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Cartolina dai Campi Flegrei: Franco e i Pooh, 50 anni di vita e musica

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Rosario PipoloA Napoli porta bene se il tuo cinquantesimo compleanno coincide con quello della band musicale seguita da una vita. Mentre Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian, Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli si preparano ai festeggiamenti di mezzo secolo di Pooh, io ritrovo il fan napoletano che proprio oggi spegne cinquanta candeline.

Avevo conosciuto Franco ai tempi dell’università, si era trasferito dal Vomero nel condominio dei Campi Flegrei dove abitavano i miei nonni. Attraversando il cortile dello stabile del ’59, sentivo spesso sottovoce quelle poesie in musica composte dal compianto Valerio Negrini, al tempo in cui le canzoni in Italia non venivano prese troppo sul serio se non erano “politicamente” impegnate.

Ho imparato a conoscere le piccole storie della vita di Franco attraverso la passione per i Pooh. Quante volte ci siamo fermati nel cortile del palazzo a condividere aneddoti: un amore musicale nato nel 1978 da un juke box al lido Bikini di Minturno e poi da allora tante fughe per i concerti dei moschettieri della musica italiana.
A quindici anni Franco scappò a Roma per il primo live della band, mentre la mamma dormiva sonni tranquilli, sapendolo a casa di un amico. Si cresce con ricordi musicali come Eleonora mia madre, senza sapere che, anni dopo, avrebbe conosciuto di persona Red Canzian, voce di quella canzone.

Toccò proprio al fan partenopeo togliere una curiosità al polistrumentista trevigiano, spiegando il significato della parola napoletana cazzimma. Quando Red gli chiese cosa fosse, Franco replicò alla maniera di Alessandro Siani: “Nun t’o voglio dicere. Chest’è ‘a cazzimma.”

Le canzoni hanno il merito di avere appese al collo le pagine del diario del quotidiano, circoscrivendo gli imbarazzi della memoria nel ricordare gli amori della nostra vita. Franco ne ha avuto uno, Rosa, fidanzata di ieri, moglie per sempre, mamma di Umberto, Marco e Sara.
Oggi, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso fare una confessione a colui che è rimasto l’unico amico di quel condominio ai Campi Flegrei, custode di una parte meravigliosa della mia vita: negli anni in cui affannavo entrando in quella casa, vuota, buia, senza la luce dei nonni Pasquale e Lucia, le chiacchierate e le canzoni condivise con Franco hanno reso meno faticosa la scalinata verso il sesto piano.

E’ proprio vero, 50 anni di vita e musica quelli tra Franco e i Pooh. In mezzo è diluita anche qualche goccia della mia memoria.

Cartolina da Napoli: Epifania senza ‘a Maronna e ‘o bambiniello

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    Foto di Ivana Pipolo

Rosario PipoloQuest’anno i Magi non hanno trovato ‘a Maronna e ‘o bambiniello nel giorno dell’Epifania. Nella Napoli troppo distratta dal torpore della fine delle festività – la Befana tutte le feste porta via – e dagli affannosi auguri porta a porta in vista delle prossime elezioni comunali, neanche i turisti si sono accorti della fuga premeditata della ragazza madre e del suo bambino.

Scampato il pericolo dell’aborto, dovrà vedersela con gli assistenti sociali che prima o poi tenteranno di scipparle il pargolo, proprio come fece Erode più di duemila anni fa. La riterranno incapace di ricoprire il ruolo di madre, senza chiedersi semmai ci fosse stato qualcuno a metterla in condizione di svolgere il mestiere più utile e complicato nella società.

Mentre tutti erano incantati ad osservare il presepe, ‘a Maronna e ‘o bambiniello se le davano a gambe lungo via Cabonara, via Duomo per poi arrampicarsi, dopo la rincorsa di Spaccanapoli, sui Quartieri Spagnoli.
Per fortuna che a documentare questa natività dei giorni nostri c’era l’occhio fotografico di Ivana Pipolo, scivolando su quello stadio interiore della sospensione, lontano dalla nostra inguaribile frenesia.

Osservando questa foto mi sono tornati in mente gli assistenti sociali prevenuti e con i paraocchi dell’Inghilterra thatcherista, denunciati da Ken Loach nel commovente film Ladybird, Ladybird. Napoli non è Londra, ma questa Maronna cela sotto il velo l’emerginazione galleggiante che spodesta la sicurezza di essere guidati da una coscienza civile.

Oro, incenso e mirra, i doni di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, p’a Maronna e ‘o bambiniello, ragazza madre sedotta e abbandonata nella Napoli dei giorni nostri.

Aniello Montano, l’ultimo apostolo tra socialismo e laicità che fece brillare l’Università Federico II di Napoli

Rosario PipoloSossio Giametta, luminare di filosofia, mise nero su bianco una verità scomoda al mondo accademico napoletano: “Se penso alle invidie che popolano l’Accademia, Aniello Montano è un santo per l’assoluta assenza nella sua anima irenica, pura e francescanamente semplice e umile, di ogni segno di bassezza e meschinità”.

A poche ore dalla scomparsa del Prof. Aniello Montano (1941-2015) continuiamo a chiederci come abbia fatto l’Università Federico II di Napoli, punto di riferimento dell’istruzione pubblica in Europa e tra le istituzioni laiche più antiche del mondo, a farsi scippare da un ateneo di periferia questo talento germogliato all’ombra del Vesuvio.
Persino chi si limitava ad osservarlo o a viverlo a distanza senza per forza essere suo allievo, aveva capito che il promemoria della sua storia era trascritto nei suoi occhi chiari di ghiaccio: negli anni ’80 instancabile ricercatore alla Federico II di Napoli; poi le traversate dell’Italia per raggiungere l’università di Genova in veste di docente di filosofia e infine l’approdo a Salerno, dove fu anche direttore del Dipartimento di Filosofia.

Negli anni in cui, all’interno dell’ateneo dove mi sono formato e con cui ho collaborato, padroneggiavano le lobby marxiste, quale terreno fertile sarebbe stato riservato ad un anti-accademico perbene come Montano?
E’ stato lui l’ultimo apostolo dalla visione laica e socialista che, sceso dalla cattedra accademica, ha portato la filosofia tra la gente comune e nella vita di tutti giorni, dando una gran bella lezione di umiltà alla presuntuosa classe docente di provincia.

Aniello Montano portò tra studenti, operai, casalinghe, appassionati, il verbo di Giordano Bruno, l’eretico ammazzato dalla stessa chiesa che secoli dopo avrebbe sparso, attraverso prelati spregevoli, arretratezza nella feudale landa nolana.
Mentre i faraoni di provincia si facevano erigere monumenti, intitolare strade, costruire cappelle cimiteriali per autoproclamarsi eroi e nascondere mezzo secolo di malefatte politiche, l’umanista Montano schiodava dal torpore più generazioni, lasciando in eredità una verità: l’amore per la cultura e per la filosofia ci salveranno così come la bellezza del mondo classico.

Oggi sventoli un drappo nero nel cortile della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II di Napoli in memoria di Aniello Montano, punta di diamante dell’Istruzione Pubblica del nostro Meridione.
Chinino il capo mortificati i baroni e gli accademici miopi. Noi cresciuti qui, anche se abbiamo fatto ricerca su discipline diverse, ci arroghiamo il sacrosanto diritto di riprenderci ogni parete del Dipartimento di Filosofia e dedicarlo al prof. Montano.

Le onorificenze e la gloria appartengono alla nostra umanità. Resta la memoria sedimentata tra le persone. E se “Dio è anche mamma”, come ci scandalizzò Papa Luciani, allora vorrà dire che lo studio e l’evangelizzazione filosofica di Aniello Montano varranno il doppio. Lassù avrà finalmente conosciuto di persona Giordano Bruno.

Non insegnate ai bambini: Date fiducia all’amore, il resto è niente.

Rosario PipoloBuon compleanno, Zoe. Io e il tuo papà ci alleammo al terzultimo banco in un liceo della periferia di Napoli contro l’irrefrenabile nozionismo che voleva la recita a memoria di Natalino Sapegno. Scalpitavamo per percorrere altre strade e trapiantare nell’anima la letteratura italiana.

“Non insegnate ai bambini, non insegnate la vostra morale. È così stanca e malata, potrebbe far male. Forse una grave imprudenza, è  lasciarli in balia di una falsa coscienza. Non elogiate il pensiero, che è sempre più raro. Non indicate per loro, una via conosciuta. Ma se proprio volete, Insegnate soltanto la magia della vita”*.

Buon compleanno, Zoe. Ci pensi, Io e il tuo papà in piedi su una sedia, a fine lezione, in quello che fu scambiato per l’irriverente sfottò di due eccentrici e arroganti maturandi.
Invece no, fu la nostra protesta. Non ne potevamo più di inghiottire come rospi a quantità industriale versi latini e greci, per riempire i buchi dei programmi ministeriali della scuola miope e strabica dei nostri tempi.

“Non insegnate ai bambini, non divulgate illusioni sociali, non gli riempite il futuro di vecchi ideali. L’unica cosa sicura è tenerli lontano dalla nostra cultura. Non esaltate il talento che è sempre più spento, non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza, ma se proprio volete raccontategli il sogno di un’antica speranza”.*

Buon compleanno, Zoe. In una mattina di primavera io e il tuo papà trasformammo l’odioso “filone” del liceale radical-chic in un viaggio a corto raggio: parlammo, condividemmo, sbottonammo  sogni futuri azzannando un panino caldo e mortadella, ci staccammo una volta e per sempre da quel provincialismo che premia i bagordi del vivere per apparire anzichè la sostanza dell’essere.

“Non insegnate ai bambini. ma coltivate voi stessi il cuore e la mente. Stategli sempre vicini, date fiducia all’amore, il resto è niente”.*

Buon compleanno, Zoe. Alzati da quella sedia, proprio come facemmo io e il tuo papà, svestendoci del pregiudizio di chi diceva che non potevamo farcela con le nostre forze. Giro giro tondo, cambia il mondo.

*Giorgio Gaber – Sandro Luporini, Non insegnate ai bambini, dall’album “Io non mi sento italiano”, CGD, Italia 2003

Il delirio Expo 2015 tra i visitatori delusi e incazzati neri

Rosario PipoloDa una parte si mettono gli italiani con il brutto vizio di ridursi sempre all’ultimo; dall’altra si mette il fallo di una macchina organizzativa come quella dell’Esposizione Unviersale. Avete visto già con i vostri occhi quello che sta accadendo in questi giorni ad Expo Milano 2015?

Dopo la prima visita  nelle prime settimane di maggio, eccomi di ritorno nel luna park di Rho Fiera. Persino un bimbo nel passeggino  – loro sì che sono fortunati saltando le code asfissianti – si accorgerebbe che se in settimana si rischia il bollino rosso, figuriamoci nel weekend. Io ho vissuto il primo sabato e domenica di ottobre da bollino nero.

Mettetevi l’anima in pace: code chilometriche ovunque, dall’entrata all’accesso ai padiglioni (avete vinto la lotteria se l’attesa si riduce a due ore), per mangiare un boccone o per andare alla toilette. Anzi, se vi scappa la pipì farete meglio ad usare il “vasino” del vostro bimbo. Meno male che ci sono quelli di Cascina Triulza ad omaggiare noi disperati con vassoi di insalata da condire. Per non parlare del bus navetta che porta da una parte all’altra del perimetro, dove si fa a zuffa per salirci. L’albero della vita è inavvicinabile perchè l’accesso è bloccato dalle lunghe code per Palazzo Italia.

Il decumano di Expo sembra piazza San Giovanni a Roma in attesa del concertone del 1 maggio. Un gruppo arrivato da Arezzo, scambiandomi per uno dello staff, si lamenta: “Abbiamo fatto tanti sacrifici per arrivare qui. Dove siamo finiti? In quale baraonda?”. Per non parlare delle maestre inviperite, trasformate all’occorrenza in vere e proprie guerriere affinchè le classi della Primaria vedessero qualcosa.
Nel tardo pomeriggio di sabato c’è chi posta su Facebook il selfie da Expo, ironizzando: “Siamo entranti nel Guiness dei primati, da stamattina non siamo riusciti a vedere neanche un padiglione”.

Faccio una premessa: detesto i disfattisti di Expo e tutta la ciurma che, accecata dal pregiudizio, ha perso l’occasione di vivere questa esperienza. Nonostante sia stato trasformato in un luna park folcloristico per “fare cassa”, Expo Milano 2015 ospita tanti padiglioni che, durante il semestre, ci hanno aiutato ad esplorare l’emisfero della nutrizione e il valore aggiunto che essa ha per la vita.

Nonostante ciò, l’organizzazione è stata incapace di gestire criticità ed emergenze. Ribadiamolo: il successo di un evento di questa portata non si basa sul numero di biglietti venduti, bensì sulla qualità del servizio offerto al pubblico. Tutti, dal bambino all’anziano, devono essere messi in condizione di poter godere l’evento senza stress infernali. Non ci vuole Einstein per fare due conti e capire che gli accessi dei biglietti “open” dovevano essere controllati e limitati ogni giorno.

In tanti hanno deciso di mollare e svendere i biglietti di ingresso di questo rush finale. Cosa ci resterà di Expo Milano 2015? Il visitatore incazzato? No, l’amara cartolina che mi ha lasciato un anziano signore sabato scorso ai varchi: “Sono ammalato. Mi è costato un grande sforzo fisico essere qui. Questa forse è la mia ultima uscita stagionale”.

Quando le immagini scuotono le nostre coscienze

Rosario PipoloLe parole non ci scuotono più. Ce ne sono troppe, spezzettate, allungate, insipide nell’acqua che bolle dei social network. Qui non si tratta di pesare la pasta da buttare in pentola, ma la nostra coscienza civile, frullata negli sfoghi che una volta nascevano e morivano al bar sotto casa.

Gli algoritmi, che governano la traballante democrazia in Internet, non sempre sono la chiave d’accesso alle notizie per fare chiarezza su una questione che getta ombre sull’Unione Europea: il destino di migliaia e migliaia di profughi.

Siamo tornati all’Europa della frontiere, quella che fa venire fuori il lato oscuro nei recinti delle nostre lande. Basta guardare com’è andata a finire in Ungheria, scivolando sull’indignazione collettiva per la gestione del flusso dei profughi o dopo aver visto la videoreporter ungherese che prendeva a calci i migranti.

La bellezza salverà il mondo? No, perchè non è quella dei selfie che hanno affolato la nostra estate: tette e culi in riva al mare; il primo dentino o il ruttino sotto l’ombrellone di nostro figlio; l’ostentazione di dimostrare agli amici facebookiani che la nostra meta fosse la migliore; la lucida follia dell’anvedi come siamo belli.

La bellezza salverà il mondo a patto che le immagini scuotano le nostre coscienze. Il bimbo dormiente in riva al mare, che ha fatto in un batter baleno il giro del mondo, ci ricorda nella sua plastica drammaticità i calchi abbracciati degli scavi archeologici di Pompei. La riflessione, miscuglio di dolore e rabbia, è vellutata dal brusio del mare. Ahimè, non si tratta delle acque dove abbiamo fatto splash la scorsa estate.

Allora canto, perchè non so scrivere: “L’estate sta finendo e un anno se ne va, sto diventando grande, lo sai che non mi va”.

Mi sentivo bresciano con i cornetti di “Frank” alla Mandolossa

Rosario PipoloI veri viaggiatori esplorano anche le periferie. Così una notte di tanti anni fa mio cugino mi fece scoprire un posticino fuori dal centro di Brescia dove poter mangiare cornetti, brioche e pizzette  a tutte le ore della notte.
Il gestore Francesco Seramondi, l’uomo freddato da due killer insieme alla moglie ieri mattina nella famosa cornetteria e pizzetteria della Mandolossa al numero 27 di via Vallecamonica, era conosciuto da tutti come “Frank”.

Lì, in mezzo al degrado della periferia bresciana, era Frank il “Re della Notte” e per i ragazzi era un punto di riferimento come il mitico locale Arnold nella serie televisiva Happy Days. La prima volta che ci capitai, Frank capì subito che ero originario del Sud. Attaccai bottone.
Mentre mi rimpinzavo di cornetti e pizzette in piena notte, il gestore esprimeva la simpatia per noi napoletani. Amava ripetere che avevamo una marcia in più e rideva ripensando ai cartelli sparsi sul territorio che, nella metà degli anni ’80, recitavano sgarbatamente: “Non si affittano case ai napoletani”. Prima che andassi via, lanciò un paio di monete nella macchinetta e disse: “Il caffè tocca a me”.

Da allora tutte le volte che ero in zona e a stomaco vuoto, chiedevo a mio cugino di portarmi da Frank. Quando Seramondi scoprì che ero un giornalista, tirò fuori una raccolta di ritagli di giornale dedicati a lui e alle sue ghiottonerie. Ne andava fiero.
Con una punta di ironia diceva che le sue brioche piacevano a tutti, anche “alle battone”. Una volta, dovendo prendere l’aereo all’aba da Orio al Serio, mi regalò un paio di brioche calde da portare in viaggio.

Frank era generoso, a chi aveva fame e tasche vuote non negava mai un cornetto e una pizzetta. Francesco Seramondi sapeva che prima o poi gli avrei dedicato un articolo, ma io non avrei mai immaginato di doverlo fare in questa triste e tragica circostanza. Adesso chi lo dice ai bresciani al ritorno dalle vacanze che il vecchio Frank, il re dei cornetti di Brescia e provincia, non c’è più?

Oggi anche io ho il diritto e il dovere di urlare #MéSoFrank, l’hashtag a lui dedicato dal popolo dei social network che chiede una Brescia più sicura.

Cartolina d’estate: Gina Mastrangelo, capotreno Trenitalia medaglia al valore

Rosario PipoloUna domenica sera caotica sulla linea ferroviaria Ancona-Bologna a causa di un guasto tra Forlì e Bologna. I passeggeri temono che possa ripetersi il tracollo di una settimana prima: passeggeri in ostaggio in treno per tutta la notte a causa di un nubifragio a Firenze.

Questa volta i treni si limitano ad accumulare ritardi tra i 60 e 90 minuti, facendo perdere a tanti viaggiatori le ultime coincidenze per ritornare a casa. Sul Regionale Veloce 1734 in direzione Milano alla stazione di Bologna sale un capotreno occhialuto.
E’ una donna minuta, sulla trentina. A conti fatti a Milano Centrale arriveranno diversi passeggeri, tra cui anche un minorenne, condannati a trascorrere la notte in stazione: addio treni per attraversare la stessa Lombardia, raggiungere il Piemonte o il Veneto.

Gina Mastrangelo – è il nome del capotreno in questione-  va su e giù per i vagoni, telefonando in Centrale a Milano per risolvere la criticità. Trenord, la società costituita da Trenitalia e Ferrovie Nord che gestisce il trasporto ferroviario in Lombardia, rimbalza la patata bollente a Trenitalia. Due società che dividono l’Italia lungo il Po con una carta dei viaggiatori differente, duellando spesso e facendo a scaricabarile.
E’ passata da un pezzo la mezzanotte, la Mastrangelo tiene duro e con un rimbalzo telefonico che va da Bologna a Milano la spunta, fa la voce grossa, ottiene quattro taxi per far riportare i passaggeri a casa.

A Milano, sotto un diluvio universale, il capotreno bolognese si prende la briga di accompagnare ogni viaggiatore al tanto agognato tassì. Su una di quelle auto ci sono io, mi volto indietro, mentre lei scompare sotto la pioggia.
Mi piace raccontare quest’Italia, fatta anche dalle donne capotreno che di sera e di notte attraversano l’Italia, mettendo a repentaglio la vita su linee ferroviare, poco sicure in alcune tratte.

Siamo diventati così piagnucolosi da raccontare solo il peggio del Belpaese. Il meglio è invisibile all’isterismo collettivo, perchè spesso opera all’ombra. Stamattina a Milano Centrale, poco dopo le 7,  hanno sentito un fischio.
Era la Mastrangelo in divisa, impeccabile come sempre, orgoglio del trasporto ferroviario locale.  E forse su quel treno Regionale con destinazione Bologna qualcuno l’avrà riconosciuta, porgendole un fiore come per dire: “Grazie Gina, perchè la passione che ci metti ogni giorno su questo treno rende a piccole dosi l’Italia migliore”.

Disco difettoso nel cofanetto in vinile di John Lennon. Universal Music, cosa si fa?

Rosario PipoloTanto rumore per nulla. L’atteso cofanetto in vinile di John Lennon, messo in vendita poco più di un mese fa, ha una pecca imperdonabile. Nonostante la Universal Music si fosse affidata alla tedesca Optimal Media, tanto decantata per le riproduzioni in LP, il misfatto c’è stato.

Appena ricevuta la mia copia di LENNON, mi sono messo all’opera per la verifica: il difetto non riguarda solo i primissimi pezzi ma tutta la tiratura. Ascoltando la facciata A del disco Rock ‘N’ Roll, ho ritrovato ripetuta due volte la celebre cover di Berry Sweet Little Sixteen. Insomma, gli osannati ingegneri del suono, che hanno lavorato al progetto, hanno lasciato fuori You Can’t Catch Me.

Per non parlare dele riproduzioni delle copertine degli LP, alcune davvero inguardabili: scolorita quella di John Lennon Plastic Ono Band o alterata la cromatura di Milk & Honey. Inoltre, quelli della Optimal Media hanno usato un tipo di carta per gli inserti – vedi Imagine –  che fa perdere l’effetto degli originali.

Non tutti i remake musicali riescono “con il buco” e sicuramente questo omaggio “commerciale” a Lennon non ha niente a che vedere con il lavoro certosino fatto per il Mono box in vinile dei Beatles, uscito nel settembre 2014. John Lennon meritava unicità anche nel packaging, ahimé identico al cofanetto in vinile degli ABBA.

Ci sono cascati anche i miei colleghi delle riviste specializzate nella presentazione del prodotto: le hanno mai viste le ristampe EMI/Capitol degli anni ’80? E’ tempo di rimpiangerle. Scoperto il form dedicato da Universal Music (claim.lennonvinylbox.com) per richiedere la sostituzione del “disco avvelenato”, già una rarità, mi consolo con un ricordo estivo da liceale.

Nel 1988 riuscii a farmi finanziare da mamma l’acquisto dell’audiocassetta di Rock ‘n’ Roll di Lennon. Una mattina non entrammo a scuola e il mio compagno di classe Alessandro mi invitò a casa sua. Prendemmo due panini con affettati in salumeria e poi ci sparammo ad alto volume Let It Be dei Beatles, nella versione in audiocassetta importata da sua madre dalla Francia.
Io ricambiai tirando dallo zaino l’album in questione di Lennon e chiudemmo con queste meravigliose cover rock. La buona musica sa come farti stare bene, oggi come allora, meglio se con la compagnia giusta.

Deludente il Prime Day per i 20 anni di Amazon. Applausi al Customer Care!


Rosario PipoloAmazon
ha cambiato la vita di noi consumatori negli ultimi vent’anni e ha scritto il trattato dello shopping on line. Da una parte ci ha privato dell’atmosfera retrò e sentimentale di entrare in un negozio, guardando in faccia il venditore; dall’altra ha permesso a tutti noi di acquistare h24 qualsiasi “oggetto del desiderio”, spesso anche a prezzi stracciati, al di là delle polemiche sul fisco.

Sarà pure che questi pacchi vaganti, rispetto a ieri, arriveranno dai magazzini di Amazon a noi nel giro di un giorno, ma questo Prime Day del 15 luglio è veramente fuffa. I discepoli del Marketing di Bezos avevano promesso una giornata di sconti  pazzi a tempo, da far impallidire il Black Friday.
Ahimé, niente di tutto questo, almeno per quanto riguarda Amazon Italia. Gli “amazoniani” incalliti, svegli ad aspettare la mezzanotte, si sono dovuti ricredere, forse perchè questa è la classica operazione commerciale svuota-magazzino di mezza estate.

Durante il corso di questa notte, a parte qualche timida occasione, mancavano all’appello gli affari colossali in stile reale  “sottocosto” da farci fare i nottambuli: in lista troppi prodotti inutili e per i pochi interessanti il prezzo di partenza era quello di listino che, anche per i casi del 50% di sconto, non avevano l’appetibile convenienza.

Chi si aspettava algoritmi impazziti e prezzi folli ha mollato già il tiro. Se entro le ore 24 di questo 15 luglio Amazon ci facesse una sopresa folgorante?  In compenso però questa mezza festa del Prime Day va condivisa con il Customer Care di Amazon, in Italia sempre più efficiente. Ne è passata di acqua sotto i ponti ed oggi gli operatori sono davvero impeccabili.

Festeggiamo allora tutti gli operatori del Customer Care, da Vincenzo a Giuseppina, da Daniela a Michele – la maggior parte delle voci rispondono dalla Sardegna –  perchè ci ricordano che anche il successo di una macchina bionica, quasi invincibile alla Amazon, è fatto dalle risorse umane. Medaglia al valore a Laura P., operatrice modello nella gestione delle criticità. Oggi, nel Prime Day, restituiamo ad Amazon un pacco “con un fiore”. E’ per tutti loro.