi, che è morto soltanto per gli stolti benpensanti, quelli che De André aveva fatto diventare lo zimbello del circo della vita e tu, Francesco Baccini, hai messo a tacere per sempre.

Diario di viaggio: ‘A canzuncella

Sarà stato quel mezzo di litro di birra o la sposa scalza nello stesso locale a far parlare la bresciana: “E pensare che ero anche io ad un passo dall’altare. Poi è arrivato lui ed è andata come è andata”. Lui, il mantovano dal cuore terrone, sempre lì con la battuta a portata di mano, ammutolisce e improvvisamente diventa serio: “Sì, ma se proprio dobbiamo dirla tutta… Appena due persone si piacciono, cominciano inspiegabilmente a cercarsi  a vicenda. Guardandosi negli occhi, riscoprono il fondo dell’anima”. Lui aveva mollato la ragazza, lei il promesso sposo, lasciandosi alle spalle la paura di finire stemperati nella sceneggiatura di una delle tante commediole all’italiane del nostro cinema.
La bresciana ha un temperamento apparentemente algido; il mantovano ha quello spirito da giullare capace di mandare tutto in frantumi, comprese le ultime certezze della vita. “Una sera eravamo assieme ai nostri rispettivi partner in mezzo a tanta gente” – replica lei – “La complicità dei nostri sguardi raccontava tutt’altro. Era come se ci conoscessimo da sempre, come se in un’altra vita avessimo condiviso la storia d’amore più bella”. Temevo che tali parole fossero fantasticherie bizzarre dell’immaginazione,  invece no. L’ho capito appena Elisa e Matteo si sono presi per mano e sono scomparsi nel buio.
Io sono rimasto lì, in aperta campagna, ai confini tra la provincia di Brescia e quella di Mantova. Mi è balzato in mente un motivetto, quello che il mantovano le avrebbe dovuto cantare se questa storia avesse avuto un finale diverso. E mi sono ricordato di un sabato mattina a casa del mio caro amico, il maestro e figlio d’arte Antonio Annona, che mi chiese di tradurre in francese ‘A canzuncella degli Alunni del Sole. Antonio aveva un progetto, ma poi non se ne fece più niente. Quella traduzione è rimasta nel cassetto, ma io in piena notte, in una terra che non mi apparteneva, ho sussurrato al vento quelle parole: “Si ‘nnammurate ‘e me ma sienteme, nun ce pensa’, E torna ‘n’ata vota addu chillu llà”. Ero scalzo e, naufragando nel mio napoletano, sono tornato a sentire la terra sotto i miei piedi.

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Grazie dei fior, Nilla!

“Grazie dei Fior, tra tutti gli altri li ho riconosciuti, mi han fatto male eppure gli ho graditi, son rose rosse e parlano d’amore”. Così si cantava l’amore nel secondo dopoguerra del secolo scorso, senza troppi fronzoli, perché anche in un mazzo di fiori si nascondeva  il profumo di un sentimento vero. Chi riascoltò alla radio Nilla Pizzi in quel freddo 31 gennaio del 1951, in occasione della serata finale del Festival di Sanremo, si ritrovava nelle parole che stavano trasformando una litania musicale in un canto d’amore.
“In mezzo a quelle rose ci sono tante spinte, memorie dolorose di chi ti ha voluto bene”: La ascoltò mia nonna Lucia da quella radiolina in un angolo della stanza in affitto a Mergellina. La ascoltarono le sue vicine, riunite attorno ad un braciere, come se poi una canzonetta alleviasse le pene dei venti di guerra che avevano messo in ginocchio l’Italia.
Napoli allora era ancora sull’orlo della disperazione, ma la voce soave di Nilla Pizzi attraversò così in fretta l’Italia che tutti si sentirono uniti, tremendamente vicini. Aspettando l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia, proviamo a dare un volto a quel periodo: un faccino qualunque che rappresentava con discrezione il nostro caro Belpaese. E vedete se non potrebbe essere Nilla Pizza, regina della Canzone Italiana, a prestare la faccia all’Italia, che ha tentato in più occasioni di trasformarla ingiustamente in icona folk e spassionatamente kitch.
I fiori appassiscono, le rose pure, ma chi sa riconoscerle, le restituisce un nuovo profumo che non va più via. Nilla Pizzi, in quell’interpretazione, ci è riuscita e chi la ascoltava, doveva solo scegliere da che parte stare. Mia nonna e le sue vicine  presero le distanze dagli “urlatori” e scelsero quel timbro di voce. Oggi che la Regina della Canzone Italiana è volata in cielo come una colomba, abbiamo capito che nessuno meglio di lei avrebbe potuto sussurrare l’Italia canterina, povera, bella, intonata, composta. E tutto questo ci mancherà.

Chiamami ancora amore: Caro Prof. Vecchioni, ti scrivo…

Oggi non ho voglia di scrivere, non mi va. Ho piuttosto voglia di scriverti perché, quando sono partito per Milano otto anni fa, avevo in valigia una tua canzone: Sogna, ragazzo, sogna. In quelle rare occasioni in cui ci siamo incrociati, continuavo a ripeterti che al liceo sognavo di avere un professore come te. In fondo è come se tu lo fossi stato, perché attraverso i tuoi dischi ho imparato a guardare il mondo diversamente, facendo sempre intromettere il cuore nel cervello. A volte mischiare i sentimenti col pensiero non è un’idea così malvagia.
Quest’anno dalle ceneri di un bruttissimo Festival di Sanremo, è saltata fuori la musica che appassiona, perchè “tra il silenzio e il tuono” c’è letteratura, rispunta la poesia, si impone la forza di ogni singola parola sulla volgarità delle inutili canzoncine che lasciamo il tempo che trovano. Chiamami ancora amore, il tuo brano che ha vinto il 61 Festival di Sanremo, è un grande inno alla vita, ma anche il canto del cigno contro le dittature invisibili che viviamo giorno dopo giorno. Che dolore far finta di niente “per il poeta che non può cantare, per l’operaio che non ha più il suo lavoro, per chi ha vent’anni e se ne sta a morire in un deserto come in un porcile”.
Io non ci sto, anche se crescendo ho capito che camminare fuori dal coro costa rinunce, ma la bramosia della libertà vale più dell’urlo soffocato dalla stupidità, che si propaga nella mostruosità dell’omologazione. “Questa maledetta notte dovrà pur finire perché la riempiremo noi da qui di musica e parole”: allora rimetto lo zaino in spalla e sai cosa ti dico? Vengo con te, professor Vecchioni, a cercare uomini e donne per condividere il nostro sogno comune “perché le idee sono come farfalle che non puoi togliergli le ali; perché le idee sono come le stelle che non le spengono i temporali; perché le idee sono voci di madre che credevano di avere perso e sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo”.
In questa notte è necessario che io condivida la pagina del mio libro con quella sua, perchè anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra avrei bisogno almeno di lei per “difendere questa umanità”. E tra trent’anni, invecchiato come sarò, voglio combattere per incrociare per l’ultima volta i suoi occhi e ripeterle in una notte stellata come questa il tuo pensiero: “Anche se non mi ha capito mai nessuno, non mi sono mai sentito solo. L’importante che mi hai capito tu. Grazie, amore mio.”
Allora sì che avrò attraversato il territorio del destino, lì mano nella sua mano, con l’unica donna che avrà dato un significato alla mia esistenza. Avremo respirato assieme questo “disperato” (bi)sogno… d’amore.

Sanremo Giovani 2011, vince il jazz ruffiano di Raphael Gualazzi

Non c’era via di scampo e quest’anno non ci sono state le solite zuffe per portare una nuova proposta dell’Ariston sul podio. Raphael Gualazzi vince con la sua Follia d’amore la 61a edizione del Festival di Sanremo nella categoria dei Giovani. Badiamo bene una delle peggiori annate, perché all’Ariston gli emergenti sono passati ancora una volta in sordina, a volte troppo insipidi, per niente sperimentatori o progressisti, mandati in onda a ridosso della mezzanotte, senza uno spazio adeguato, e per giunta messi in castigo dal televoto.
In balia della melodia di Micaela o di Serena Abrami, la vittoria del timido e pacato Raphael in stile jazzato mette tutti d’accordo, anche se il dubbio assillante rimane: questo swing ruffiano vuole fare il verso a Micheal Bublé? Dovremmo chiederlo a Caterina Caselli, l’ape regina della discografia italiana, che ha arruolato Gualazzi nella scuderia Sugar. La Caselli non ha sbagliato mai un colpo e nessuno ci vieta di pensare che Raphael diventi un fenomeno jazz da esportazione.
Intanto, mentre di questi giovani “invisibili” ci dimenticheremo prima di quello che possiamo pensare, il Televoto tira l’ennesimo colpo basso: Tre colori, l’intensa filastrocca musicata di Tricarico, è fuori dai giochi, nonostante a mio parare faccia parte del tris delle migliori canzoni sanremesi assieme a quelle di Vecchioni e di Emma & i Modà. Facciamocene una ragione, con o senza il faccione buonista di Gianni Morandi, il Festival di Sanremo riflette l’Italia del suo tempo, arruffona quanto basta per ripescare la Anna Tatangelo di turno e tenersi la lagna melodica di Luca Barbarossa. Mettiamola così: le belle canzoni sono quelle che vanno via in fretta dai riflettori dell’Ariston, dall’euforia popolare, ma restano confinate nell’animo di quel pubblico che sa cogliere in flagrante l’emozione di raccontare una storia accennata, come quella della nostra bandiera.

Sanremo 2011 Atto III: Roberto Benigni, il giullare sul cavallo bianco

Lo dimenticheremo presto il Festival di Sanremo di Morandi, anche in questa terza serata che ha ripescato, con il sotterfugio del televoto, la soubrettina del Karaoke Anna Tatangelo e ha confermato l’assenza musicale dei giovani: abbiamo scampato il pericolo di Marco Menechini, clone di Valerio Scanu, e gli osceni Btwins, che sembrano usciti da sotto la gonnella di Antonella Clerici.
Lo dimenticheremo in fretta il Festival di Sanremo di Morandi, in questa terza serata che da festa celebrativa per i 150 anni dell’Unità d’Italia ha trasformato il palco dell’Ariston in una sagra paesana, in cui non si è capito il senso della scaletta delle canzoni. Ancora una volta a farla da padroni di casa sono state le insostituibili Iene, Luca e Paolo, a cui va il nostro apprezzamento per averci ricordato il tempo del teatro-canzone di Giorgio Gaber, quello in cui il sipario divideva la riflessione dalla perfida leggerezza. Se Morandi ha ripreso in mano il microfono per cantare, lo spettatore si è arreso dinanzi alla speranza del miracolo dell’ultimo minuto.
Tuttavia, quando la barca sta per affondare, si ricorre al giullare dispettoso, perché lui sa sempre come trovare la via alternativa per raccontare quello che siamo. Roberto Benigni col tricolore in mano e su un cavallo bianco sembra roba da circo equestre, eppure è lui stesso il figlio bello di quest’Italia, che per fortuna non ha prodotto soltanto mostri. Certo Robertino è stato meno pungente del solito e a qualcuno è apparso come cantastorie di ovvietà. Non è così e la risposta l’ho trovata rovistando nella mia bacheca di Facebook, su cui la mia fedelissima lettrice Maria Rosaria ha postato senza pensarci due volte: “Siamo persone che si emozionano, non persone che si meravigliano dell’ovvio”.
E noi vogliamo emozionarci decifrando la millenaria storia che si nasconde nell’inno di Mameli, impastando l’entusiasmo e la passione che trasformò in eroi quella ciurma di ragazzotti che perirono per amore di patria; ammettendo una buona volta per tutte che la gloria si conquista combattendo per la libertà, con dignità, a testa alta. E pensare che ci sono ancora quattro sciocchi che vogliono convincerci del contrario, che vorrebbero l’Italia separata e ridotta ad un’accozzaglia di langhe federali. Non ci voleva il noioso Festival di Sanremo per non calpestare le nostre radici, ma quel piccolo diavolo di Roberto Begnini, che ha cantato senza avere una grande voce. Basta sussurrare le parole su un motivetto senza musicisti e così si finisce diritti al cuore, perché “se qualche volta la felicità si scorda di noi, noi non dobbiamo dimenticarla la felicità”. E questo mi sembra un atto d’amore.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.

Sanremo 2011 atto I: Che barba, che noia!

Abbiamo sperato fino all’apertura del sipario che non fosse catastrofe. Invece questa è davvero la tragedia dell’Italia dalle canzonette che non sa più che pesci prendere. Il Festival di Sanremo condotto da Gianni Morandi è sicuramente il peggiore del nuovo millennio. Chi ha avuto la bizzarra idea di cominciare con la mamma baby-sitter Antonella Clerici, che trasforma un copione da prima serata nella più maldestra cantilena recitata? E’ proprio vero quando si dice che il Festival della Canzone Italiana rispecchi per filo e per segno ciò che siamo in questo momento. Ce lo ricordano i maliziosi siparietti di Luca e Paolo, i veri showmen della prima serata, che sono lapidari tra le belle statuine di Belen e la Canalis.

Gira e rigira la frittata è quella di sempre, con lo spettro del solito intruso, l’innominato ficcanaso che guida l’intera corte a distanza. Questa edizione 61 del festival più amato dagli italiani è così sottotono da sembrare un favore costruito a tavolino per far rallegrare la concorrenza. Gianni Morandi è un pessimo conduttore – perché non ritorna a fare il suo mestiere? – e l’immediatezza scenografica così fantasma da farci scordare che all’Ariston c’è un’orchestra che suona dal vivo.
E delle canzoni ne vogliamo parlare? Quelle dei Campioni le buttiamo tutte giù dalla torre e ci teniamo strette la poesia del prof. Roberto Vecchioni, l’impasse vocalico di Emma & i Modà, la ricercatezza (forzata in qualche punta) di Nathalie, la filastrocca di Tricarico, il folk spedito di Van De Sfroos, la lenta alzata in volo di Battiato. Il brano di Giusy Ferreri non è malaccio, ma l’ex cassiera ha perso così tanta voce da rischiare di tornare tra le corsie del supermercato. Sbadigli a non finire per un Sanremo senza show e senza canzoni. E poi sarà che porta sfiga, ma fa bene una mia lettrice a ricordarmelo. Il Festival non è più lo stesso senza il motivetto della seconda Restaurazione baudiana: “Perchè Sanremo è Sanremo”. Qui c’è poco da ridere e tanto da piangere. Tatangelo via (era ora!), ma avrei tenuto la Oxa cestinando i riciclati Barbarossa e Pezzali, due bidoni in un colpo solo.

Amazon Italia e il pessimo Customer Service!

Lo shopping on line ha le sue regole e la sua disciplina. Questo mi sembra logico. Tuttavia, il Customer Service* resta il fiore all’occhiello anche di un megastore on line come Amazon Italia. Badiamo bene che un bravo operatore deve sempre seguire la policy di vendita del brand, ma anche valutare caso per caso e confrontarsi con i suoi responsabili. Può non accadere e così un frettoloso “copia e incolla” delle regole di vendita è la peggiore scorciatoia per fidelizzare il cliente. Mettete il vostro acquisto nel carrello, lo depositate lì per qualche giorno, caricate la vostra prepagata e poi prima dell’acquisto vi ritrovate il prezzo rialzato. Il gioco vale la candela? Un 16% in meno su un prodotto musicale che supera abbondantemente i 200€ non è poi così malaccio. Anzi, corrisponde quasi all’ingiusta IVA che mortifica la musica in Italia e non la considera “cultura”.
Insomma, gli umori di vendita di Amazon Italia sono così lampo e le offerte così ballerine, rispetto ai cugini di UK, Francia e Germania, da sembrare specchietto per le allodole. Mentre dal marketing arrivano brillanti newsletter per dirti sottobanco “Perché continui a spendere su Amazon UK quando ci siamo noi in Italia?”, l’incauto e ingessato operatore ci mette del suo. La risposta non è poi così scontata: forse acquistiamo in UK perché il Customer Service ne sa qualcosa in materia di problem solving e valutazione del singolo caso. Le politiche commerciali sono una cosa – alziamo il prezzo del box in Blue-Ray di Harry Potter (UK import) e abbassiamo la versione italiana che c’è rimasta sullo stomaco – ma quelle del Servizio Clienti sono le più delicate perché fanno la differenza di una vetrina.
Su Amazon Italia ci sentiamo “global” soltanto nella navigazione, perché ad un passo dall’acquisto ci ricordiamo di essere in Italia, il paesotto alla buona in cui persino un anglosassone doc come sir William Shakespeare è riuscito a metterci alla porta con gusto e galanteria. Continuiamo ad acquistare musica e intrattenimento su Amazon UK? Sì, soprattutto se abbiamo la presunzione bonaria di sentirci anglosassoni e, per una volta, senza la puzza sotto il naso.

*Tengo a precisare che dal 2013 il Servizio Clienti ha fatto passi da gigante con l’efficienza di gran parte degli operatori. Rispetto a questo post pubblicato, la differenza di un operatore la fa la capacità di sapere gestire il singolo caso.