Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.
Torno a ripeterlo: le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Appresa la triste notizia, la morte diventa “social”: trovi un messaggio che ti invita ad andare su una tale bacheca per guardare la foto taggata, accertarti chi fosse il malcapitato e lasciare il tuo messagino di cordoglio o uno degli aforismi mielosi e preconfezionati che circolano nei social network. A questo punto mi permetto di suggerire alle pompe funebri la vendita di un nuovo servizio: una fan page-lapide o la gestione post-mortem del profilo della persona scomparsa secondo i canoni dell’animazione del villaggio turistico “facebookiano”, anzi pacchiano (fa pure rima!).
Il dolore è troppo serio per finire spiaccicato nella piazza rumorosa della rete; il dolore è privato e tale deve restare, e non può essere vissuto come un passaparola, ma con le persone a cui ci sentiamo davvero vicini. E i legami non si costruiscono sul quantitativo di pseudo-amici che abbiamo in rete, ma nella realtà che ci porta a condividere le emozioni e ci mormora l’amaro “fujetevenne” eduardiano da queste visioni grezze e meschine, a cui mi ribello da quando scalpitavo nel pancione di mia mamma.

Diario di Viaggio: assieme al Covent Garden di Meta di Sorrento

Nei miei viaggi c’è sempre una tappa che non capita mai per caso, perchè ritrovo un pezzettino poco invadente della mia memoria. Al Covent Garden Pub a Meta di Sorrento ho rincontrato qualcosa della mia Londra, quella che mi accoglieva con i grandi musical; ho guardato in faccia la penisola sorrentina che mi ha riportato ai miei esordi sulle pagine del quotidiano il Golfo;mi sono convinto che la complicità familiare può rendere un’attività lavorativa meno dura e trasmettere agli altri la voglia di tornare a stare assieme.
Papà Franco, titolare, inforna pizze e sorride, dopo essersi lasciato alle spalle venti anni di lavoro da dipendente. Poi mi nascondo in cucina, come da bambino facevo sotto la gonnella di nonna Lucia, per assaggiare le coccole cucinate da mamma Carmela, che con il supporto della zia Emma, persino tra i dolci ripropone  quelli fatti in casa con le mani d’oro delle nostre madri. C’è chi si diverte al game Dr. Why seguendo le scaramucce simpatiche di Paolo, c’è  chi chiacchiera sorseggiando i cocktail della bartender Benedetta, io invece sono seduto al mio tavolo. Tra un morso e l’altro del mio panino fantasia, mi perdo tra i sogni di Alessandra e Massimo, che combattono tutti i giorni per uscire dall’infame tunnel della precarietà lavorativa e costruire un futuro di vita coniugale. Tra spizzichi e bocconi si inserisce la simpatia di Michela e Valentina, che quando servono ai tavoli sono davvero uno spasso.
Eppure questo clima di unione e famigliarità, allo scoccare della mezzanotte, mi ha fatto pensare: queste persone inconsapevolmente contribuiscono a rendere il nostro Sud migliore, ma soprattutto a far sentire più unito lo stivale italiano. Poi la mega torta per tutti ci ha rammentato con euforia che la nostra Italia ha soffiato le prime 150 candeline. Che fatica spegnerle tutte, ad una una, pensando che ogni fiammella è luminosa quanto chi ha illuminato il sogno di vivere sulla stessa penisola.
Andando via a malincuore dal Covent Garden, mi sono riportato proprio questo entusiasmo testardo di tornare a stare bene con gli altri. In auto, brancolavo nel buio, fiancheggiando un meraviglioso mare. Ho allungato la mano per rubare una carezza alla persona che mi stava accanto, ma voltandomi ho visto il sedile completamente vuoto. Non c’era nessuno. Ancora una volta sono tornato nel mio Sud per riprendermi qualcosa che credevo fosse mio, invece sono ripartito con una “tasca piena di sassi”: sono i sassi della memoria che si ammorbidiscono quando si dilata il tempo presente e forse diventeranno fiori in un improbabile tempo distante.

L’altro 8 marzo: Per la Festa della Donna la mia mimosa alle vittime della Fabbrica Triangle di New York

Rosario PipoloLizzie Adler, 24 anni, contava i minuti perché finisse il turno. Forse fuori l’aspettavano le carezze del suo fidanzato. Ida Brodsky, 15 anni, non pensava di finire a fare l’operaia, perché alla sua età sognava di avere penna e calamaio e scrivere un tema sul libro che avrebbe potuto leggere la sera prima. Laura Brunetti, 17 anni, singhiozzava ogni volta che le passava davanti l’immagine d’oltreoceano della nonna che la cullava dolcemente, nell’Italia che i genitori avevano lasciato. Dora Welfowitz, 21 anni, aveva ricevuto una proposta di matrimonio e l’aveva presa seriamente in considerazione. Sarebbe uscita da quella maledetta fabbrica una volta per tutte, per fare la moglie e chissà la mamma a tempo pieno.

Julie Oberstein, 19 anni, e le due sorelle Lena e Mary Goldstein, 22 e 18 anni, si ritrovavano ogni volta davanti la solita vetrina newyorkese, sognando di avere abbastanza spiccioli per comprare quel cappello di chiffon. A Provindenza Panno, 43 anni, avevano regalato una piantina e le avevano assicurato: “Tutte le volte che ti mancherà, innaffiala e vedrai che prima o poi tornerà”. Suo marito si era imbarcato come marinaio su una nave e non era tornato più. Teresa Schmidt, 32 anni, aspettava impaziente la chiamata di un albergo per fare l’addetta alle pulizie. Così avrebbe potuto incantarsi ad osservare signori e dame che sbarcavano dalla sua Europa.

I nomi di queste donne sono veri, le storie appiccicate addosso sono frutto della mia immaginazione, che ha tentato invano di addolcire il ricordo crudele della loro scomparsa prematura. Fanno parte della lista delle 146 vittime riconosciute che persero la vita il 25 marzo 1911, nell’incendio della fabbrica Triangle a New York. A che serve ricordare queste operaie proprio l’8 marzo, nel giorno della Festa della Donna?

Perché il Giorno della Mimosa resti soprattutto il Giorno della Memoria ed è questo uno dei motivi per cui è stata istituita la Giornata Internazionale della Donna. Noi forse lo dimentichiamo quando tutto si frantuma nel becero business, nella mortificazione del significato autentico di quel fiore, nell’euforia di una notte che dà un calcio in culo alla memoria per uno streap tease mascolino, in cui il kitsch di un corpo nudo soppianta l’anima dell’essere umano.

No, c’è un altro 8 marzo e non vogliamo dimenticarlo. Perciò, quando offrirete un ramoscello di mimose alla vostra donna, accompagnatelo con un abbraccio intenso e prolungato. Restituite alla vostra fidanzata, a vostra moglie, alla vostra compagna, quel sogno che è stato strappato via a tutte le vittime della fabbrica Triangle.

Il mio 8 marzo sarà diverso dal solito: sosterò fuori una fabbrica e aspetterò all’uscita tutte le donne operaie. E sarà lì mezzo, che giusto un secolo dopo, cercherò il tuo volto. Cara Lizzie Adler, adesso sei una stella che brilla in cielo, ma io ti attenderò come un secolo fa ha fatto il tuo fidanzato. Ti restituirò i tuoi 24 anni perduti, attraverso quella carezza che mai ti arrivò, sperando che le mie mimose riscattino la memoria dalla banalità, senza farmi sentire escluso dal diritto di riflettere.

Sanremo Giovani 2011, vince il jazz ruffiano di Raphael Gualazzi

Non c’era via di scampo e quest’anno non ci sono state le solite zuffe per portare una nuova proposta dell’Ariston sul podio. Raphael Gualazzi vince con la sua Follia d’amore la 61a edizione del Festival di Sanremo nella categoria dei Giovani. Badiamo bene una delle peggiori annate, perché all’Ariston gli emergenti sono passati ancora una volta in sordina, a volte troppo insipidi, per niente sperimentatori o progressisti, mandati in onda a ridosso della mezzanotte, senza uno spazio adeguato, e per giunta messi in castigo dal televoto.
In balia della melodia di Micaela o di Serena Abrami, la vittoria del timido e pacato Raphael in stile jazzato mette tutti d’accordo, anche se il dubbio assillante rimane: questo swing ruffiano vuole fare il verso a Micheal Bublé? Dovremmo chiederlo a Caterina Caselli, l’ape regina della discografia italiana, che ha arruolato Gualazzi nella scuderia Sugar. La Caselli non ha sbagliato mai un colpo e nessuno ci vieta di pensare che Raphael diventi un fenomeno jazz da esportazione.
Intanto, mentre di questi giovani “invisibili” ci dimenticheremo prima di quello che possiamo pensare, il Televoto tira l’ennesimo colpo basso: Tre colori, l’intensa filastrocca musicata di Tricarico, è fuori dai giochi, nonostante a mio parare faccia parte del tris delle migliori canzoni sanremesi assieme a quelle di Vecchioni e di Emma & i Modà. Facciamocene una ragione, con o senza il faccione buonista di Gianni Morandi, il Festival di Sanremo riflette l’Italia del suo tempo, arruffona quanto basta per ripescare la Anna Tatangelo di turno e tenersi la lagna melodica di Luca Barbarossa. Mettiamola così: le belle canzoni sono quelle che vanno via in fretta dai riflettori dell’Ariston, dall’euforia popolare, ma restano confinate nell’animo di quel pubblico che sa cogliere in flagrante l’emozione di raccontare una storia accennata, come quella della nostra bandiera.

Sanremo 2011 Atto III: Roberto Benigni, il giullare sul cavallo bianco

Lo dimenticheremo presto il Festival di Sanremo di Morandi, anche in questa terza serata che ha ripescato, con il sotterfugio del televoto, la soubrettina del Karaoke Anna Tatangelo e ha confermato l’assenza musicale dei giovani: abbiamo scampato il pericolo di Marco Menechini, clone di Valerio Scanu, e gli osceni Btwins, che sembrano usciti da sotto la gonnella di Antonella Clerici.
Lo dimenticheremo in fretta il Festival di Sanremo di Morandi, in questa terza serata che da festa celebrativa per i 150 anni dell’Unità d’Italia ha trasformato il palco dell’Ariston in una sagra paesana, in cui non si è capito il senso della scaletta delle canzoni. Ancora una volta a farla da padroni di casa sono state le insostituibili Iene, Luca e Paolo, a cui va il nostro apprezzamento per averci ricordato il tempo del teatro-canzone di Giorgio Gaber, quello in cui il sipario divideva la riflessione dalla perfida leggerezza. Se Morandi ha ripreso in mano il microfono per cantare, lo spettatore si è arreso dinanzi alla speranza del miracolo dell’ultimo minuto.
Tuttavia, quando la barca sta per affondare, si ricorre al giullare dispettoso, perché lui sa sempre come trovare la via alternativa per raccontare quello che siamo. Roberto Benigni col tricolore in mano e su un cavallo bianco sembra roba da circo equestre, eppure è lui stesso il figlio bello di quest’Italia, che per fortuna non ha prodotto soltanto mostri. Certo Robertino è stato meno pungente del solito e a qualcuno è apparso come cantastorie di ovvietà. Non è così e la risposta l’ho trovata rovistando nella mia bacheca di Facebook, su cui la mia fedelissima lettrice Maria Rosaria ha postato senza pensarci due volte: “Siamo persone che si emozionano, non persone che si meravigliano dell’ovvio”.
E noi vogliamo emozionarci decifrando la millenaria storia che si nasconde nell’inno di Mameli, impastando l’entusiasmo e la passione che trasformò in eroi quella ciurma di ragazzotti che perirono per amore di patria; ammettendo una buona volta per tutte che la gloria si conquista combattendo per la libertà, con dignità, a testa alta. E pensare che ci sono ancora quattro sciocchi che vogliono convincerci del contrario, che vorrebbero l’Italia separata e ridotta ad un’accozzaglia di langhe federali. Non ci voleva il noioso Festival di Sanremo per non calpestare le nostre radici, ma quel piccolo diavolo di Roberto Begnini, che ha cantato senza avere una grande voce. Basta sussurrare le parole su un motivetto senza musicisti e così si finisce diritti al cuore, perché “se qualche volta la felicità si scorda di noi, noi non dobbiamo dimenticarla la felicità”. E questo mi sembra un atto d’amore.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.

Sanremo 2011 atto I: Che barba, che noia!

Abbiamo sperato fino all’apertura del sipario che non fosse catastrofe. Invece questa è davvero la tragedia dell’Italia dalle canzonette che non sa più che pesci prendere. Il Festival di Sanremo condotto da Gianni Morandi è sicuramente il peggiore del nuovo millennio. Chi ha avuto la bizzarra idea di cominciare con la mamma baby-sitter Antonella Clerici, che trasforma un copione da prima serata nella più maldestra cantilena recitata? E’ proprio vero quando si dice che il Festival della Canzone Italiana rispecchi per filo e per segno ciò che siamo in questo momento. Ce lo ricordano i maliziosi siparietti di Luca e Paolo, i veri showmen della prima serata, che sono lapidari tra le belle statuine di Belen e la Canalis.

Gira e rigira la frittata è quella di sempre, con lo spettro del solito intruso, l’innominato ficcanaso che guida l’intera corte a distanza. Questa edizione 61 del festival più amato dagli italiani è così sottotono da sembrare un favore costruito a tavolino per far rallegrare la concorrenza. Gianni Morandi è un pessimo conduttore – perché non ritorna a fare il suo mestiere? – e l’immediatezza scenografica così fantasma da farci scordare che all’Ariston c’è un’orchestra che suona dal vivo.
E delle canzoni ne vogliamo parlare? Quelle dei Campioni le buttiamo tutte giù dalla torre e ci teniamo strette la poesia del prof. Roberto Vecchioni, l’impasse vocalico di Emma & i Modà, la ricercatezza (forzata in qualche punta) di Nathalie, la filastrocca di Tricarico, il folk spedito di Van De Sfroos, la lenta alzata in volo di Battiato. Il brano di Giusy Ferreri non è malaccio, ma l’ex cassiera ha perso così tanta voce da rischiare di tornare tra le corsie del supermercato. Sbadigli a non finire per un Sanremo senza show e senza canzoni. E poi sarà che porta sfiga, ma fa bene una mia lettrice a ricordarmelo. Il Festival non è più lo stesso senza il motivetto della seconda Restaurazione baudiana: “Perchè Sanremo è Sanremo”. Qui c’è poco da ridere e tanto da piangere. Tatangelo via (era ora!), ma avrei tenuto la Oxa cestinando i riciclati Barbarossa e Pezzali, due bidoni in un colpo solo.

Donne italiane in piazza, sull’orlo di una crisi di nervi

Sono italiane le donne sull’orlo di una crisi di nervi e questa volta sono uscite a viso scoperto. Niente mimosa, niente Festa della Donna, niente nastro rosa. L’urlo rabbioso femminile, anzi “femminista”, ha trascinato in ballo pure gli uomini. E questi non erano gli osceni tronisti di Uomoni & Donne, ma mariti, compagni o figli che sono scesi in piazza senza i soliti pregiudizi: stiamocene a casa a guardare la partita di pallone, perché questa è robetta per donne “radical chic”.
Altro che protesta di quattro femminucce inviperite e incazzose! “Se non ora quando?”, la manifestazione delle donne italiane che hanno chiesto una volta per tutte “più rispetto per il gentil sesso”, è stato un vero boomerang lungo tutto lo stivale. Sembrava di essere ritornati ai tempi di una domenica sessantottina, rigorosamente in bianco e nero, dove per una volta poteva andare a farsi benedire il pranzetto allegro tutti in famiglia del Belpaese democristiano. Si torna ad urlare e questa volta c’è poco da fare i furbi.
A scatenare il putiferio è stato il Ruby-gate e quella mostruosa meccanica che vorrebbe convincerci che “le donne sono nudo oggetto di scambio sessuale”. Un bel paio di tette moltiplicate per quanti sono i culi delle bamboline di corte rappresentano davvero l’immaginario collettivo dell’italiano medio, maschilista e smargiasso? Se fosse così, siamo proprio conciati male così come quando, nei battibecchi quotidiani, ci imbattiamo nell’acidità femminile che ingigantisce le piccole delusioni nel banale ta-ra-ta-ta: “Gli uomini sono una razza inutile, ne possiamo fare a meno”.
La piazza ha ancora fascino di seduzione o il potere di far cadere gli imperatori? In alcune immagini passate in tv, mi è sembrato di rivedere quel mucchietto di donne agguerrite appostate fuori alla Casa Bianca per chiedere a Nixon, il peggiore Presidente della storia americana, di farla finita una volta per tutte con la guerra in Vietnam. Eppure quell’urlo col megafono non riuscì a fargli staccare il sedere dal trono, finché il joker dal ghigno malefico non fu sbattuto sul lastrico dal Watergate. L’Italia non vuole più aspettare e urla senza megafono: Se non ora quando?

14 febbraio, San Valentino: lo scintillio

Rosario PipoloMessaggi palleggiano da una bacheca all’altra, frasi confezionate affollano i social network e gli aforismi accartocciati dei Baci Perugina sembrano finiti in una vecchia soffitta. Ah sì, si avvicina San Valentino e persino chi non può far a meno della festicciola rubacuori commette la solita gaffe: il 14 febbraio non è la festa né dei fidanzati né degli innamorati, ma rischia di essere un giorno qualunque con i tempi che corrono. Quest’abbondanza di avance virtuali su Facebook o un solletico emotivo su Twitter ci allontana da una sorta di incantesimo, che non è prigioniero di una bella fiaba, ma è vivo nella realtà: lo scintillio.
Non si tratta né del colpo di fulmine, né della sbandata passeggera, né del fuoco di paglia che può spegnersi in una notte di passione. Lasciamo che il falò della vanità dei sentimenti si consumi nelle agorà finte dove il “mi piace” ad un foto tenta di sopraffare l’insostituibile incontro. Quello casuale, apparentemente insignificante, quello in cui ti freghi perché è lì che ci scappa lo scintillio. No, non è una scintilla, non fraintendetemi, è uno stato di benessere interiore che scivola tra le anime di due persone. E’ un equilibrio così denso da far entrare in un batter baleno il tuo essere in quello dell’altro, senza tener conto delle distanze anagrafiche, geografiche, sociali, culturali o del colore della pelle.

Lo scintillio
si manifesta in uno sguardo, nei suoi occhi e non è quella classica luminosità sul viso che può trarre in inganno. E’ una luce minuscola accucciata di sbieco tra le sue pupille, che si intravede persino se lei è occhialuta. Appena si toglie gli occhiali, lo scintillio ne approfitta e si manifesta in tutto il suo abbaglio. Al momento non ci fai caso, fai finta di niente e vai via come se nulla fosse successo. Invece è accaduto, perché lo scintillio arriva senza far rumore, a piedi nudi, come i passi silenziosi tra la neve.

E tu svampito che pensavi di restare a mani vuote nel giorno di San Valentino, hai visto come un giorno qualunque può diventare un giorno speciale.  Lei invece è lì, con la luce accesa fino a tarda notte, alle prese con l’ennesimo ripasso. Si stropiccia gli occhi, toglie gli occhiali e non si accorge che è San Valentino pure per lei, perché non vede il postit appiccicato tra le pagine del suo libro in cui è scritto più o meno così: “Mia cara, le principesse non sono quelle che hanno una schiera di servitori o vivono a corte, ma le ragazze speciali e distratte, che senza saperlo custodiscono in uno sguardo la magia dello scintillio”.

  Colazione da Tiffany, 50 anni dopo…

  Diario di Viaggio: oltre la strada della mia infanzia

  A te

Amazon Italia e il pessimo Customer Service!

Lo shopping on line ha le sue regole e la sua disciplina. Questo mi sembra logico. Tuttavia, il Customer Service* resta il fiore all’occhiello anche di un megastore on line come Amazon Italia. Badiamo bene che un bravo operatore deve sempre seguire la policy di vendita del brand, ma anche valutare caso per caso e confrontarsi con i suoi responsabili. Può non accadere e così un frettoloso “copia e incolla” delle regole di vendita è la peggiore scorciatoia per fidelizzare il cliente. Mettete il vostro acquisto nel carrello, lo depositate lì per qualche giorno, caricate la vostra prepagata e poi prima dell’acquisto vi ritrovate il prezzo rialzato. Il gioco vale la candela? Un 16% in meno su un prodotto musicale che supera abbondantemente i 200€ non è poi così malaccio. Anzi, corrisponde quasi all’ingiusta IVA che mortifica la musica in Italia e non la considera “cultura”.
Insomma, gli umori di vendita di Amazon Italia sono così lampo e le offerte così ballerine, rispetto ai cugini di UK, Francia e Germania, da sembrare specchietto per le allodole. Mentre dal marketing arrivano brillanti newsletter per dirti sottobanco “Perché continui a spendere su Amazon UK quando ci siamo noi in Italia?”, l’incauto e ingessato operatore ci mette del suo. La risposta non è poi così scontata: forse acquistiamo in UK perché il Customer Service ne sa qualcosa in materia di problem solving e valutazione del singolo caso. Le politiche commerciali sono una cosa – alziamo il prezzo del box in Blue-Ray di Harry Potter (UK import) e abbassiamo la versione italiana che c’è rimasta sullo stomaco – ma quelle del Servizio Clienti sono le più delicate perché fanno la differenza di una vetrina.
Su Amazon Italia ci sentiamo “global” soltanto nella navigazione, perché ad un passo dall’acquisto ci ricordiamo di essere in Italia, il paesotto alla buona in cui persino un anglosassone doc come sir William Shakespeare è riuscito a metterci alla porta con gusto e galanteria. Continuiamo ad acquistare musica e intrattenimento su Amazon UK? Sì, soprattutto se abbiamo la presunzione bonaria di sentirci anglosassoni e, per una volta, senza la puzza sotto il naso.

*Tengo a precisare che dal 2013 il Servizio Clienti ha fatto passi da gigante con l’efficienza di gran parte degli operatori. Rispetto a questo post pubblicato, la differenza di un operatore la fa la capacità di sapere gestire il singolo caso.