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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Cartolina dal Moulin Rouge di Parigi

Al Moulin Rouge a Parigi il tempo si è inchiodato. Il celebre manifesto di Toulouse-Lautrec, esposto nel foyer come una reliquie, lo sussurra al pubblico eterogeneo in coda per lo show: il curioso, l’appassionato, il fricchettone, l’innamorato perso della Ville lumière. Al Moulin Rouge ci avevo messo piede la prima volta nel 1996. Ero un giornalista alle prime armi allora. Non c’erano i tablet e i miei appunti finirono tra le pagine di un bloc-notes.

Ritornarci dopo tutto questo tempo mi ha convinto ancora una volta che qui non si viene per denudare la vanità e la goffaggine del turista comune, ma per saccheggiare la memoria storica che ogni viaggiatore che si rispetti dovrebbe portarsi via dalla capitale francese.
Si beve una coppa di champagne e si sente aleggiare lo spirito di Edith Piaf; si scorre lo sguardo lungo le mura e sembra che fuori ci sia un lungo flashback su più di un secolo di storia cittadina: dai bombardamenti tedeschi del ’18 alla sommossa contro la corruzione parlamentare del ’34; dall’arrivo degli Alleati del ’44 al Maggio francese del ’68.

L’idiozia comune dell’italiano medio associa il palco del Moulin Rouge al cabaret fatto di tette e culi. Siamo a Parigi, non in Italia, lontani dalla volgarità che ha fatto delle “veline” le piccole stellette della scena comune.
Dopo più di un secolo, il famoso locale di Pigalle sa darci ancora una lezione di stile. Si possono mettere in scena ancora spettacoli come Féerie, in cui un bel corpo femminile, tra stile, brio, musica e coreografie, può soccorrere la memoria. Il miglior modo per respirare l’atmosfera magica è assosciare la sgonnellata di un balletto al rumore delle bombe; le fantasticherie di un artista di strada alle fantasie dei film muti di Mèlies; la melodia di vecchie e nuove canzoni all’urlo delle nuove generazioni francesi, che non ne possono più di politici incapaci.

Ci sono locali che passano di moda; ce ne sono parecchi che svendono la loro anima per stare a passo con i tempi. Il Moulin Rouge non ha fatto nulla di tutto questo. Resta un tempio, anzi no “il tempio”, perché ha capito che il rumore dei passi della storia si può ascoltare anche dentro il perimetro di un can-can indiavolato.

 Moulin Rouge

Cartolina da Torino: Il “razzismo” di un cronista e “la puzza dei napoletani”

I social network lo hanno linciato, l’azienda in cui lavora si è limitata a sospenderlo. Giampiero Amandola era un giornalista anonimo fino alla settimana scorsa. E’ riuscito finalmente a guadagnarsi un pizzico di celebrità, firmando un servizio “razzista” per il Tg3 Piemonte in occasione della partita Juve-Napoli di sabato scorso. Nel mirino non c’erano gli extracomunitari o i vucumprà, ma coloro che dagli anni’ 50 del secolo scorso hanno dato al capoluogo piemontese, assieme agli altri meridionali, la più grande forza lavoro dal secondo dopoguerra ad oggi: i napoletani.

“I napoletani che puzzano” sembra un vecchio slogan stampato sui volantini anonimi lasciati all’entrata della fabbrica che produceva le automobiline del Belpaese del Boom. L’urlo e le definizioni della rete bastano e avanzano per sintetizzare la meschinità di Amandola e l’accaduto non merita neanche di essere commentato.
Tuttavia, bisognerebbe fare un passo indietro e capire come possa accadere che vada in onda sul Servizio Pubblico televisivo marciume di una tale portata. E’ legittimo chiedersi, senza per forza fare il mestiere di giornalista: Chi ha dato il benestare per mandare in onda il servizio? Se fosse accaduto all’epoca della lottizzazione RAI del Pentapartito sarebbe scoccata la bufera: Democristiani e socialisti  con il dito puntato contro i comunisti che occupavano il suolo del terzo canale.

Se ciò accadesse in Gran Bretagna, nel tempio della BBC, vedremmo “il cronista d’assalto” sbattuto fuori dalla porta con una lettera di “licenziamento” tra le gambe. Ahimé, siamo in Italia, dove riusciamo a far passare per “un servizio giornalistico di colore” qualcos’altro.

I tifosi che sono stati al gioco, dovrebbero farsi raccontare dai genitori e dai nonni che “i napoletani puzzavano” quando uscivano dalle fabbriche di Torino. Di quell’odore ne andavano orgogliosi perchè, rincasando, potevano guardare negli occhi mogli e figli con la dignità di chi conosce i sacrifici e lo sfinimento della fatica.
Chi ha lanciato invece la scialba provocazione, dovrebbe imparare a memoria un’affermazione di Elsa Morante, che in questi dieci anni in cui vivo lontano da Napoli, recito tutti i santi giorni mentre mi guardo allo specchio e mi sento orgoglioso di essere stato partorito dalla mia terra: “Grande civiltà di Napoli: la città più civile del mondo. La vera regina delle città, la più signorile, la più nobile. La sola vera metropoli italiana”.

 

  Juve-Napoli, Rai sospende giornalista Tg Piemonte

Che senso ha un sequel di “Dallas”? Forse meglio un prequel…

Torna Dallas, di martedì e su Canale 5. Per la generazione 2.0 rappresenta forse solo la città dove assassinarono John Kennedy; per le nostre mamme invece è il titolo di uno dei serial televisivi più famosi al mondo. Spopolò negli anni ’80 e si contese con l’altra saga, Dinasty, lo scettro del prime time.

Torna il malefico J.R., interpretato dall’impeccabile Larry Hagman, ma ormai i tempi sono cambiati per loro come per noi. Torna lo stesso giorno, proprio di martedì come allora, ma in una tv che affoga nell’ingordigia e nello spaesamento del digitale terrestre. L’America degli Ewing, sciabordante dal tubo catodico, rifletteva l’irrefrenabile rampantismo del repubblicano hollywoodiano Ronald Reagan.
Quell’America è roba da libri di storia ormai: siamo in piena recessione, la classe media è stata spazzata via e il Presidente dalla pelle nera, icona del “New American Dream, sta rincorrendo con il fiatone il rivale repubblicano, pronto a scippargli il trono alla Casa Bianca tra meno di un mese.

Il Southfork Ranch di Dallas, location del serial, che ho visitato nel 2005, si è trasformato in un mini resort per cerimonie e meeting, nonché meta di pellegrinaggio per i più fanatici. I curiosoni, attratti dalla mega piscina in cui Bob e Pamela si tuffavano, si sono dovuti ricredere. Tanto rumore per nulla. Si trattava di piccola pozzanghera nel cemento, simile alla piscina gonfiabile della mia vicina di casa.

Nelle nuove puntate la famiglia Ewing è quasi decimata e dei nuovi rampolli forse non ce ne fregherà più di tanto. Forse più di un sequel, sarebbe stato proficuo scrivere e mandare in onda un “prequel”, per capire come i petrolieri più famosi del piccolo schermo yankee fossero arrivati al potere e con quali appoggi. Avremmo riletto l’America degli anni ’70, flagellata dai traumi post-Vietnam, dando una bella lezione anche all’oratore Clint Eastwood. Il monologo della sedia vuota, inscenato alla Convention Repubblicana, avrebbe dovuto dedicarlo a Richard Nixon. E un prequel di “Dallas” gli avrebbe dato indicazioni precise.

Quelli che il calcio: Voglio la Minetti “finta” tutta per me!

I gusti sono gusti ed io voglio la Minetti, quella “finta”, tutta per me. Una ventata di freschezza, visto che le previsioni del prossimo palinsesto autunnale ci porteranno verso la noia e ripetitività. L’imitazione di Virginia Raffaele, nei panni della consigliera regionale nella puntata di domenica di Quelli che il calcio, ha già bucato lo schermo e tutti i social. Da Facebook a Twitter non si fa che prolungare uno sfottò che è stato messo in piedi a regola d’arte.

Per quale motivo la Nicole Minetti della Raffaele, così perfetta nel modo di muoversi, di parlare, di stemperare il teatrino della politica del Belpaese, dovrebbe meritarsi delle sculacciate? Ci siamo lasciati alle spalle da vent’anni la censura televisiva della Balena bianca, ma c’è ancora chi affossa il pensiero sotto il tappeto della Prima Repubblica: un siparietto di satira sgargiante usato per fare campagna elettorale.

Macché, con tutto quello che stanno passando, gli italiani sarebbero così fessi da farsi infinocchiare da un siparietto televisivo? Anzi, se avessero dato retta alla satira “preventiva” della tv degli ultimi trent’anni, anni luce dietro dal tormentone del bunga-bunga, forse la nostra storia repubblicana avrebbe preso tutt’altra direzione. Ahimé, ridiamo per non piangere, perchè il teatrino purtroppo è fuori lo schermo. Ed è quello che dovremmo “censurare”, per non apparire agli occhi dei nostri figli i bamboccioni che alle urne ci cascano sempre.

Il siparietto di Virginia Raffaele a “Quelli che il calcio”

Festa della Mamma: Un petalo di margherita a Micol Fontana

“Son tutte belle le mamme del mondo”, cantava Giorgio Consolini all’alba degli anni ’50. Sono ancora più belle “le mamme” che hanno deciso di esserlo in tutto e per tutto, comprese quelle lavoratrici. E ancora oggi qualche volta sento palleggiare il solito luogo comune da chi punta il dito e giudica: “Tu donna in carriera? Lascia perdere l’idea di avere un figlio, non fa per te”.

Mi è tornata in mente una scena in bianco e nero dell’Italia del ‘900. Una donna imprenditrice che non dimenticò mai di essere madre. Micol Fontana, che da sartina di provincia si trasformò in una delle più grandi stiliste del mondo, non sacrificò mai l’amore sterminato per la figlioletta Maria Paola.
Rivedendo la fiction riproposta dalla Rai su una parte della sua vita, mi ha colpito la scena in cui va a riprendersi la figlia a casa dei suoceri. Il primo marito voleva liquidarla così: “Tu dedicati ai tuoi abiti, a Maria Paola ci penso io”. Micol non si separò più dalla bimba fino al giorno in cui la piccola fu strappata prematuramente alla vita, per aver preso il tifo.

Nel giorno della Festa della Mamma ho scelto Micol Fontana per restituirle un pezzettino della sua maternità, anche se non sono suo figlio. Non ho mai avuto una bisnonna e Micol potrebbe esserlo. Le offro un petalo della prima margherita che raccolsi per mia madre in un campo alla periferia di Napoli trentacinque anni fa. Quel petalo non colmerà il vuoto per la perdita di Maria Paola, ma le ricorderà di essere madre per l’eternità,  la più tenera.

 Fondazione Micol Fontana

Cosa faremo senza Emilio Fede dopo vent’anni di TG4?

Non sarà più la stessa cosa senza Emilio Fede. Ci ha abituati a vent’anni di spudorata e onesta faziosità. Non meravigliamoci se il TG4 perderà audience. Chi bersaglieremo adesso con gli immancabili sfottò? Finisce un’epoca, battezzata dal racconto dei primi bombardamenti su Bagdadh nel ’91, quando ancora le reti del Biscione si stavano preparando ad oltranza per entrare nell’olimpo dell’informazione.

Se fosse vivo Jim Henson, autore dei mitici Muppets, gli chiederemmo di realizzare un pupazzo e chiamarlo Emilio. Lo finanzieremmo con una questua tra le casalinghe tele guardone che, negli ultimi decenni, si sono intrattenute con le telenovele di Grecia Colmenares e informate con il tiggì del Fede(le). Perché non mandare in onda una striscia, prima del TG4, sulla falsa riga degli “Sgommati”, con tutti i siparietti e le gaffe che il giornalista ci ha regalato in tutto questo tempo?

Non si capisce bene cosa sia stata la molla che ha trasformato “la domus” di Cologno Monzese nello spietato buttafuori che non guarda più in faccia nessuno: l’età anagrafica, difficile da nascondere tra colpi bassi di lifting e l’arem delle letterine del telegiornalismo patinato; le bravate dei compagni di merenda Emilio e Lele; le malelingue sulle rubacuori o il malloppo seppellito in Svizzera.

Ad Emilio Fede va riconosciuto un merito, quello di aver navigato il vascello della tv privata allo stesso modo di quella Pubblica, ai tempi in cui in Rai si capiva a colpo d’occhio da che parte stavi. E forse da oggi non lo incroceremo più con gli occhi sbarrati al tavolo da gioco di un casinò, ma nel baretto paesano sottocasa, il posto trash che univa intorno ad un bicchiere di vino i vecchi democristiani nostalgici. Gli stessi che, nella belle epoque radio-televisiva del secolo scorso, se ne andavano su e giù per i corridoi di viale Mazzini a cercare il padrino con cui imparentarsi.

Sanremo 2012 #2: Svendo su eBay Emma e Dolcenera, ma ridatemi Marlene Kuntz e Carone!

Sono ancora in tempo per gli ultimi saldi fine stagione? Se si tratta del Festival di Sanremo, finisco su eBay per un bel baratto musicale. Svendo l’impegno sociale gonfiabile di Emma e il “Ci vediamo a casa” di Dolcenera in cambio dello stile dei Marlene Kuntz e del sussurro giovanile di Pierdavide Carone, con o senza lo spintone di Dalla.

Ieri sera a Sanremo è arrivato il buttafuori e così in quattro sono stati lanciati giù dalla torre, inclusi D’Alessio e la Bertè che potrebbero tornare in gara con la benedizione del televoto. Si sa che lo chou napoletano è sempre supportato dall’uragano popolare. Sanremo Social sembra un bluff e tra i giovani è un’impresa affezionarsi ad una canzone.

Sì, perché dimenticavo: questo è il festival del cantante e non della canzone. Anzi, direi del “molleggiato” che, impugnando una predica sottocosto, ha fatto decollare lo share. Il Festival di Sanremo commissariato mi sembra una barzelletta da “Prima Repubblica”, perché la censura su Celentano sarebbe davvero una beffa. Piuttosto avrebbe avuto un senso sospendere la gara ,dopo l’osceno inghippo del voto della prima serata.
Gli sponsor pagano un botto e i discografici soffrono di meno. Sanremo sempre più tv e meno festa della musica. Ci stanno convincendo che negli anni avvenire ne possiamo fare a meno, nonostante lo share.

Sanremo 2012 #1: i sermoni del Molleggiato

Luca e Paolo l’hanno detta tutta in meno di una tweettata: sticazzi! Questo è sottotitolo per i non udenti della prima serata del Festival di Sanremo 2012. Canzoni in secondo piano come al solito, Gianni Morandi sottotono, in attesa del salvagente festivaliero: il Molleggiato.

Che noia, che barba, che noia, che barba, con il solito sermone tra religione e politica che scimmiotta un quadretto del teatro dell’assurdo. Pochi silenzi per Celentano, personaggi in cerca d’autore – Pupo & Canalis in primis – e i soliti attacchi scontati. Sticazzi. Questa volta tocca a Famiglia Cristiana e Avvenire, ma non fa nessun effetto, così come tirare in ballo il profeta Gesù o il tango tra musulmani e cristiani. Religione, consulta e tattarattà.

E le canzoni? Sticazzi. Si fa a fatica al primo ascolto, spostando l’attenzione sull’interprete. Un dì era il Festival della Canzone Italiana. Si adegua ai tempi Van De Sfroos, che canta in italiano per bocca della sibilla Irene Fornaciari. Si salvi chi può dai saldi sociali di Emma, dalle coppie scoppiate D’Alessio-Bertè, dalla melodia sgonfiabile di Dolcenera e dalla solita pappa sanremese di Fabrizio Moro, affidata alla voce graffiante di Noemi. Sulla scialuppa di salvataggio ci sono Nina Zilli, Samuele Bersani e Marlene Kuntz.

E la beffa del televoto? Ci risiamo: niente buttafuori per la prima serata. Sticazzi.

Roberto Bolle e Twitter: il ballerino che ha offeso clochard e napoletani

“I senzatetto che s’accampano e dormono sotto i portici del San Carlo, gioiello di Napoli, sono un emblema del degrado di questa città”. L’affermazione di Roberto Bolle, l’osannato ballerino del Teatro alla Scala di Milano, è una doppia e imperdonabile offesa nei confronti dei clochard e degli stessi napoletani. Una riflessione fuori posto destinata ad essere un boomerang verso i VIP saccenti, apostoli delle mode social. Il 2012 è l’anno di Twitter e il cinguettio sta diventando la vetrina prediletta nello star system dello show business italiano.

Peccato che Bolle, come tanti altri suoi colleghi, non abbia percepito la filosofia di una tweettata o il valore di questa piattaforma social, tutto all’infuori del sipario-prigione degli adoni. Le riflessioni necessitano di un pensiero, le offese gratuite di stupidità. Il ballerino del tempio scaligero dovrebbe sapere che, alle porte del Teatro San Carlo di Napoli, proprio dove si erano accampati quei “barboni”, c’è un altro palcoscenico. Quello di oltre tre secoli di storia, consegnata nelle mani di un popolo. In quel punto preciso della città si è giocato il tutto e per tutto, tra sogni e delusioni, in balia di rivolte o rivoluzioni, offrendo un luogo di rifugio anche ai diseredati.

Napoli è da sempre la casa di tutti, senza discriminazioni. Il tweet di Roberto Bolle – rimosso dopo le polemiche a dimostrazione di chi non sa comunicare (mai cancellare un cinguettio!) – potrebbe far da spunto al maestro Roberto De Simone per la creazione di un’opera buffa, che abbia come protagonisti proprio i clochard. I napoletani e i senzatetto dovrebbero chiedere un risarcimento morale al ballerino incauto, barattando di bandirlo dal San Carlo e dall’Unicef.

Viviamo in un paese democratico ed è giusto che ognuno esprima il suo pensiero. I twitterini hanno mostrato il loro dissenso e forse anche quei napoletani, frequentatori assidui di teatri, che una volta avranno visto Roberto Bolle volteggiare sulla scena, convincendosi che una macchina carrozzata di tecnica può essere priva d’anima.

 Bolle e i barboni sotto i portici di Napoli…

 Clochard sotto i portici anche a Londra

 Se Twitter diventa impressionista…

Quella volta con Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della mia gioventù

Il Presidente della mia infanzia fu il partigiano Sandro Pertini, quella della mia gioventù il costituzionalista Oscar Luigi Scalfaro. Mi conquistò con il primo discorso di fine anno, quello del 31 dicembre del 1992. L’Italia era smarrita sotto il tunnel di Tangentopoli, io attraversavo una svolta personale: da una parte il dolore indefinito per la perdita di mio nonno Pasquale, dall’altra la nuova corsa verso la realizzazione dei miei sogni, che oltrepassavano lo steccato del percorso universitario intrapreso.

Del presidente Scalfaro mi colpì la fiducia che ripose nei giovani in quell’invito deciso e convincente: “Non arrendetevi mai, per nessuna ragione al mondo”. Le sue parole bucarono lo schermo televisivo, mi entrarono dentro, decisi di portarmele appresso. Nonostante i suoi toni accesi a volte prendessero la forma colloquiale di un vecchio monarca, la compostezza e il paternalismo di Scalfaro assomigliavano alla premura che un nonno dovrebbe mantenere con costanza nei riguardi dei nipoti.

Un nonno non ce lo avevo più, ma mi restava un Presidente. Dieci anni fa, proprio in questo periodo, lo conobbi personalmente a Striano, un piccolo paese poco distante da Sarno. Lo avvicinai alla fine del suo intervento e gli sussurrai all’orecchio: “Non mi arrenderò mai, per nessuna ragione al mondo”. Lui mi sorrise e aggiunse: “Quando ti ritroverai senza punti di riferimento, recita gli articoli della costituzione italiana”.

Avevo un cappotto di loden quel giorno. Non era l’abbigliamento consono ad uno della mia età, ma indossarlo mi faceva sentire più vicino alle generazioni che mi avevano precedute. Quando sono partito per Milano, alcuni mesi dopo, ho indossato quel cappotto in mezzo alla nebbia, al gelo. Ogni volta qualcuno tentava di sparare contro i miei sogni, mi ronzavano nel cuore le parole di Oscar Luigi Scalfaro, il Presidente del “non ci sto”, il Presidente che se n’è andato in una fredda mattina di gennaio ed ha attraversato con me una parte della mia gioventù ribelle.

 E’ morto l’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro

 La morte di Scalfaro su Twitter

 Il discorso del non ci sto