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Il videomessaggio di Berlusconi come su un vecchio nastro VHS

Rosario PipoloNella landa dei social network e della viralità il videomessaggio di Silvio Berlusconi sembra venuto fuori da un vecchio nastro in VHS, sepolto in chissà quale soffitta impolverata della Prima Repubblica. Assomiglia ad un fuori onda montato sulle ceneri del primo video che vent’anni fa alzò il sipario sul berlusconismo in Italia. Tra gli sfottò in formato social, le analisi degli intellettuali, gli editoriali dei giornalisti e le opinioni degli avversari politici, il Cavaliere e i suoi cortigiani, che non si sono sentiti mai a proprio agio su Internet, hanno puntato ancora sulla scatola magica televisiva, quella che fece la fortuna di Forza Italia.

Tanto rumore per nulla, urlerebbe in sordina la vecchia canaglia di Shakespeare, per una sequenza di immagini che inciampano su contenuti prevedibili – il solito attacco ai giudici – scivolando sulla buccia di banana nel finale nazionalista. Un bollito di rancido populismo, con quella mano sul petto dedicata ai fedelissimi nostalgici che hanno associato erroneamente in questi lunghi anni il liberalismo al berlusconismo.

Quando nel 1990, grazie alla legge Mammì fatta su misura per il Cavaliere, i Socialisti craxiani si preparavano ad occupare il suolo dei nascenti notiziari della tv privata, chissà se avevano imparato a pappardella la predizione di Nostradamus: il monarca assoluto della Seconda Repubblica sarebbe stato un ometto, deus ex machina dell’invasione delle antenne nel Belpaese del Pentapartito che giocava a nascondino dietro le tette e i culi di “Drive in…”.

Nostradamus non si era lasciato scappare il finale della profezia. L’Italia, traghettata verso il berlusconismo, sarebbe stata abitata da una classe politica incapace di sconfiggere l’avversario alle urne elettorali e con proposte di legge in grado di rendere questo Paese vivibile e civile. E tra coloro che oggi sezionano il videomessaggio di Berlusconi come un cadavere ci sono anche i parolai di quella Sinistra pantofolaia a cui il berlusconismo ha fatto comodo su diversi fronti.

In Italia la fine di Tony Soprano, nel volto di James Gandolfini che schiaffeggiò le mafie con genialità

Rosario PipoloQuella vecchia canaglia di Tony Soprano, protagonista della popolare serie tv, per più di un decennio ha imposto il ritorno del malavitoso sul podio del piccolo schermo. Quando si parla di un malavitoso, l’Italia non ne esce mai pulita perché l’associazione è inevitabile. Sono passati quarant’anni dall’uscita del film Il Padrino e prendiamo ancora a sassate Francis Ford Coppola: il Vito Corleone, uscito dalle pagine dell’omonimo bestseller di Mario Puzo, ha contribuito a gonfiare l’immaginario di un’Italia sbruffona e criminale tra “pizza e mandolino”. La parlata e le movenze di Vito Corleone sono entrate in una sorta di codice mitologico, così come quelle dello Scarface di De Palma, scimmiottato con volgarità da più generazioni. Persino quella dei social network omaggia in giro “il Padrino” con aforismi, iconcine, foto profilo e roba simile.

Tornando a Tony, star di I Soprano, mi vien da dire che per lui nutro una gran simpatia. Gli sceneggiatori hanno abbattuto la corazza del criminale tutto d’un pezzo, tirando fuori i conflitti umani che lo consumavano. Non guardavamo i Soprano per spiare il mafioso in azione, ma per indagare nell’animo dell’ “uomo criminale” tra paure, crisi depressive, ansie quotidiane da padre di famiglia e persino dolcezze. Le parti imperdibili del telefilm erano proprio le confessioni di Tony alla fedele psicologa, che ci spiazzavano non perchè fossimo in preda allo humor yiddish e surreale alla Woody Allen, ma perché ci calavano nella quotidianità che avrebbe potuto bussare alla porta di ognuno di noi.

Perché parlare di Tony Soprano oggi? Per fare la linguaccia ad un’Italia zeppa di criminali, travestiti da “galantuomini”, che si aggirano in piena libertà? No. Per fare la linguaccia all’Italia che per un gioco beffardo sarà ricordata, oltre che per essere stata la madre terra di “Il Padrino”,anche per essere quella in cui si è spento Tony Soprano.
La morte improvvisa per infarto di James Gandolfini, impareggiabile volto di Tony Soprano, non segna solo l’uscita di scena di un bravissimo attore. Ci sono degli interpreti che al di là dello schermo e della macchina da presa hanno saputo schiaffeggiare le mafie di tutto il mondo. James Gandolfini lo ha fatto con intelligenza e genialità.

Bella ciao: L’elogio funebre a Franca Rame che oggi non leggerò allo Strehler

Rosario PipoloUna mattina mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, una mattina mi sono svegliato ed ho trovato i violentatori. Pensavo tu fossi a teatro, immersa tra copioni e maschere, nella lunga notte che non vede mai il giorno arrivar. Invece eri lì sotto il branco, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, ma io quella mattina non mi ero svegliato per venirti a salvar.

O partigiana del teatro portami via che mi sento morir quando picchiano una donna, quando la schiaffeggiano, quando la sottomettono, quando il maschilismo arrapato ne mercifica il corpo, quando non ne riconoscono l’intelligenza, quando una carezza dell’alba diventa il pugno di ferro della sera.

E se io muoio da partigiano del teatro, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, tu nella Palazzina Liberty mi devi seppellir: tra quelle mura in cui l’urlo col megafono ti ha trasformata da dea della bellezza a dea dei diritti civili, portandoti tra le piazze dietro gli striscioni, perché solo gli imbecilli pensano che il palcoscenico sia fatto di sterili clown.

Mi seppellirai lassù dove resterà acceso l’ultimo riflettore, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao e a tutte le genti che passeranno gli racconterai che sono figlio legittimo di una casalinga appassionata che mi svezzò con il teatro e mi raccontò di te fin da quando ero in fasce.

È questo il fiore della partigiana del teatro, bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, che con Enzo (Jannacci) e Giorgio (Gaber) ha già scatenato in uno spettacolo lassù la gioia di tutti gli angeli, alla faccia del clero benpensante convinto che finisse diritta all’inferno. E’ questo il fiore della partigiana della libertà, che adesso dorme tra le braccia di Dio.

Grazie, Franca.

A ripetizione di teatro da Regina Bianchi, l’ultima grande Filumena Marturano

Rosario PipoloNel 1988 mi presentai in camerino a fine spettacolo. Avevo un piccolo registratore a cassette. Regina Bianchi mi rimproverò: “Guagliò, vai a giocare con quelli dell’età tua. Che ce fai a sentì ‘na vecchia comme me?”. L’attrice era della stessa generazione di mia nonna Lucia. Le dissi che non mi interessava quello che facevano i miei coetanei. A quindici anni volevo capire da lei di che materia fosse fatto il teatro.
Regina cominciò a struccarsi. Il mio sguardo incrociava il suo attraverso lo specchio di un teatro alla periferia di Napoli, mentre mi accennava all’incontro con il palcoscenico e all’esperienza con Eduardo. Alla fine di questa breve lezione, precisò: “Guagliò, il teatro è sacrificio costante e quotidiano. E’ come la vita. Finché non lo avvertirai sulla tua pelle, non capirai mai questo mestiere”.

Ogni stagione teatrale capitava che la incontrassi, puntualmente alla fine dello spettacolo. Mi ricordo una volta la sua assistente: “Signò, c’è quel ragazzino con gli occhiali. Ve lo ricordate?”. E lei, dopo avermi riconosciuto, ripeteva: “E tu ccà nata vota staje”. Regina Bianchi aveva capito che il mio “toc toc” alla porta del camerino assomigliava alla voglia di prendere ripetizioni di teatro. Si trasformò in un piccolo rito e una volta aggiunse: “Mi sento una nonna che racconta il teatro al nipote incuriosito”.

Per diversi anni la persi di vista. La incrociai a metà degli anni Novanta. Lei non lo riconobbe quel giovane giornalista, che fu annunciato per una breve intervista. Le chiesi della severità di Eduardo De Filippo e dell’aneddoto che circolava tra noi addetti ai lavori: pare che Eduardo l’avesse buttata fuori dalla compagnia perché, dopo una rappresentazione di Filumena Marturano, chiamata dal pubblico che la acclamava, avesse fatto un passo in avanti per prendersi gli applausi. Secondo il rigido protocollo, non avrebbe dovuto commettere questa gaffe perché sarebbe toccato al capocomico, Eduardo in questo caso, prenderla per mano e condurla verso il pubblico.

Regina Bianchi fu molto diplomatica e replicò: “Crede pure agli aneddoti?”. Cambiò discorso. Io per smorzare i toni, le rivelai chi fossi. Sorrise e si ricordò. Anzi, mi chiese anche di mia nonna Lucia,  perché una volta aveva apprezzato un suo maglione all’uncinetto che indossavo. Quando avvertì il mio dolore – l’avevo persa da pochi mesi – mi diede una lunga carezza. Mi guardò con lo stesso sguardo della sua Filumena Marturano, come a voler dire che “io la soddisfazione di piangere l’avevo potuta avere perché il bene lo avevo conosciuto”.
L’accompagnai all’auto, tenendola sottobraccio. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Scomparve nel buio l’attrice Regina Bianchi, che con il suo stile recitativo sobrio e interiore aveva dato voce all’anima di Napoli,  e riapparve la sagoma di donna Regina D’Antigny. Adesso il sipario è calato, per sempre. Per me no, che ho avuto la fortuna di prendere qualche ripetizione di teatro da lei.

  E’ morta Regina Bianchi, grandissima del teatro napoletano.

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

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Elezioni 2013: The winner is Beppe Grillo, il comico “censurato” da Socialisti e Democristiani

Rosario PipoloGli italiani hanno memoria corta. Me lo ricordo quel sabato sera del 1986 davanti al nostro televisore a colori Voxon ad otto canali. Erano i tempi del gran varietà, erano i tempi di Fantastico. Beppe Grillo fece lo sgarro e Bettino Craxi non gliela fece passare liscia dopo l’insidiosa battutaccia. Da quando i Socialisti erano passati al timone del Pentapartito avevano ereditato la lezione dei Democristiani: meglio la “censura” da leoni che passare per una ciurma di coglioni.

Il comico genovese fu sbattuto fuori dalla RAI – ai tempi i trilli telefonici di Montecitorio e Palazzo Madama facevano tremare viale Mazzini – e il cane bastonato cominciò ad usare il teatro per abbaiare contro la Prima Repubblica. A quasi trent’anni da quel sabato sera, le vecchie glorie del Pentapartito sono roba da libri di storia, il gran varietà televisivo è morto, le zozzerie di Tangentopoli continuano a tentarci, soffia il vento del populismo, ma Beppe Grillo si è preso il tempo necessario per trasformare la rivolta di un comico in una rivoluzione civile: è lui il vero vincitore di queste Politiche del 2013.

Gli istant poll hanno preso una cantonata a parlare di “Terza Repubblica” e il sentiment dei social network per certi versi è stato come la profezia dei Maya. Il “centrismo” tecnico di Mario Monti ha fatto un buco nell’acqua, il “vendolismo” rincasa in Puglia, Silvio Berlusconi è resuscitato e la partita alla Camera, se non fosse per “il contentino da maggioranza”, sarebbe finita in un pareggio netto con Pierluigi Bersani.
Il Senato è completamente paralizzato e la voglia di rottamazione del guascon fiorentino Matteo Renzi (Su Twitter circola la preghiera “Matteo, torna e salvaci tu!”) ha portato iella a qualche “santino” del Paese per vecchi che ci ritroviamo ad essere. Tra i grandi esclusi ci sono Di Pietro, Fini, Bonino e Storace, mentre Casini è salvo per un pelo.

In tutto questo caos, c’è una sola certezza. Il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo è il primo partito in Italia ed ha i numeri necessari per tirare “scappellotti” a destra e sinistra. Gli umori di piazza Affari sono così volubili che mi sembra di essere tornati ai tempi dell’autogestione a scuola. Oggi è così, siamo un paese autogestito, abbiamo mandato a casa i professori, abbiamo le aule tutte per noi, con la verve studentesca di poter mettere nel registro i voti che vogliamo. Tuttavia, l’utopia dell’autogestione scolastica rischia sempre di consumarsi in una bevuta di vino in compagnia o in una partitella a carte. Può succedere anche ad un governo traballante dalle larghe intese, non sempre destinato a fare con coerenza gli interessi degli elettori. Persisterà il tirare a campare del vecchio Belpaese? Oggi è così, domani si vedrà.

  Italy tumbles into ‘chaotic uncertainty

Vieni-via-con-Sanremo-2013: Il peggiore Marco Mengoni vince il festival televisivo di Fazio

Rosario PipoloPoteva tornare ad essere il festival della canzone italiana, invece si è riconfermato il “festival della canzone in televisione sotto il ricatto del televoto”. Marco Mengoni ha vinto il 63° Festival di Sanremo. Niente giacobinismo musicale come avvenne all’Ariston negli anni Settanta, ma riverberi del baudismo televisivo che imposero Sanremo ad evento mediatico, allungato a cinque serate, oggi a metà strada tra Che tempo che fa e Vieniviaconme.

Maurizio Crozza, che non ha preso lezioni di satira politica dal compianto Oreste Lionello, non ha la stoffa di Roberto Benigni, giullare che non si clona mai, e scambia il palco dell’Ariston per lo sgabuzzino di Ballarò. A compensarlo c’è Claudio Bisio con la sua classe, quella che appartiene ai comici veri, coloro che nascono dal legno del palcoscenico di un teatro. Tra i due litiganti gode la Littizzetto che, con il monologo a favore delle “donne maltrattate”, ci restituisce da reginetta un angolo di televisione intelligente. Il pallottoliere dell’auditel resta l’unica misurazione di autocompiacimento, mentre bisognerebbe interrogarsi su quanto una canzone durerà nel tempo, senza l’assillo dell’essere “radiofonica” o no. La doppia canzone è un sussidio da prima serata, niente a che fare con gli anni d’oro del Festival, quando più brani cantati dalla stessa voce sgomitavano fino all’ultima nota e l’ispirazione del televoto era brutalità da incubo di fantascienza.

La generazione social si precipita su Twitter e Facebook a movimentare la telecronaca di un evento che deve un merito al pifferaio progressista Fabio Fazio: sbattere fuori dalla porta le vecchie glorie, che oramai appartengono al vezzo retrò della nostalgia canaglia. Purtroppo sul palco c’è Albano o Raphael Gualazzi, Anna Oxa o Simona Molinari, si inciampa nel solito ed imperdonabile errore: la gioia e l’orgoglio di vedere il proprio beniamino all’Ariston distoglie l’attenzione dal valore di ogni singola canzone, indipendentemente dall’interprete.

Il talent vince l’ennesima scommessa perché il pezzo dai canoni sanremesi è “Il futuro che sarà” di Chiara, gran bella voce, con uno stile musicale che rievoca quello della dimenticata Lena Biolcati. L’olimpo è per pochi, con impasti musicali di matrice diversa: “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri, “Vorrei” di Marta sui Tubi, “Sai” di Raphael Gualazzi, “Scintille” di Annalisa, “Sotto casa” di Max Gazzè e “Mamma non lo sa” degli Almamegretta. La suite strumentale con appigli e citazioni zappiane valorizzata in corner è “La canzone mononota” di Elio e le storie tese e la rivelazione sanremese si chiama Maria Nazionale che, lasciando a casa il cliché dei neomelidici all’ombra del Vesuvio, sprigiona dalla gola lapilli di fado portoghese.
Infine, i Giovani, esiliati a ridosso della mezzanotte, ci hanno fatto sbadigliare (avrei tenuto la Porcheddu al posto del vincitore Antonio Maggio) o stizzire come lo sbuffo ruffiano della “la(sa)gna” di Rubino “Amami uomo”.

Dimenticheremo tutto in fretta e furia e, nel giro di pochi mesi ,queste canzoni annegheranno nel marasma del jukebox digitale. “Perché Sanremo è Sanremo”, il gingle inventato da Caruso e Bardotti, è finito tra le cianfrusaglie messe in soffitta, a parte la soddisfazione di aver visto alcune facce che mai avremmo immaginato all’Ariston.

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Addio a Mariangela Melato. In un camerino mi diede una gran bella lezione…

Mariangela Melato

Rosario PipoloLa prima volta che la incontrai in camerino, tremavo come una foglia. Accadde al teatro Diana di Napoli. E non perché fossi un giovane alle prese con le prime interviste, ma perché Mariangela Melato a teatro mi confermava sempre la stessa impressione: in quel corpo trovavo l’eleganza di un cigno che avvolgeva la sensibilità, la semplicità, l’intelligenza, l’ironia di una donna autentica ed indipendente.

Il camerino era illuminato. Mi mise ad agio. Chiacchierammo. Non parlammo di cinema, solo di teatro. Teatro, tanto teatro. L’audiocassetta terminò e il registratore smise di girare. Stavo per cambiare nastro. Lei mi fermò con la coda dell’occhio e disse: “Continuiamo noi due. Questi aggeggi danno un tono troppo meccanico agli incontri.” La Melato diede una gran bella lezione ad uno sbarbatello come me. Trasformare un’intervista in un incontro arricchiva l’intervistato, offrendogli il grande privilegio di intravedere l’altra prospettiva di un attore.

Fino a quel momento Mariangela Melato era stata per me la sottoproletaria Fiore in Mimì Metallurgico di cui mi ero infatuato, attraverso un piccolo televisore in bianco e nero in cucina, attaccato alla gonnella di mia madre. Dopo quell’intervista – pardon, incontro – Mariangela Melato si rivelò l’unica donna del palcoscenico italiano a vestire la nudità delle generazioni degli Anni di Piombo e del Riflusso in Italia. I suoi personaggi memorabili, al cinema, in televisione o a teatro, ci hanno aiutato a difenderci dalla mediocrità della quotidianità.

Mariangela Melato se n’è andata proprio in un momento storico in cui la mediocrità è all’ordine del giorno. Soprattutto quella più insidiosa, con cui a volte ci troviamo gomito a gomito nella routine, quella che trapela dalle persone mediocri, di cui dobbiamo imparare a disfarci nella vita privata e lavorativa.
E sono proprio le donne anti-dive alla Melato a restituire al teatro l’inossidabile funzione di depuratore dell’intelletto, del pensiero, dell’anima. Joan Baez disse: “Non si può scegliere il modo di morire e nemmeno il giorno. Si può decidere soltanto come vivere”. Mariangela Melato ha vissuto nel teatro e per il teatro.

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Addio a J.R. di “Dallas”: Larry Hagman è tornato ad essere Larry!

Tocca a tutti gli attori prima o poi sfilarsi di dosso il soprabito dei loro personaggi. Soprattutto a coloro che hanno giocato a fare “i cattivi” attraverso l’unico filtro dell’eterna giovinezza: la finzione. E’ morto Larry Hagman, che mezzo mondo ricorda come J.R. in “Dallas”, il serial tv che meglio di tutti ha espresso il rampantismo americano fatto di allucinogeni petroliferi.

Larry Hagman è stato un talento sprecato, a volte relegato in ruoli marginali, spesso segregato dalla serialità televisiva in angoli che non gli hanno permesso di esprimere al massimo le sue doti recitative.

E’ vero che il ghigno di J.R. Ewing in “Dallas” è diventato famoso quanto quello di Joker in “Batman”, ma anche vero che anche in piccoli camei cinematografici Hagman ha dato sempre il meglio di sé. E per me, nella grande abbuffata cinematografica a tutte le ore del giorno e della notte, è stato un piacere incrociarlo dietro la macchina da presa di Joshua Logan (Una nave tutta matta, 1964), Otto Preminger (Prima vittoria, 1965), Sidney Lumet (Il gruppo e le sue passioni, 1966) e John Sturges (La notte delle aquile, 1976).

Tornando alla televisione, il destino scelto dagli dei per pochi bravi attori come Larry Hagman non è solo quello della personalizzazione della malvagità. In “Una strega per amore”, che andò avanti sulle tv americane senza interruzioni dal ’65 al ’70, Hagman finì al fianco di un genio imprigionato in una lampada (la formidabile Barbara Eden). Il suo personaggio, un maggiore dell’aviazione americana, riuscì a proteggere “l’American dream” con uno spruzzo di magia all’interno della scatola televisiva, mentre fuori c’era solo insicurezza e paura: il fantasma di Kennedy, le lotte razziali, l’instabilità politica, il sangue del Vietnam.

Nel 2005 ho trascorso una giornata al SouthFork Ranch a Dallas, dove sono stati girati tutti gli esterni del famoso serial tv. Ho raccolto diverse testimonianze su Larry Hagman, chiacchierando con chi ci aveva lavorato. Ne è uscito fuori una persona generosa, che faceva tanta beneficenza, disponibile, attenta al mondo che gli stava intorno.

Tocca a tutti gli attori prima o poi sfilarsi di dosso il soprabito dei loro personaggi. Finalmente Larry è tornato ad essere Larry.

Cartolina dal Moulin Rouge di Parigi

Al Moulin Rouge a Parigi il tempo si è inchiodato. Il celebre manifesto di Toulouse-Lautrec, esposto nel foyer come una reliquie, lo sussurra al pubblico eterogeneo in coda per lo show: il curioso, l’appassionato, il fricchettone, l’innamorato perso della Ville lumière. Al Moulin Rouge ci avevo messo piede la prima volta nel 1996. Ero un giornalista alle prime armi allora. Non c’erano i tablet e i miei appunti finirono tra le pagine di un bloc-notes.

Ritornarci dopo tutto questo tempo mi ha convinto ancora una volta che qui non si viene per denudare la vanità e la goffaggine del turista comune, ma per saccheggiare la memoria storica che ogni viaggiatore che si rispetti dovrebbe portarsi via dalla capitale francese.
Si beve una coppa di champagne e si sente aleggiare lo spirito di Edith Piaf; si scorre lo sguardo lungo le mura e sembra che fuori ci sia un lungo flashback su più di un secolo di storia cittadina: dai bombardamenti tedeschi del ’18 alla sommossa contro la corruzione parlamentare del ’34; dall’arrivo degli Alleati del ’44 al Maggio francese del ’68.

L’idiozia comune dell’italiano medio associa il palco del Moulin Rouge al cabaret fatto di tette e culi. Siamo a Parigi, non in Italia, lontani dalla volgarità che ha fatto delle “veline” le piccole stellette della scena comune.
Dopo più di un secolo, il famoso locale di Pigalle sa darci ancora una lezione di stile. Si possono mettere in scena ancora spettacoli come Féerie, in cui un bel corpo femminile, tra stile, brio, musica e coreografie, può soccorrere la memoria. Il miglior modo per respirare l’atmosfera magica è assosciare la sgonnellata di un balletto al rumore delle bombe; le fantasticherie di un artista di strada alle fantasie dei film muti di Mèlies; la melodia di vecchie e nuove canzoni all’urlo delle nuove generazioni francesi, che non ne possono più di politici incapaci.

Ci sono locali che passano di moda; ce ne sono parecchi che svendono la loro anima per stare a passo con i tempi. Il Moulin Rouge non ha fatto nulla di tutto questo. Resta un tempio, anzi no “il tempio”, perché ha capito che il rumore dei passi della storia si può ascoltare anche dentro il perimetro di un can-can indiavolato.

 Moulin Rouge