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Sanremo 2015, il Volo “cantanti da pizzeria” e le penne con l’Alzheimer

Rosario PipoloI due giovanissimi tenori e il baritono che compongono il Volo, la formazione musicale vincitrice del 65° Festival di Sanremo, si sono guadagnati meritatamente il consenso popolare, destando però qualche perplessità nei corridoi della Sala Stampa dell’Ariston. Tra l’altro pare che Pietro Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble siano stati additati pure come “cantanti da pizzeria”.

Senza tener conto di chi non ha digerito il successo planetario dei tre mocciosetti del programma tv di Antonella Clerici e la conquista degli USA,  dobbiamo rassegnarci al fatto che in Italia abbiamo delle penne malate di Alzheimer. Si tratta delle medesime biro che, abusando del loro inchiostro, pensano ancora di vivere ai tempi in cui segnavano il bello e il cattivo tempo della discografia.

Per fortuna o per sfortuna oggi ci sono i social media, non soltanto territorio di clowneria e nefandezza ma anche di competenza, la stessa che ha l’orecchio lungo e riconosce il talento di Il Volo. Le penne malate di Alzheimer hanno esaurito l’inchiostro a supporto di mediocri pianisti contemporanei, facendoli passare come geni incompresi, e non ne hanno più a dispozione per riconoscere la bravura di questo trio?

Consapevoli da una parte che i Festival di Sanremo dei Modugno, dei Dallara, dei Latilla, dei Villa, dei Rascel, degli Endrigo, dei Tenco o dei Gaetano non torneranno mai più, dall’altra ci opponiamo a questi ciarlatani da corridoio perché Barone, Boschetto e Ginoble possono fare un miracolo con le loro romanze pop: far avvicinare i ventenni alla lirica, ricordando loro che la radice della musica è tutta lì.

La mia generazione fece il grande passo scoprendo Luciano Pavarotti, l’antesignano di quella fusione magistrale tra lirica e pop. E me ne resi conto il 30 luglio 1991 quando, all’uscita da una merenda all’Hard Rock Cafè di Londra, mi ritrovai il grande tenore che cantava sotto la pioggia ad Hyde Park. Ebbi la fortuna di ascoltare quel concerto gratuito che in parte avrebbe compromesso alcune mie scelte musicali future.

Il Volo sono l’unico sollievo di questo Sanremo avaro che dimenticheremo in fretta, forse il peggiore musicalmente di tutte le edizioni. Se proprio dobbiamo salvare una baby band, teniamo loro e buttiamo giù dalla torre i Dear Jack, flop del filone della tribù della De Filippi.
Pietro, Ignazio e Gianluca hanno talento ma devono sapere che l’umiltà è necessaria per crescere. La strada per guadarsi un posto nella storia della musica è ancora lunga, faticosa, tortuosa e il pericolo che il successo negli USA li abbia montati la testa è dietro l’angolo.

Le braccia spalancate di Mimmo Modugno sulle note di Volare fecero il giro del mondo. E questa Grande amore? Nonostante resti una romanza pop di serie B avrà il pregio di ricordare all’estero che l’Italia – ed in particolare Abruzzo e Sicilia, le regioni che li hanno partoriti – non è solo corruzione e volgarità ma è ancora culla di ragazzi entusiasti, capaci di assistere con la passione il faticoso cammino per le nuove generazioni, orfane della grande musica che fu.

Benvenuti nel Sanremo 2015 di Carlo Conti, karaoke dei “Migliori anni”

Rosario PipoloOgni anno ci portiamo avanti con una vena polemica che ci fa rimpiangere i Festival di Sanremo precedenti nonostante, da alcuni anni a questa parte, puntualmente non ricordiamo il titolo della canzone vincitrice dell’edizione precedente.

Questo Sanremo 2015 ha tutte la carte in regole per riproporre sul palco dell’Ariston il karaoke dei Migliori anni, la fortunata trasmissione di Carlo Conti che ricompone il Belpaese ammalato di nostalgia canaglia. Prima del siparietto buzzurro di Albano e Romina, ci pensa la famiglia più numerosa d’Italia a riproporre in prima serata la famiglia Mulino Bianco catto-democristiana.

Se non fosse per la delicata e vaporosa Io sono una finestra di Grazia Di Michele, che ci ha tolto di dosso l’odioso travestimento di Platinette per restituirci il sincero Mauro Coruzzi, staremmo ancora a cantare banalmente Felicità.
Quel fottuto “panino e bicchiere di vino” non appartengono più all’illusione del benessere economico del Pentapartito degli anni del riflusso ma ai litigi ridicoli di Albano e Romina, che giocano a fare la coppia appassita dell’Horror Picture Show sanremese, nella nuova vallettopoli delle Emma e Arisa, caricature degne del prossimo film di Quentin Tarantino.

E le canzoni? Non ci sono. Basta ascoltare la Chiara o l’Annalisa di turno per convincerci che siamo tornati alle canzonette che ammazzarono i rivoluzionari alla Luigi Tenco. Grignani ci aveva illusi che, con la sua Sogni infranti, saremmo tornati alla bella époque dei cantautori; i Dear Jack riciclano la lagna dei Modà; Lara Fabian sembra la Oxa del Belgio; Nesli ci fa rimpiangere amaramente Grazie dei Fiori (roba di sessant’anni e passa); Alex Britti e Malika Ayane si sono già sentiti; Nek pensa al look e non  alla canzone, tanto da sembrare venuto fuori dalla pellicola Il pianeta delle scimmie.

Non ci resta che piangere – per citare il saggio Troisi nel Festival incapace di ricordare “i due Pino” (Mango e Daniele) – a meno che le canzoni dei giovani in gara non ci stupiranno a tal punto da rinnegare tutto.
Preferisco tenermi stretti i lettori che mi seguono nel mio live tweet e, in particolare modo, la mia Melina S. che, con garbo e aria domestica, sa ricordarmi: nonostante tutto, il festival di Sanremo riesce a riportarci col cuore ai ricordi di famiglia.

La napoletanità di Pino Daniele ritrovata grazie a “Unici” di Giorgio Verdelli

Rosario PipoloQualche volta capita che il Servizio Pubblico televisivo ci sorprenda. Lo ha fatto con lo speciale che Unici di Raidue ha dedicato a Pino Daniele a un mese della scomparsa. Fuori dal perimetro della retorica, ci sono diversi spunti che ci spingono verso un’unica riflessione, oltre il commiato popolare: Pino Daniele è stato napoletano fino alla fine, nonostante le malelingue abbiano tentato di convincerci del contrario, puntualizzando su un mucchio di banalità.

Il rimbalzo delle polemiche da rotocalco tra gli eredi sulla possibilità di salvarlo lo lasciamo svanire nel falò dei social network. Noi invece ci teniamo la sagoma dell’artista, quella del musicista sul palco, anche perché noi addetti ai lavori conosciamo tanti retroscena che sfuggono al pubblico, compreso il gran bel caratterino del musicista partnenopeo.

Parto da una battuta che mi lasciò al termine della mia intervista alla Feltrinelli di Milano alcuni anni fa, per la quale ringrazio il social team di Unici per averla rilanciata su Twitter: “Guagliò, la memoria deve guardare avanti senza rimpianti”. A quello che disse Pino Daniele aggiungerei: questo vale soprattutto per chi decide di andare via da Napoli senza rimpianti, senza portarsi in valigia lo scheletro dell’emigrante raccontata da Massimo Troisi.

Nonostante Pino Daniele abbia cantato “‘o munno” con gli occhi della Napoli metropoli del Mediterraneo, la sua napoletanità è cresciuta nella fuga geografica che ne ha segnato crescita artistica. E paradossalmente le meravigliose note di Eric Clapton al “dear friend Pino” da una parte fungono da ninna nanna e dall’altra sottolineano ciò che Gad Lerner e tanti altri non sono stati all’altezza di capire.

Quando all’alba degli anni ’70 mia mamma si trasferì da Napoli per andare a vivere in periferia dopo il matrimonio, mio nonno ne fece una tragedia. Il suo risentimento è comprensibile ad un napoletano, perché chiunque ne varchi i confini è considerato in un certo senso un traditore. Ce lo siamo sentiti ripetere tutti noi che ce ne siamo andati.

Ho imparato che la napoletanità è prima di tutto uno stadio interiore e non si misura facendoti seppellire a Napoli ma se, mangiando un frittella nel cuore di Sarajevo, ritrovi il sapore di quelle che ti cucinava nonna Lucia. La napoletanità non scema se sei andato via da Napoli per esplorare nuovi mondi, anzi aumenta quando sei a Tirana, in Albania, e trovi nella generosità della gente locale quella dei partenopei.
La napoletanità non si sbiadisce se non canti più nella lingua che ti partorì, ma riappare tutte le volte che alla tua donna ti scappa, prima e dopo aver fatto l’amore, Te voglio bene assaje invece di I love you.

La generosità di Giorgio Verdelli e del suo programma Unici ha restituito a Pino Daniele e a tutti noi quella napoletanità che nessuno mai potrà scipparci perché, come ha ribadito Lina Sastri, “la vera bellezza di Napoli è la sospensione come la poesia musicale di Pino Daniele”. 

Virna Lisi, stile ed eleganza anche in “Sapore di Mare”

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L’attrice vera può tutto. Virna Pieralisi ha stile ed eleganza anche in una commedia degli anni del riflusso che ha girato sulla giostra cinematografica della mia generazione.

Fino al 1982 Sapore di mare era il titolo della canzone su cui mia mamma aveva ballato una miriade di lenti a quelle festicciole fatte in casa. Con il film dei fratelli Vanzina divenne il ponte dei sogni tra coloro che cazzeggiavano in spiaggia con la musica del primo Vasco e coloro che avevano preso la tintarella sulle spiagge degli anni ’60.

L’attrice vera può tutto. Può accendere una sigaretta, lanciare lo sguardo nel vuoto e sentirsi la moglie trascurata in vacanza del milanese cafone e arricchito che la raggiunge nel weekend a Forte dei Marmi. Virna Pieralisi può concedersi il lusso di vestire l’abito dell’Adriana Balestra dei fratelli Vanzina, senza perdere mai stile ed eleganza.

L’attrice vera può tutto. Può ritrovarsi all’alba degli anni ’80 nello stesso film a ballare un lento con il figlio giovane che chiede: “Mamma, ma com’era l’epoca tua?”. E Virna Pieralisi, alias Adriana Balestra, fa un leggero sospiro e risponde con stile ed eleganza: “Mi pare di ricordare che ci batteva il cuore”.

Alla mia generazione, quella che vide trionfare la Nazionale ai Mondiali di Spagna dell’82, Virna Pieralisi “ha fatto battere il cuore” proprio su quella battuta, senza sapere che nello sguardo della signora Balestra dei Vanzina c’era quello di tante altre donne vissute oltre la macchina da presa del cinema dei Mattioli, dei Losey, degli Steno, dei Bolognini, degli Zampa, dei Lizzani, dei Pietrangeli.

Invecchiando, la sua bellezza rugosa era ancora più raggiante così come l’intelligenza, lo stile, l’eleganza. Le diedero un nome d’arte e poco importa: Virna Lisi.

I Dieci Comandamenti di Benigni e il catechismo del giullare di Dio

Rosario PipoloQuarant’anni fa con la tv di Stato sul groppone della Balena Bianca, sarebbe stato impensabile vedere “il piccolo diavolo” – lo stesso che prese in braccio Berlinguer – sul primo canale nazionale.
Nel tempo in cui il Servizio Pubblico si è omologato agli standard della volgarità televisiva, I Dieci Comandamenti di Roberto Benigni sono un bel dono di riflessione per correre ai ripari tra le braccia di Dio, nei giorni che vanno spediti verso il Natale: “In Italia la politica non c’è, buttiamoci su qualcosa di più concreto, Dio”.

Certo, questo “dono natalizio” ci è costato 4 milioni di euro – sono in tanti a lementarsi tra le corsie del supermercato dei social network – cifra comunque comprensibile se pensiamo agli sprechi passati e inutili del palinsesto televisivo nazionale o di quel canone versato per vedere stellette riciclate al Festival di Sanremo. Roberto Benigni che parla della Bibbia? “La Bibbia è un bestseller perché l’autore è anche l’Autore dei suoi lettori”.

Prima di buttare lo sguarso sul libro sacro, l’incipt di attualità è immancabile: “Stasera abbiamo avuto il permesso di tutti, della Rai, della questura e della banda della Magliana”. Che smacco per i cattolici “integralisti” trovarsi in prima serata “un giullare comunista” che tiene lezioni di catechismo, aggiudicandosi il titolo di “giullare di Dio”, perché la grandezza del Padreterno non si abbassa ai luoghi comuni o alle meschinità ideologiche.
La grande bellezza di Dio, al di là delle religioni, si propaga attraverso la voce del toscanaccio dal cuore aperto: “Per parlare di Dio bisogna tornare bambini. Come diceva la mi’ mamma più si cresce, più non si capisce niente”.

La televisione dei Dieci Comandamenti di Roberto Benigni non è paragonabile alla densità e alle suggestioni dell’anima nel cinema di Il Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Resta comunque un momento emozionante di televisione che bacchetta la nostra rincorsa frenetica verso un Natale svuotato del suo significato, dimenticando che “Dio ci ha ha allargato la testa, mettendoci dentro l’infinito”.
E la bestemmia umana è “aver combattuto in tremila e passa anni di storia più guerre in nome di Dio che per qualsiasi altra cosa”, calpestando e oltraggiando un comandamento, chiave di lettura dell’evoluzione dell’umanità: “Io sono il Signore Dio tuo. Il patto d’amore è tutto in quel tuo”.

Roberto Benigni ci ha fatto venire una voglia matta di stare zitti, perché “il senso di Tutto è nel silenzio e non nel frastuono”, e di tornare a leggere quella Bibbia, scrigno della “voglia dell’Onnipotente di trasmettere amore a più generazioni”. Scemate le polemiche, i casi sono due per “il piccolo diavolo”: o lo spediscono al rogo o lo fanno cardinale. Non escluderei la seconda ipotesi, perché al fianco di un Papa Francesco ce lo vedrei bene un giullare alla Benigni.

Le Voci dell’Anima di Jennifer e la riscoperta di Ruccello con Antonello De Rosa

Rosario PipoloIl Festival Le Voci dell’Anima continua a regalare suggestioni con lo spettacolo “Jennifer” di Antonello De Rosa, prodotto da Scena Teatro. L’opera d’esordio di Annibale Ruccello, fiore all’occhiello della nuova drammaturgia napoletana, finisce tra le mani dell’attore e regista salernitano. Con De Rosa questa ha tutta l’aria di una rivolta drammaturgica, ancora più marcata contro il salotto borghese del teatro di Eduardo De Filippo.

In principio la tana del travestito Jennifer era uno dei tanti bassi napoletani. In questa meravigliosa trasposizione, in cui trasuda attualità e antropologia, la regia di Antonello De Rosa la trasforma in un bunker, in cui i personaggi sono cullati e denudati come se fossero prigionieri in un ventre materno. Vittime e carnefici di soprusi sociali, i “travestiti” – liberati dal cliché di “‘o femminiello partenopeo” – consumano la tragedia, appesa al filo del telefono, sussurrando la stessa solitudine di La voce umana di Cocteau. Le voci che si alternano dall’altra parte della cornetta telefonica non sono altro che “i fantasmi” eduardiani, condannati ad essere rigurgito delle voci di dentro, quelle che mormorano nelle nostre maledette coscienze. Qui non si tratta di capire se siamo di fronte a uomini, donne o a donne imprigionate nel corpo di uomini. Qui occorre ammettere che siamo di fronte all’umanità, nell’asessualità che concima rabbia e dolore. I costumi dai colori accesi di Liana Mazza ci consegnano l’illusione di scivolare in un ballo in maschera.

Togliersi la maschera non spetta né ad Anna, vissuta con pathos dalla brava Francesca Pica, né a Jennifer, rinata nella compostezza attoriale di Antonio De Rosa e distante dalla trappola della macchietta. Spetta al pubblico il sacrosanto diritto di riconoscere la solitudine del nostro tempo. Lo spettacolo di De Rosa è “il cantico dei soli” nell’amara riflessione del divenire: la cornetta del telefono degli anni ’80 è la sorella gemella della lametta tagliente tenuta in mano da Jennifer del tempo della globalizzazione, rappresentazione del controverso universo dei social network e delle chat. Non ci guardiamo più negli occhi, abbassiamo lo sguardo su un touchscreen e diventiamo incapaci di amare.
Il controscena della donna in cornice – splendida presenza scenica di Simona Fredella – non fa soltanto da specchio all’universo femminile, ma da contrappunto a questo Magnificat della solitudine di De Rosa come se fosse la piccola ballerina di un carillon, che vorremmo non smettesse mai di danzare.

“Riso amaro” e riflessione verso il tragico finale, scialuppa di salvataggio per urlare che siamo soli, troppo soli. Lunghi applausi anche Milano, prima della tappa di Rimini di ottobre. Assistente alla regia è Gina Ferri e le ricerche musicali sono di Nicola Ferrentino.

Ricomincio da Massimo Troisi vent’anni dopo

Fonte: Repubblica.it

Rosario PipoloDi quel 4 giugno del 1994 ho un doppio ricordo: da una parte la telefonata ricevuta a casa dalla redazione, in cui mi comunicavano che sarei stato io a scrivere un pezzo sulla scomparsa prematura di Massimo Troisi. Dall’altra il concerto di Pino Daniele, Eros Ramazzotti e Lorenzo Jovanotti allo stadio San Paolo di Napoli aperto così: “Sono passato a casa di Massimo ma mi hanno detto che lui era già qui”. Il lungo applauso e la commozione sulle note di Quando.

Detesto gli anniversari che il più delle volte concimano nostalgie canaglie come le ricorrenze obbligate a cui è quasi irrispettoso sottrarsi. La maschera di Massimo Troisi, rivissuta all’ombra del Vesuvio sotto tante sembianze e a volte sottomessa alla volgorità del kitsch, resta quella dell’ultimo Pulcinella dell’età contemporanea. Me lo ricordò in un’intervista Ettore Scola, che lo aveva diretto in Il viaggio di Capitan Fracassa. Il cinema ci rende ombre immortali, il palcoscenico ci consegna nelle mani degli dei che sanno come farsi beffa di noi comuni mortali, il cabaret ci libera dagli schiamazzi dei populisti.

Troisi in effetti non ha bisogno di commemorazioni, perché non se n’è mai andato. Quando chiacchierai con Lello Arena ed Enzo De Caro, in occasione della pubblicazione di Enaudi della Smorfia nella collana Stile Libero, notai che i due compagni di viaggio di Massimo ne parlavano sempre al presente. E persino all’anteprima del film Il Postino al Festival del Cinema di Venezia, intravidi negli occhi commossi di colleghi ed addetti ai lavori in Sala Grande un Troisi in essere.

Massimo Troisi resta ispirazione necessaria per lasciarsi alle spalle la Napoli chiassosa e volgare, depressa e minacciata dagli stereotipi. Persino quando lo incrociamo disegnato sul cartone di una pizza da asporto, Troisi sa ricordarci la sua napoletanità sottovoce che, attraverso uno scalpitio garbato, sa ancora come illuminarci scrollandosi di dosso l’odioso vittimismo. Meriterebbe di essere studiato a scuola nelle ore di filosofia. Perciò noi figli di quella generazione in esilio da Napoli dalla fine degli anni settanta, per rincorrere i sogni e le illusioni del Nord industrializzato, ci chiamiamo Ugo e non Massimiliano. Abbiamo imparato la lezione.

Alleluja, Suor Cristina! Habemus la Sister Act italiana di The Voice of Italy

Rosario PipoloDurante l’intervista di qualche anno fa a Milano, a proposito della popolarità di Sister Act Whoopi Goldberg fece un inciso: “Quella suora è un personaggio ancora amato perché ha fatto venir fuori la parte migliore di sé, fregandosene dei tabù”. E così sia. Guardando la popolarità di suor Cristina, la star canterina di The Voice of Italy che sta facendo su YouTube il giro del mondo, vien da dire che quella di Whoopi sembra oggi una profezia.

La monaca canterina italiana, dopo aver mandato a far benedire il cliché della suorina riservata e chiusa chissà in quale convento, se ne sbatte dei tabù ed esce allo scoperto. Canta, punto e basta. E’ semplicemente una donzella che, dopo essere entrata a far parte dell’ordine delle Orsoline nel 2008, continua a coltivare la sua passione: il canto. Dopo un anno di pontificato di Papa Francesco, Raidue si gioca l’asso nella manica e fa in modo che The Voice of Italy dia una bella sgomitata ad X Factor, l’altro talent concorrente.

Questa volta “non è l’abito a far la monaca” ma voce, stile e la curiosità di vedere “una pinguina” ancheggiare su un palco. Tacciano i bigotti e i conservatori, nascosti sotto la cupola di San Pietro. Si erano convinti che “la svitata in abito da suora”, rinchiusa nel popolare film di Emile Ardolino, fosse una bizzarra follia del cinema. Invece ecco spuntare quello che potrebbe essere il personaggio televisivo dell’anno, o meglio l’ugola inviata dal Padreterno per abbassare la temperatura della diffidenza nei confronti delle pinguine.

Suor Cristina riscatta la sua categoria e sarebbe un vero peccato se restasse una macchietta che palleggia da una bacheca di Facebook all’altra. Noi vorremmo invece che questa Sister Act italiana ci ricordasse le tante “suore di frontiera” che, negli angoli sperduti del mondo,  cantano con la voce dell’operosità e mettono a rischio la propria vita a servizio degli ultimi, degli emarginati, dei dimenticati. Non è poi così banale rammentarlo.

Alleluja, suor Cristina!

Musica da talent: Gianna Chillà e Daria Biancardi, voci regali di The Voice of Italy

Rosario PipoloIn Italia non abbiamo la cultura dello scouting musicale nei locali. Gli Stati Uniti ce lo hanno insegnato ma noi facciamo orecchie da mercanti. Qualche volta dal trash dei talent show esce qualcosa di buono. Dalla prima puntata di The Voice of Italy, il programma televisivo di Raidue, sono sbucate fuori due vocalità incredibili: Gianna Chillà e Daria Biancardi.

La prima è una Janis Joplin indiavolata tutta italiana; la seconda ha una vocalità con schizzi black, molto intensa. Sulla pagina facebook di Gianna, intitolata “Janis is Alive”, è chiaro che il suo percorso omaggia l’angelo blues caduto in volo della storia del rock. La Chillà è “la regina scalza” di questo primo round, anzi potrebbe esserlo per tutte le puntate The Voice of Italy. Spacca tutto, ha un’energia sorprendente, padrona della sua voce la gestisce con mille acrobazie.

Daria Biancardi, nonostante sia stata svezzata nella sua Palermo con panelle e arancini, assomiglia a una di quelle singer  incrociate nel Village della Grande Mela. Daria è newyorkese nell’anima vocale, ha una sua personalità, la black music le scivola bene addosso ma può allenarsi ed arrampicarsi su altre cime.

Due gran belle voci ce le portiamo a casa. Adesso bisogna trovar loro dei gran bei pezzi e fare in modo che, finita la primavera di The Voice of Italy, Gianna e Daria non tornino ad essere due voci qualunque, disperse nel supermecato musicale italiano dell’omologazione.

Tutto il resto è noia: via in fretta da Sanremo 2014 senza né vinti né vincitori

Rosario PipoloAbbiamo smaltito già il colpo basso del televoto del Festival di Sanremo. Neanche più ci ricordiamo chi è arrivato in cima all’Ariston. Non ricordiamo né vinti né vincitori di questo Sanremo 2014, riflesso del Belpaese in una pozzanghera che vorrebbe sotterrare “contro vento” la musica sotto la melma.

Dimenticheremo in fretta le canzoni dei Big – che poi BIG non sono stati – nonostante Spotify e Deezer si facciamo la guerra ai tempi della “musica liquefatta” e isolino la singola canzone dalle compilation sanremesi a cui eravamo abituati ai tempi di cd e vinile.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Sanremo che si è ostinato a cercare la bellezza tra la puzza dei vagoni della cronaca, della storia televisiva del Servizio Pubblico, negli sketch noiosi che scimmiottavano i bei tempi del varietà.

“Grazie dei fior” che non abbiamo ricevuto perché anche le rose e le margherite sanremesi sono state epurate dal Festival così come le canzoni che non hanno avuto tempi e spazi giusti. Siamo un paese governato dal giovanilismo di cartone politico e poi all’Ariston i giovani vedono un microfono dopo mezzanotte. Per fortuna le Nuove Proposte hanno energia e spaccano lo schermo.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Festival di Sanremo. A far rimbalzare questa volontaria smemoratezza ci sono un inatteso flashmob musicale, la triste notizia della scomparsa del “Grande Joe” del Banco o la poetica ninna nanna di un songwriter americano convertito all’Islam. Salviamo almeno queste tre polaroid.

Dimenticheremo in fretta il rapper, che ha rivestito “la terra dei fuochi” di “terra del sole”, se nel giro di qualche anno il suo pubblico lo trasformerà da ranocchio nel bel principe dei “neomelodici”.
Dimenticheremo in fretta il buonismo o l’acidità social che gironzola sui tacchi a spillo nei giorni festivalieri. Tanti sono convinti che per giudicare una canzone basta essere ciò che non siamo.

Non ci resta che piangere? No, perché Sanremo è Sanremo. E se tutto il resto è noia? Ci siamo fregati con le nostre stesse mani, perché non c’è Franco Califano a cantarci il refrain.