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Benvenuta Eleonora Maria, che mi fai zio alla vigilia del compleanno

zio_nipotinaRosario PipoloQuando 40 anni fa mi svegliarono all’alba di una domenica d’autunno per portarmi alla clinica dov’era nata tua mamma, ero convinto di selezionarla attraverso la vetrata del nido. Chi mi aveva messo in testa che le sorelle si sceglievano come al supermercato?

In questi nove mesi, cara Eleonora Maria, ti ho aspettata in un trepidante silenzio, perché la volgarità e il chiasso di questo tempo mi hanno fatto rivalutare l’eloquenza della riservatezza. Si tratta di preservare fasi importanti della vita dalla dilagante estraneità appartenente ai tanti invasori del nido di intimità, che per fortuna culla, a nostra insaputa, la voglia legittima e continua di cambiamento.

Quarant’anni dopo lo sbarco dalla luna di tua mamma, che cambiò la rotta della mia crescita per scipparmi alla tristezza di restare figlio unico, arrivi tu dalla medesima luna, restituendo alla mia esistenza un ponte tra passato e futuro. Ad una manciata di ore dal mio compleanno, ci legano come un filo di spago teso lo stesso segno zodiacale e i rimandi dei nostri nomi alla ragazza madre di un grande profeta dell’umanità.

C’è chi fa lo zio per passatempo, chi per legame di sangue, chi per un ruolo sociale, chi per dovere morale. Io non riuscirò ad esserlo per nessuno di questi motivi. Da viaggiatore della vita, infilato nei panni del Corto Maltese della matita di Hugo Pratt, sono scappato dalla tribù e dai regimi sociali della famiglia, schivando l’altalena del vivere per apparire, per dare un senso ai legami costruiti strada facendo.
Io e te, Eleonora Maria, saremo fatti dello stesso impasto dei sogni della vita che condivideremo. Non sarò un compagno di viaggio noioso che vuole dare insegnamenti. Le lezioni della vita le ho cercate e ricercate, ho disobbedito alla scolastica dell’eredità, ho difeso a denti stretti la libertà individuale, perchè senza di essa non ci può essere libertà collettiva.

Eleonora Maria, difendila la tua libertà di esistere, a modo tuo, anche se un cantautore non riuscirà a scriverti una canzone, un regista a dedicarti un film, uno scrittore a farti giocare a nascondino in un romanzo, un pittore a farti specchiare su una tela.
Sii te stessa quando ti accorgerai di avere un paio d’ali per attraversare in volo la vita, senza perdere di vista i piccoli dettagli, perché sono proprio quelli a far della felicità il sottile equilibrio tra crescita e mutamento dell’anima. 

La tua bellezza abbaglia di luce questo nuovo giorno e tu sei il regalo di compleanno più bello della mia vita. Grazie per aver aspettato che mi staccassi dal PC  e dalla scrivania per vederti, alle 19.05 in punto, venire alla luce. Che sbadato, non mi sono presentato. Mi chiamo Rosario, sono tuo zio.

Buon viaggio nella vita, Eleonora Maria.

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Musica nigeriana a palla contro il razzismo che ha ucciso Emmanuel Chidi Namdi

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Rosario PipoloOggi dall’archivio posso tirar fuori con orgoglio tutti i vinili del nigeriano William Onyeabor. Mi importerà poco della vicina di casa, che si lamenterà della musica a palla per il bimbo che fa la nanna. Sveglieremo il piccolo con questo funky graffiante che viene dall’Africa, per raccontargli dell’Italia razzista, dopo la morte senza scrupoli del giovane Emmanuel Chidi Namdi.

Un ritaglio di cronaca da film dell’orrore che ha indignato la comunità di Fermo, nelle Marche, dove Emmanuel era arrivato insieme alla sua ragazza per fuggire dal terrorismo di Boko Haram. Il trentenne nigeriano è stato ucciso dopo aver difeso la fidanzata da  atti di razzismo. E adesso cosa si fa? Affonderemo la rabbia nella vendetta e nel linciaggio dell’ultrà marchigiano che si è macchiato di sangue?

La giustizia avrà da fare il suo dovere, ma noi dovremmo cominciare ad interrogarci seriamente su quanto le insidie del razzismo si siano infiltrate nei piccoli centri dell’Italietta di provincia. Sono come esplosivi che possono fare danni da un momento all’altro, rompendo gli equilibri di qualsiasi comunità che difende con gli artigli i propri diritti, senza però rinnegare i propri doveri.
Torniamo ad essere razzisti tutti, senza distinzione, ogni qual volta per strada abbassiamo gli occhi di fronte a gesti che minano la sicurezza di chi è arrivato nel nostro Paese, senza più niente alle spalle, solo dolore, ma con il diritto sacrosanto di stringere forte un sogno futuro.

Sembra di essere tornati negli USA degli anni ’60, culla primogenita della segregazione razziale. Quando sono ripartito da Memphis l’anno scorso, mi sono riportato l’urlo I have a dream di Martin Luther King, che l’episodio delle Marche seppellisce sotto il letame.
Oggi torna a suonare William Onyeabor, graffia con il tuo funky ribelle e nigeriano i solchi del mio vinile. L’indignazione passa, l’indifferenza resta.

Mai più ferite: Tifiamo per la Francia agli Europei di calcio 2016

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Rosario PipoloFuori dal campo, per non fare uno sgarbo alla nostra Nazionale Azzurra, tifiamo per la Francia a questi Europei di calcio 2016. Sugli spalti dello Stade de France c’è ancora il ricordo spettrale degli attentati di Parigi dello scorso novembre.

La minaccia del terrorismo è sempre dietro la porta e la Francia è in una posizione di difesa nei giorni di una guerra che non vuole finire. I francesi hanno dato prova di grande forza, come i belgi del resto, nel ritornare alla quotidianità mettendo in guardia chi ci vorrebbe far vivere nella paura del recluso.

Non siamo reclusi, vogliamo continuare a viaggiare, a guardarci nelgi occhi a lume di candela in un ristorantino del X arrondissement, a sentirci legati al nostro Paese sullo spalto di uno stadio, ad ancheggiare abbracciati stretti stretti ad un concerto al Bataclan.

Tifiamo per Parigi a questi Europei di calcio, sorridendo davanti alla Torre Eiffel che palleggia – proprio come nel doodle che oggi Google dedica all’evento sportivo – e sospirando travolti dell’energia di questa fiumata di gente per strada.

Tifiamo per Super Victor, il bambino con il mantello e i super poteri in volo sugli stadi francesi di Euro 2016. Per tanti è una mascotte temporanea con il sorriso stampato sulle labbra, per i parenti delle vittime è il volto fanciullesco di chi rinasce tutti i giorni, in un ricordo, in un sogno tappato, in una storia taciuta dal dolore.

Tifiamo per la Francia a questi Europei di calcio 2016. Non è un capriccio, non è un omaggio strappalacrime, è piuttosto il ritrovamento di un germoglio seppellito dentro di noi che calpesta estremismo e populismo, colpevoli di insanguinare l’immaginario collettivo con l’aberrazione della multietnicità.

Il 2 giugno e 70 anni di Repubblica ammazzati dalla campagna elettorale

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Rosario PipoloIl 2 giugno 1946 mia madre, appena venuta al mondo da tre giorni, dormiva beata in una culla mentre Napoli andava alle urne per scegliere tra Monarchia e Repubblica. Questo memorandum, che vale 70 anni di Repubblica Italiana, si smagnetizza nell’istantanea ingiallita di questa donna, orgogliosa del diritto di voto e pronta a dare una svolta epocale alla storia del nostro Paese.

Lo sguardo incuriosito della bimba tra le braccia della madre denuda la bellezza di questa foto, la svincola dall’anniversario e la mette in netto contrasto con la volgarità delle campagna elettorale per le elezioni amministrative del prossimo 5 giugno.
Se pensiamo ai santini elettorali in rimbalzo negli ultimi mesi da un social network ad un altro, agli slogan arrugginiti, ai comizi fuligginosi  o agli isterismi populisti che appartengono a tutti, mi vien da dire che i volti di oggi non hanno nulla da spartire con l’Italia settantenne che scelse la Repubblica.

La pigrizia latente dell’elettore medio, ridotta ad assenteismo a convocazione referendaria, schiaffeggia l’affermazione del diritto di voto quale più grande conquista dell’Italia Repubblicana.
Dall’altra parte la slealtà del candidato politico, disposto a denigrare l’avversario perché senza la colonna vertebrale di un vero progetto di impatto civile, deturpa l’impegno di coloro che settant’anni fa costruirono l’impalcatura dell’Italia Repubblicana.

Il 2 giugno custodirà per sempre l’immagine in bianco e nero dell’Italia che urlò Repubblica nel cammino verso la ricostruzione del Paese; la cialtroneria in vista delle elezioni amministrative del 5 giugno ci ricorderà che l’Italia, dopotutto, ricicla e maschera incrostazioni ideologiche in cancrena. Quanto vale accontentarsi del qualunquismo pur di continuare a campare?

O mare nero, tu eri bianco e trasparente come me senza trivelle

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Rosario Pipolo“O mare nero, mare nero, mare nero, tu eri bianco e trasparente come me”, mi viene da canticchiare dopo che si è spento il battiquorum per il Referendum delle trivelle. Il verso di Giulio Rapetti veniva cantato da un giovanotto riccioluto, per cui una ragazza liceale si è presa quattro la settimana scorsa per aver dichiarato che “fosse fascista”.

Non mi ha sorpreso più di tanto questo ritaglio scolastico di colore. Nel nostro Belpaese ciarlatano si va ancora avanti a connotare destra o sinistra per capire il valore di una presa di posizione. E’ vero che l’astensione è prevista dalla Costituzione Italiana, ma d’altro canto si creano le condizioni per non andare a votare.
Ahimè, finiti i tempi delle Balene Bianche che, una trentina d’anni fa dalle mie parti, galleggiavano tra parrocchie e Caritas regalando borse zeppe di spesa per una settimana, scampando il pericolo di astensionismo alle amministrative.

I tempi sono cambiati. Se avessimo messo i seggi nel nuovo Centro Commerciale di Arese, alla periferia di Milano, avremmo abbattuto l’astensionismo? Forse sì, avremmo raccattato preferenze tra tutte le auto in fila in autostrada. Ecco il nuovo cliché dell’italiano medio nell’agorà dello shopping: prendersi a mazzate per un coscetta di pollo fritto. Quanto ci vuole poco per barattare l’ultimo barlume di senso civico.

Dopotutto, come ha twittato qualche piccolo “saggio”, ci sta pure che gli italiani volessero le famigerate trivelle senza passare per ambientalisti radical-chic.
Non c’è da meravigliarsi e qui mi viene in aiuto Lucio, non quello paventato all’inizio di questa riflessione, ma Dalla: “La spiaggia di Riccione, milioni di persone le pance sotto il sole, il gelato e l’ombrellone abbronzati un coglione, non l’hai capito ancora che siamo stati sempre in guerra.” Non ci spaventavamo le bombe del conflitto serbo-bosniaco dall’altra parte dell’Adriatico, figuriamoci se la prossima estate ci impressioneranno una paio di trivelle in mezzo al mare mentre ci rifacciamo la nuova tintarella.

“O mare nero, mare nero, mare nero, tu eri bianco e trasparente come me”.
Mannaggia, questo motivetto è diventato un tormentone. Scusi, professore, mette anche a me un 4 pieno se dico che Mogol era un ambientalista? Pensi un po’, prima che arrivassero le trivelle. In alternativa la tintarella ce la rifaremo a Sharm.

Il ferroviere Gianmaria Testa e le dimestichezze d’amor

Rosario Pipolo

Siamo diventati tutti balbuzienti quando si parla d’amore tra gli emoticon di WhatsApp e sfilate di chat accorciate dalla voglia di essere sgrammaticati per il timore di essere noi stessi. Ci vuole dimestichezza in amor come ha sussurrato Gianmaria Testa sugli accordi di una chitarra fischiettante.

Eravamo drogati dal furibondo tam tam quotidiano per accorgerci che un ex ferroviere, attraversando i binari degli acquerelli musicali di Paolo Conte sfumati nella ballata di Sergio Cammariere, ci aveva svelato il piccolo segreto: le dimestichezze d’amor sono andare oltre “la notte che si arrende”. E così lasciamo passare storie, legami, condivisioni, baci belli come la refurtiva di un tesoretto ritrovato in fondo al mare.

E’ come quando ti godi la tua estate on the road, lasciandoti dietro le carezze della borina di Trieste, pensando che quella sia la prima di tante altre. Invece no, è l’ultima estate insieme e la fine ti coglie di sorpresa come la morte che giunge senza convenevoli o preavvisi.

Ci vogliono le dimestichezze d’amor cantate da Gianmaria Testa perché, senza fare chiasso o inutile baldoria, tracciano lungo un filo di spago la vita e i sentimenti di noi gente semplice, gente comune, gente ordinaria che possiede una sola ricchezza: diluire la quotidianità in una canzone, spingerla nei suoi abissi, farla ritornare a galla e poi asciugarla al sole.

I francesi ci hanno invidiato Gianmaria Testa fin dal primo momento. Si erano accorti che le parole imbrigliate tra le corde della sua chitarra tenevano lontani i sentimenti dai fuochi pirotecnici del nostro tempo, in cui l’eternità si ammazza nel tempo di una stagione.

Ci vuole dimestichezza in amore. Il treno ha fischiato. Grazie, maestro.

L’attacco a Bruxelles e il seme dell’odio in Europa

Rosario PipoloNon abbiamo fatto in tempo ad inghiottire lo sgomento per gli studenti dell’Erasmus in Spagna, che ci siamo ritrovati nell’orrore al risveglio del 22 marzo: Bruxelles attaccata, assediata, terrorizzata. La matita di Plantu, in questo disegno che spopola in Rete, non solo unisce simbolicamente Francia e Belgio come compagni di sventura, ma perimetra il calendario dal 13 novembre 2015 al 22 marzo 2016.

Questo è il lasso di tempo che ha permesso al terrorismo della jihad di affilare le armi e tornare a colpire l’Europa in due punti nevralgici, l’aeroporto e il metrò della capitale belga, a pochi passi dal Parlamento Europeo. I terroristi schiacciano il pulsante del rewind e scatta l’incubo di Madrid 2004.
La risposta dell’ISIS all’arresto di Salah Abdeslam, uno dei responsabili degli attacchi di Parigi di novembre, è giunta rispettando i tempi canonici di una pellicola che mischia thriller e film dell’orrore.

Non mi hanno impressionato né il fanatismo dei kamikaze né tanto meno le minacce dell’Isis, pronta a continuare questa sporca e sanguinosa guerra a viso scoperto. Per me il pugno allo stomaco è stato assistere al germoglio del seme dell’odio nei piccoli orti dei social network: “Un nostro morto vale mille dei loro. Basta stare a guardare”.

Mi vien da dire che con questo atteggiamento ci arrendiamo con viltà al terrorismo che vuole piegare fino allo sfinimento le nostre democrazie: Bruxelles dopo Parigi; Parigi dopo Tolosa e Madrid. Questa volta non basterà accendere i monumenti delle capitali con i colori del Belgio. L’Unione Europea dovrà dimostrare con azioni congiunte ed efficaci che non è un’accozzaglia di staterelli in piena lotta fratricida.

Noi, dall’altra parte, dobbiamo continuare a seminare civiltà nel nostro quotidiano, nel nostro piccolo, senza regredire verso quella forma di odio o, peggio ancora, verso la meschinità di alcuni nostri politici che, giocando al gatto e alla volpe, trovano sempre il modo insidioso per strumentalizzare il dolore.

La tentazione di barricarci in casa fa la prepotente appena si insinua il dubbio: dopo Bruxelles a chi toccherà?
Dopo Parigi abbiamo smesso di sentirci sicuri nei luoghi del vivere da persone normali, al ristorante così come allo stadio. Dopo Bruxelles, mettiamo nero su bianco il prezzo della nostra vulnerabilità. La cambiale da versare è più alta di quanto ci faranno credere.

19 marzo: Tale padre, tale figlio

Foto di Jorge Brian Di Monte

Foto di Jorge Brian Di Monte

Rosario PipoloLa pizza fritta è l’orgoglio della cucina popolare napoletana ed è una pietanza che può tessere un filo tra padre e figlio, soprattutto quando si tratta della condivisione del mestiere di pizzaiolo. Assaggiarla in un posto lontano da Napoli mi lascia sovrappensiero, per giunta a ridosso della Festa del Papà.

Distante da chi vive l’impolverata sindrome dell’emigrante alla Massimo Troisi, sono convinto che la reginetta dello street food parteneopeo sia ancora più saporita se, oltre la ricotta, cigoli, provola e pomodoro ci mischi ricordi e ritagli di una vita, per giunta in una città non tua come Milano.

Nell’impasto della pizza fritta di Luigi Capuano ho ritrovato la tenacia di chi si è fatto portatore sano altrove della napoletanità laboriosa, che riscatta il luogo comune dello sfaticato e lavativo all’ombra del Vesuvio.
Ricordo quella pizza fritta, premio di nonna Lucia, preceduta da un monito: “Tu non devi riportare i fatti di noi grandi, altrimenti ti diranno che tiene ‘na vocca comme Porta Capuana. Ora consolati con questa pizza”. Io ridevo a crepapelle per questo slang colorito.

Luigi ha imparato l’arte di un mestiere popolare da mastri dalla portata di Magno e Di Napoli, trasmettendola al figlio Enzo, in questi giorni in trasferta a Las Vegas insieme a tanti altri pizzaioli napoletani, per tenere alta la bandiera del Vesuvio oltre oceano.
Ci sono figli che mai farebbero il mesterie del papà; ci sono papà che, invece di sognare figli astronati sulla luna, lasciano in eredità la passione di una professione. Questa volta è il caso di dire: Tale padre, tale figlio. E forse un giorno anche i figli più piccoli, Maurizio e Thomas, seguiranno le sue orme.

Tutta colpa di una pizza fritta? No, dell’amore che ci sta intorno, che ci aiuta a fare meglio, come  quello di Alessia, la moglie innamorata del suo pizzaiolo. Nel frattempo, finisco la mia pizza e ripenso a donna Anna, la mamma novantenne di Luigi Capuano, che non smetterà mai di ripetere: “Giggì, ti ricordi quando ti accompagnavo da Pizzicato a piazza Municipio perché da bambino volevi imparare a fare la pizza? Non te lo dicevo, ai tempi ero già fiera di te”.

La vita unta di ricordi come una pizza fritta? Perché no, ha un buon sapore. Stasera voglio  essere il garzone di questo pizzaiolo, tornare indietro nel tempo e fare assaggiare la pizza fritta di Luigi Capuano alla regina che diede il nome alla famosa pizza Margherita: “Maestà, le ho portato questa pizza dal futuro. La assaggi, sotto il palato sentirà anche una punta di sentimentalismo, quello che nel mio tempo è stato offuscato dalla volgarità”.

Buona Festa del Papà a tutti i pizzaioli napoletani come Luigi Capuano che, in giro per il mondo, infornano e sfornano pizze ogni santo giorno senza dimenticare di essere prima di tutto papà.

Terra dei Fuochi e tv di regime

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Rosario PipoloNelle province campane di Napoli e Caserta, cuore della Terra dei Fuochi, il tasso di mortalità è aumentato in maniera spropositata. La maggior parte dei casi sono per tumore o leucemia: 28,9 e 27,5 decessi per diecimila abitanti, sono i dati forniti da Corriere.it.

I dati dell’Istat parlano anche di mancanza di posti letto negli ospedali e, di conseguenza, di un doloroso flusso di migrazione per curarsi altrove. Vi siete accorti che il vostro vicino, per giunta gravemente ammalato, sta ipotecando l’appartamento o sta facendo questua tra i  parenti per finanziare il viaggio della speranza?

Nel frattempo a Porta a Porta, salotto televisivo tutto tarlato da Prima Repubblica, si parla di Terra dei Fuochi, annaquando la terminologia del tumore con malattia grave. Del resto in questa tv pubblica di regime, a cui verseremo dal prossimo luglio in bolletta il canone televisivo, i panni sporchi si lavano in famiglia – come recitava nel suo breviario il divo Giulio – sbiancando la coscienza con qualche fiction tv sul delicato argomento.
Chissà se ne prenderà atto il nuovo direttore di Raiuno Andrea Fabiano che dovrebbe svecchiare la rete ammiraglia di mamma RAI.

Tornando alla Terra dei Fuochi, è raccapricciante come nella città di Napoli, colpita anch’essa da dilaganti casi di mortalità,  tornino a farsi spazio i vicerè dello stantio rinascimento partenopeo. Manca poco al 6 marzo, giorno delle Primarie per scegliere il candidato a Sindaco del capoluogo partenopeo. Non basta più la rabbia esplosiva da rapper, la cantata del neomelodico o la promessa politica.

“Masaniello è cresciuto, Masaniello è turnato” per non farsi beffeggiare, per non farsi derubare il diritto alla salute.

I Love Ischia, l’isola romantica che ha salvato l’ultima cabina telefonica

Rosario PipoloSi può essere romantici senza essere per forza nostalgici, appendendo i corsi e ricorsi storici di una comunità ad una vecchia cornetta del telefono. Mentre l’Italia si disfa delle obsolete cabine telefoniche, l’isola di Ischia dà una bella lezione alla natività digitale: salviamo l’ultimo telefono pubblico. La notizia fa subito il giro del web.

L’emancipazione tecnologica fa un passo indietro di fronte a questa notizia di colore, mettendo alle strette la mia generazione. All’alba degli anni ottanta ho assistito al pensionamento del gettone telefonico e ho visto, nel giro di un decennio, spuntare come funghi i nuovi telefoni panciuti, che masticavano schede telefoniche.
Negli anni ’90 vi ricordate i tipi sospetti che sostavano nelle cabine telefoniche nelle ore serali? Li scambiavamo per un killer o il maniaco di turno, invece erano gli inarrestabili collezionisti  a caccia di schede telefoniche dimenticate, smagnetizzate.

A Ischia, l’isola dove ho cominciato la mia attività di giornalista, fu proprio una cabina telefonica a salvarmi per chiedere asilo in redazione, dopo aver perso l’ultimo traghetto per Napoli. Oggi basterebbe un messaggio su WhatsApp ad uno degli amici della community social di I Love ISCHIA, che si prodigherebbe per ospitarmi.

Mi toccherà fare un salto a Succhivo, il piccolo comune ischitano battutosi a furor di popolo in difesa dell’ultima cabina telefonica, con l’ultima moneta in tasca, come accadeva negli anni universitari.
Quando le telefonavo dalla cabina, ero costretto a trovare una ragazza per strada che si fingesse sua amica. Mentre la mamma andava a chiamarla, attraversando il lungo corridoio al secondo piano, mi ero giocato già una parte del tempo della telefonata. Per fortuna, la cabina era a pochi metri da casa e così quella volta le dissi: “Prima che si interrompa la telefonata, mettiti dietro la finestra. Io sono accovacciato sulla Vespa”.

Ci inventammo così la prima videochiamata da un telefono pubblico.